Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-08-2012, n. 14193

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con sentenza dell’8/1 – 14/10/09 la Corte d’Appello di Roma – sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione proposta da A.F. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Roma con la quale era stato condannato al pagamento in favore della Banca di Roma, sua ex datrice di lavoro, della somma di Euro 101.000,07 per effetto del parziale accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla società bancaria per i danni arrecati dal medesimo dipendente al correntista D.G.G., danni rifusi a quest’ultimo dall’istituto di credito, in conseguenza di operazioni bancarie, sia convenzionali che in derivati, mai autorizzate dalla parte datoriale.
Nel confermare l’impugnata sentenza la Corte d’appello ha evidenziato il contenuto confessorio delle dichiarazioni rese dall’ A., al medesimo sfavorevoli e non efficacemente revocate, l’accertata riferibilità alla sua persona delle operazioni bancarie incriminate, stante il riconoscimento della propria sigla svolto dall’appellante con riguardo a tutte le contabili bancarie, tranne due di esse, e gli esiti della prova testimoniale, che aveva consentito di appurare l’anomalo modo di operare del ricorrente in ordine alla conduzione delle operazioni rivelatesi dannose per il correntista D.G., non essendosi il dipendente premunito di farsi dare da quest’ultimo conferma scritta dei relativi ordini.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’ A., il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso la XXXS.p.A. che deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo l’ A. lamenta il vizio della violazione ed erronea applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2732 c.c. in ordine alla dedotta revoca della sua confessione.
Attraverso tale motivo, il ricorrente, nel contestare la parte della decisione con la quale la sua responsabilità è stata motivata sulla base del valore confessorio del contenuto delle dichiarazioni, ritenute non efficacemente revocate, rese il 15 ed il 30 settembre 1998, tenta di dimostrare l’errata interpretazione giudiziale dell’art. 2732 c.c. in materia di revoca della confessione, assumendo che la valutazione dell’efficacia della revoca non poteva prescindere dall’esame del contenuto delle dichiarazioni rese nelle suddette occasioni, dal momento che egli non avrebbe potuto dimostrarla con testi, dato il clima in cui si era svolto il pressante interrogatorio dei funzionari bancari senza la garanzia della presenza di terzi e, quindi, in una posizione di debolezza per il dichiarante.
Il motivo è infondato.
Invero, dopo aver rilevato, all’esito dell’istruttoria, che le dichiarazioni scritte del 15/9/98 e del 30/9/98 assumevano valore confessorio in quanto contenenti fatti sfavorevoli al dichiarante A., la Corte d’appello ha correttamente precisato che le stesse non potevano ritenersi efficacemente revocate dal momento che il lavoratore non aveva fornito alcuna prova, così come richiesto dall’art. 2732 c.c., nè dell’errore di fatto, nè della violenza.
Quindi, il ricorrente non considera che la confessione può essere invalidata solo se è dimostrata la non veridicità della dichiarazione e che la stessa è stata frutto di violenza od errore di fatto, non potendo una tale rigorosa dimostrazione essere sopperita da altre forme di indagine giudiziale o da mere presunzioni Si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 15618 dell’11/8/2004) che "la confessione può esser invalidata (e non "revocata", perchè gli effetti sostanziali e processuali di essa non sono rimessi alla volontà del dichiarante) soltanto se il confidente dimostra non solo l’inveridicità della dichiarazione, ma anche che essa fu determinata da errore di fatto o da violenza. Ne consegue che, dovendo il dichiarante allegare e provare anche i vizio d’origine della dichiarazione confessoria, al fine dell’invalidazione non è sufficiente dedurre prove testimoniali limitatamente alla non rispondenza al vero del fatto confessato".
Si è anche avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 547 del 21/1/1999) che "in base all’art. 2732 cod. civ. alla parte che abbia reso confessione non è concesso di poter fornire dimostrazione diversa da quella della "revoca" (o invalidità) della confessione stessa in conseguenza di errore di fatto in cui incorse o di violenza su di lei esercitata. La suddetta disposizione, tassativamente espressa, non può mai essere derogata; ad essa, pertanto, restano assoggettate anche le controversie di lavoro non potendo, neanche in queste, alla mancanza di prova ad opera della parte supplire il potere di indagine lasciato al giudice (che rimane limitato, secondo la disciplina generale, alla ricerca dell’"animus confitendi").
Inoltre, i mezzi di prova di cui, al suddetto fine, la parte confidente richieda l’acquisizione o l’espletamento debbono essere idonei a fornire la dimostrazione rigorosa non di un’eventuale contrarietà dei fatti oggetto della confessione rispetto ad altri presuntivamente verificatisi, ma direttamente della ragione che determinò la caduta in errore sulla veridicità delle circostanze dichiarate (e in effetti non veridiche) o i fatti di violenza sofferti che indussero il dichiarante a precludersi nel futuro il ricorso alle normali vie di difesa per resistere alle richieste avversarie, tenuto conto che – almeno per l’ipotesi in cui si assuma che la confessione fu estorta con violenza – non occorre dimostrare l’obiettiva falsità del fatto".
2. Col secondo motivo il ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova, oltre che l’omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, su un punto decisivo della controversia rappresentato dalla valutazione delle prove.
In tal caso il ricorrente contesta la parte della decisione in cui si afferma, ai fini della individuazione della sua responsabilità, che egli aveva riconosciuto come sua la sigla apposta su tutte le operazioni bancarie, fatta eccezione per due di esse.
In pratica, l’ A. ritiene che la circostanza per la quale egli aveva fatto la suddetta ammissione non equivaleva ad ammissione di certificazione dell’esecuzione degli ordini che avevano dato luogo alle contestazioni, ma solo ad ammissione dell’eseguito controllo, a fine giornata, degli ordini ricevuti da tutta l’agenzia, senza considerare che diversi ordini si riferivano ad altri operatori. A quest’ultimo riguardo il ricorrente si duole dell’inversione dell’onere della prova conseguente all’affermazione del giudice del gravame di esigere che la dimostrazione dell’utilizzo del suo terminale da parte di terzi fosse fornita da esso appellante.
Osserva la Corte che tale motivo, così come prospettato, presenta, nel contempo, profili di inammissibilità e di infondatezza.
Anzitutto è inammissibile nella parte in cui propone una rivisitazione del merito dell’istruttoria non consentita nel giudizio di legittimità, laddove le motivazioni della sentenza impugnata siano esenti, come nella fattispecie, da vizi di natura logico- giuridica ed adeguatamente argomentate.
Invero, non va dimenticato che "in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, ai quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti)" (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).
Nella fattispecie, la Corte d’appello ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, l’ampio materiale istruttorio raccolto, per cui le doglianze appena riferite non ne scalfiscono la relativa "ratio decidendi".
In effetti, non può non evidenziarsi che la censura è vanificata dal fatto stesso che il contenuto contessono delle dichiarazioni ha trovato riscontro anche nelle risultanze testimoniali adeguatamente valutate dal giudice d’appello.
Il motivo è, invece, infondato nella parte in cui deduce l’inosservanza dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente è, invece, corretta la decisione della Corte di merito di porre a suo carico l’onere di dimostrare la circostanza, dal medesimo dedotta, di un presunto utilizzo da parte di altri operatori, a sua insaputa, del suo terminale nel quale era inserito il suo codice personale, trattandosi di un fatto estintivo o modificativo della sua responsabilità, responsabilità che il giudice d’appello ha desunto, con motivazione congrua, sia dal riconoscimento, ad opera del medesimo A., della sigla apposta su tutte le contabili bancarie, ad eccezione di due soltanto di esse, sia dalla deposizione del teste F.B..
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente procedimento nella misura di Euro 4000,00 per onorario ed Euro 70,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *