Cass. civ. Sez. III, Sent., 07-08-2012, n. 14180

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Bologna accoglieva le opposizioni promosse dalla XXX (già XXX S.r.l.) avverso quattro decreti ingiuntivi ottenuti dalla XXX S.r.l., aventi ad oggetto la consegna di prodotti, e li revocava. Premesso che fra le parti era stato stipulato, in data 19.12.1994, un contratto di concessione di rivendita in forza del quale, alle condizioni ivi indicate, la concedente XXX S.r.l. autorizzava la concessionaria XXX a vendere, dare in leasing o in licenza, i sistemi ed il software XXX relativi all’area delle radio frequenze, il Tribunale rilevava a) che il contratto imponeva ad XXX S.r.l. di fornire alla concedente con cadenza mensile la previsione (XXX) delle vendite e di sottoscrivere un impegno di acquisto (XXX) su base annua e che solo tali adempimenti (nella specie non assolti) obbligavano XXX ad accettare l’ordine ovvero ad eseguirlo nei termini di cui alla relativa conferma; b) che la documentazione agli atti non era dimostrativa della modifica delle predette clausole negoziali, quale addotta da XXX S.r.l., in base alla precedente "costante prassi" di XXX di dar corso agli ordini, pur in assenza dei XXX e del XXX, nel termine di 60 giorni dall’ordine.
2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata in data 21 febbraio 2006, la Corte di Appello di Bologna respingeva l’appello dell’XXX, dato che questa non aveva diritto nè di pretendere, con riguardo agli ordini pur confermati, il rispetto dei termini di consegna ivi indicati, nè l’accettazione degli ordini non confermati. Secondo la Corte territoriale, la fattispecie andava riguardata più sotto il profilo del principio generale di esecuzione del contratto secondo correttezza e/o buona fede (art. 1175 c.c.), piuttosto che sotto il profilo delle norme aventi ad oggetto l’interpretazione del contratto (in particolare secondo il disposto di cui all’art. 1366 c.c.), laddove il significato e l’intenzione negoziale delle precisate clausole non appariva posto in discussione neppure dall’appellante. Premettendo che non era seriamente contestato neppure dalla XXX di avere per un certo tempo accettato e dato regolare esecuzione agli ordini ricevuti da XXX nella pacifica assenza di XXX e XXX, si trattava di verificare se tale comportamento esecutivo, non coerente rispetto alla disciplina del contratto, fosse frutto di una mera tolleranza irrilevante ovvero fosse espressivo di una diversa scelta negoziale con cessazione dell’efficacia delle clausole contrattuali in questione. Quest’ultima prospettazione della XXX andava, tuttavia, disattesa. Innanzitutto, in considerazione dell’equilibrio economico del rapporto originariamente stabilito dai contraenti, laddove le clausole che da un lato vincolavano la concessionaria a fornire determinate previsioni di acquisto e dall’altra abilitavano la concedente a non accettare gli ordini o a non rispettare i termini di consegna indicati nelle relative conferme corrispondevano ad un preciso interesse di entrambe le parti, laddove XXX S.r.l.
– in base ai XXX ed ai XXX – poteva e doveva rifornirsi adeguatamente dalla casa madre americana dei prodotti necessari onde far tempestivamente fronte alle ordinazioni che era obbligata ad accettare; a sua volta XXX S.r.l. aveva garanzia del buon esito degli ordini che avrebbe trasmesso alla concedente. I "XXX" rappresentavano, inoltre, parametro imprescindibile del giudizio di affidamento economico della concessionaria (art. 5, ultimo paragrafo, del contratto). Infine, l’art. 8 del contratto prevedeva espressamente l’ipotesi di una divaricazione fra comportamenti esecutivi e accordo stabilendo che "la mancata denuncia dell’inadempimento di qualsiasi obbligo del presente Contratto non potrà essere interpretata come una rinunzia al diritto di denunziare ulteriori inadempimenti, nè determinerà l’inefficacia delle clausole che li disciplinano". Atteso l’equilibrio contrattuale così delineato, era impossibile valorizzare la prassi adottata per circa un anno al fine di ritenere non solo che XXX avesse rinunciato definitivamente alle clausole che le consentivano un controllo sul rapporto contrattuale, ma neppure che l’XXX avesse potuto ritrarne un ragionevole "affidamento" sul fatto che la concessionaria non le avrebbe in qualsiasi momento riapplicate. Il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto si manifestava, quanto ad XXX, anche nell’interpretare il comportamento della controparte alla luce del contratto e, nella specie, delle precise indicazioni fornite dalla citata clausola 8 che lo qualificavano in termini di mera tolleranza, pur sempre necessaria secondo analoghi parametri di buona fede, laddove XXX avesse ritenuto di volta in volta che non ne veniva pregiudicato il proprio interesse. Il parametro della tolleranza non andava necessariamente correlato al tempo durante il quale il diverso comportamento si sarebbe manifestato e che, in concreto, era d’altronde assai minore rispetto a quello prospettato poichè la XXX aveva cominciato a non evadere completamente gli ordini o ad evaderli dopo i termini indicati nelle conferme d’ordine a partire dal primo di quelli qui in contestazione, risalente all’inizio di marzo 1996. L’invocato parametro della buona fede – così come doverosamente applicato ad entrambi i contraenti – assumeva un ben preciso ruolo di salvaguardia del contratto, anzichè rappresentare un valore di correttezza estraneo allo stesso. Nè l’XXX aveva dedotto l’insorgenza di elementi intrinseci all’assetto economico del rapporto contrattuale, tali da incidere sul bilanciamento dei contrapposti interessi sottostanti alle reciproche obbligazioni originariamente negoziate ed idonei a conferire alla mancata denuncia di inadempimento da parte di XXX S.r.l. ed alla conseguente condotta di esazione degli ordini un carattere più qualificante rispetto alla presunzione di mera tolleranza contrattualmente prevista.
3. L’XXX propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria; l’XXX resiste con controricorso e chiede dichiararsi inammissibile e, in subordine, infondato il ricorso.
Questi sono i motivi:
3.1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1366 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, perchè la Corte di Appello, non ritenendo la sussistenza di ambiguità nel testo contrattuale, avrebbe erroneamente omesso di far ricorso al criterio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede e completamente omesso una tale attività ermeneutica che, a ben vedere, invece, andrebbe compiuta in ogni caso, anche in relazione al comportamento successivo delle parti. La Corte territoriale, affermando che la fattispecie andava riguardata sulla base dell’esecuzione del contratto secondo buona fede, anzichè delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 ss. c.c. e specie dell’art. 1366, sarebbe incorsa in errore sotto un duplice profilo e, comunque, non avrebbe adeguatamente motivato. In primo luogo, avrebbe trascurato che il comportamento delle parti, successivo alla conclusione del contratto, non viene in considerazione solo come esecuzione dell’accordo contrattuale, ma può altresì venire in considerazione come fonte di ricostruzione dell’intenzione comune delle parti, a norma dell’art. 1362 c.c., comma 2. In secondo luogo, avrebbe dimenticato che il principio di buona fede, oltre ad operare quale fonte di regole sulla corretta esecuzione del contratto, il contenuto, interviene altresì in sede di interpretazione: in base al combinato disposto dell’art. 1362, comma 2 e art. 1366, il canone della buona fede deve essere osservato anche nella valutazione del comportamento successivo delle parti, ove da questo emergano elementi utili alla ricostruzione della comune intenzione delle parti.
Inoltre, la Corte d’appello nel motivare la propria scelta di non ricorrere al criterio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede, avrebbe finito per contraddirsi: nel momento in cui ha ritenuto che la fattispecie sottopostale andasse esaminata sotto il profilo dell’esecuzione del contratto secondo buona fede e non già sotto quello dell’interpretazione, dato che "il significato e l’intenzione negoziale delle precisate clausole non appare posto in discussione", avrebbe dimostrato di aderire al criterio dell’interpretazione letterale e all’ormai superata opinione per la quale in presenza di clausole chiare e non discusse non è necessario il ricorso all’interpretazione secondo buona fede. Avrebbe erroneamente considerato, come già aveva fatto il Tribunale, il criterio dell’interpretazione secondo buona fede come sussidiario rispetto a quello letterale e, pertanto, invocabile unicamente a fronte di un testo contrattuale ambiguo e controverso, senza considerare l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte. Che avrebbe riconosciuto, in contrasto con 1 orientamento precedente, il carattere primario del principio di buona fede, quale criterio di interpretazione oggettiva del contratto non subordinato all’applicazione dei criteri d’interpretazione soggettiva, volti alla ricerca della comune intenzione delle parti. Richiama, al riguardo, Cass. 17 febbraio 2004, n. 2992; 25 gennaio 2000 n. 805.
3.2. Violazione e falsa applicazione degli arti. 1362 e 1326 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La Corte territoriale, ritenendo che il comportamento esecutivo tenuto dalle parti, non coerente rispetto alla disciplina del contratto, fosse il frutto di una mera ed irrilevante tolleranza da parte della XXX, e non già espressione di una diversa scelta negoziale delle parti stesse, avrebbe finito per prestare attenzione al solo dato letterale del contratto, negando la sussistenza degli estremi di una rinegoziazione dello stesso. Tale interpretazione non terrebbe adeguatamente conto, da una parte, del dettato dell’art. 1362 c.c., che impone di valutare il complessivo comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto e, dall’altra, dei principi che distinguono la semplice tolleranza dalla vera e propria conclusione di un accordo nuovo e diverso tra le parti, In primo luogo, se è vero che nell’interpretazione del contratto l’elemento letterale assume funzione fondamentale, è altrettanto vero che la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce affatto un canone sussidiario, bensì un parametro necessario e indefettibile (Cass., 13 agosto 2001, n. 11089). Dato che durante lo svolgimento del rapporto la XXX aveva sistematicamente (e non sporadicamente) confermato gli ordini con l’obbligo espresso di consegna dei prodotti ad XXX "entro 60 gg.
dalla data dell’ordine", pur in mancanza dell’invio dei "XXX" e della sottoscrizione dei "XXX" da parte della stessa XXX, era evidente che per fatti concludenti le parti avessero mutato intenzione rispetto alle originarie condizioni previste nel contratto, passando ad altro assetto di interessi, ignorato dal Giudice dell’impegnata sentenza ai fini della corretta applicazione dell’art. 1362 c.c.. Qualora durante lo svolgimento del rapporto i contraenti mostrino per fatti concludenti di aver mutato intenzione e di esser passati ad altro assetto di interesse, l’art. 1362 c.c. impone di qualificare il rapporto in base alle prestazioni effettivamente rese ed al concreto atteggiamento delle parti, idoneo a togliere rilevanza alle intenzioni originarie (Cass., 2 aprile 2001, n. 4841). In secondo luogo, la prassi tacitamente instauratasi tra le parti non poteva, secondo la ricorrente, ritenersi frutto della semplice tolleranza di XXX: la Corte territoriale avrebbe compiuto un evidente errore ritenendo che l’XXX non avesse dedotto l’insorgenza di elementi intrinseci all’assetto economico del rapporto contrattuale, tali da incidere sul bilanciamento dei contrapposti interessi, perchè tale affermazione non tiene adeguatamente conto che la tolleranza sarebbe esclusa ogniqualvolta sussista un accordo tra le parti, anche tacito, volto a modificare la prassi contrattuale. In presenza di un comportamento concludente delle parti, di un uso negoziale, di un accordo tacito avvenuto tra le stesse, non si potrebbe parlare di mera tolleranza del creditore nei confronti del suo debitore, che si risolve in un atto unilaterale, ma di un nuovo accordo modificativo della precedente prassi. La Corte territoriale, invece, nonostante la sistematica accettazione da parte di XXX degli ordini inviati da XXX al di fuori dei XXX ed a prescindere dalla sottoscrizione dei XXX, e nonostante la medesima reiterata indicazione da parte di XXX della data di consegna dei prodotti a 60 gg. dalla data dell’ordine, avrebbe erroneamente ritenuto impossibile valorizzare la prassi adottata per circa un anno al fine di ritenere non solo che XXX avesse rinunciato definitivamente alle clausole che le consentivano un controllo sul rapporto contrattuale, neppure che XXX s.r.l. avesse potuto ritrarne un ragionevole affidamento sul fatto che la concessionaria non le avrebbe in qualsiasi momento riapplicate. Dalle inequivoche manifestazioni di volontà – emergenti dalla prassi ancora una volta ricostruita in ricorso – emergeva con chiarezza la comune intenzione delle parti di modificare, sia pure in parte, il preesistente contratto, ed in particolare di modificare per il futuro le clausole che imponevano all’XXX di sottoscrivere i XXX e di inviare alla XXX i XXX prima dell’invio degli ordini: la sistematica accettazione da parte di XXX degli ordini inviati da XXX senza che quest’ultima avesse espletato i descritti adempimenti, significava inequivocabilmente che a seguito di tali fatti posteriori alla stipula del contratto del 19 dicembre 1994, tra le parti si erano volute modificare in parte qua le originarie clausole contrattuali ritenute erroneamente dalla sentenza impugnata ancora esistenti ed applicabili.
3.3. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1374 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La Corte territoriale – nel sostenere che, pur in presenza della prassi adottata per circa un anno dalle parti, non era ragionevole ritenere che la XXX avesse rinunciato definitivamente alle clausole che le consentivano un controllo sul rapporto contrattuale, nè che l’XXX potesse averne ritratto un ragionevole affidamento sul fatto che la concessionaria non le avesse in qualsiasi momento riapplicate – avrebbe violato gli artt. 1374 e 1375 c.c. in tema di esecuzione del contratto e di integrazione dello stesso secondo buona fede. La norma che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede sarebbe, infatti, comunemente considerata una norma che concorre a formare il contenuto legale del contratto a norma dell’art. 1374 c.c.; sicchè la violazione del dovere di esecuzione secondo buona fede rappresenterebbe violazione del contratto, inadempimento contrattuale (Cass., 20 aprile 1994, n. 3775). Dato che la XXX, dopo la sistematica accettazione degli ordini inviati da XXX senza che quest’ultima avesse preventivamente inviato i XXX e sottoscritto i XXX, aveva arbitrariamente ed in mal a fede fatto valere le clausole non più volute dalle stesse parti per successivi, costanti ed univoci fatti concludenti, era evidente che essa avesse violato la regola di buona fede nell’esecuzione del contratto, configurandosi così l’inadempimento della stessa. La Corte territoriale avrebbe motivato senza considerare che, proprio in virtù del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, era del tutto ragionevole per l’XXX non attendersi che la XXX, scorrettamente, e da un giorno all’altro, pretendesse di invocare l’applicazione di clausole ormai disapplicate, per comune intenzione, da oltre un anno. Inoltre, la Corte territoriale – nel ritenere anche che il parametro della buona fede – come doverosamente applicato ad entrambi i contraenti – assumeva nella specie un ben preciso ruolo di salvaguardia del contratto, anzichè rappresentare un valore di correttezza estraneo allo stesso – avrebbe completamente dimenticato la reiterata affermazione di questa Corte, secondo cui "la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà (derivante soprattutto dall’art. 2 Cost.) che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (..)" (Cass., 30 luglio 2004, n. 14605; Cass., 11 febbraio 2005, n, 2855).
Orbene, al di là degli obblighi contrattualmente assunti dalle parti, nel caso di specie, la XXX non avrebbe potuto pretendere scorrettamente l’esecuzione di un contratto ormai disapplicato per comune accordo tra le parti, nè tanto meno la Corte d’appello avrebbe potuto legittimare tale comportamento con la pretesa di salvaguardare un contratto dal contenuto di fatto-diritto ormai modificato: la XXX piuttosto avrebbe dovuto preservare e garantire il nuovo assetto di interessi venutosi a determinare tra le parti, osservando quegli obblighi frutto non più dal testo contrattuale ma della buona fede nell’esecuzione del contratto.
3.4. Osserva preliminarmente la Corte che si presenta del tutto generica la domanda di riunione con altra controversia pendente tra le medesime parti (R.G. n. 25837/2010, pendente innanzi ad altra Sezione di questa S.C. e non ancora fissata), non essendo state puntualmente dedotte , nè documentate, le assunte ragioni di connessione; nè assume rilievo nella specie la decisione di cui a Cass., sez. 2, n. 7391 del 26 febbraio 2009, relativa a diverso rapporto contrattuale tra le medesime parti.
4. I tre motivi – che possono trattarsi congiuntamente, riguardando tutti la ricostruzione del contenuto del contratto in lite – si rivelano privi di pregio.
4.1. Non colgono nel segno le violazioni di legge lamentate nel primo e nel secondo motivo, nei quali nonostante l’argomentato inquadramento, da parte della Corte territoriale, della questione controversa nell’alveo dell’esecuzione del contratto secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.), la ricorrente insiste nel prospettare l’alternativa qualificazione della disputa alla luce degli artt. 1362 e 1366 c.c., invocando l’applicazione di tali norme sull’interpretazione dei contratti. Al riguardo, va ribadito che la qualificazione giuridica del rapporto controverso, operata dal giudice di merito, è censurabile in sede di legittimità soltanto in ordine ai criteri generali ed astratti applicati, mentre costituisce apprezzamento di fatto, insindacabile in detta sede se sorretto da motivazione adeguata ed esente da vizi logici e giuridici, la valutazione delle circostanze ritenute in concreto idonee a far rientrare il rapporto nell’uno o nell’altro schema (Cass. 25.1.2002 n. 888; v. anche Cass. 31.1.2006 n. 2146). Si tratta di un corollario del principio secondo cui spetta al giudice il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire, anche in difformità rispetto alla qualificazione operata dalle parti, il nomen iuris al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il giudice stesso può interpretare il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicare una norma di legge diversa da quella invocata dalla parte interessata, purchè lasci inalterati il petitum e la causa petendi, senza attribuire un bene diverso da quello domandato e senza introdurre nel tema controverso un nuovo elemento di fatto (Cass. 17.11.2010 n. 23215, in motivazione; Cass. 17.07.2007 n. 15925; Cass. 24.05.2002 n. 10922; Cass. 01.09.2004 n. 17610). Ne deriva che non risultano neanche prospettabili le lamentate violazioni di legge.
4.2. Del resto la scelta della Corte territoriale, circa l’inquadramento della questione nell’ambito dell’art. 1175 c.c. è espressa attraverso una motivazione improntata a corretti canoni giuridici e logici. In punto di diritto, infatti, deve ribadirsi che i principi di buona fede e correttezza – come previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., – costituiscono ormai parte del tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico. L’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza – infatti – costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale – il cui rilievo costituzionale è ormai pacifico, proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza normativa e ricchezza di contenuti -, applicabile, sia in ambito contrattuale, sia in quello extracontrattuale (Cass. 15.2.2007 n. 3462). In questa prospettiva, il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (Cass. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti). Calato nell’ambito contrattuale, è principio ormai consolidato quello per cui la buona fede oggettiva, cioè la reciproca lealtà di condotta, debba presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase. La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass. 4.5.2009 n. 10182; 11.1.2006 n. 264; Cass. 7.6.2006 n. 13345; 11.2.2005 n. 2855; 30.7.004 n. 14605; 4.3.2003 n. 3183; 9 marzo 1991 n. 2503). Lo stesso canone della buona fede in senso oggettivo non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all’esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi, componendoli nell’ambito delle rispettive pretese. Il caso in esame è stato, quindi, congniamente valutato alla luce dei detti principi e le censure al riguardo proposte, non possono essere condivise.
4.3. Senza contare che, con specifico riguardo a quanto lamentato nel secondo e nel terzo motivo, la Corte territoriale, pur inquadrando il caso alla luce della buona fede nell’esecuzione del contratto, proprio nell’apprezzare il bilanciamento economico del rapporto e nel porre a raffronto le rispettive utilità delle parti, ha tenuto presente sia il tenore letterale degli obblighi reciproci, sia il comportamento comune dei contraenti.
4.3.1. Da un lato, infatti, la decisione è in armonia con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la tolleranza del creditore non può giustificare l’inadempimento, nè comportare per sè stessa modificazioni alla disciplina contrattuale, non potendosi presumere una completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale posto in essere dall’altro contraente, nè un consenso alla modificazione suddetta da un comportamento equivoco come è normalmente quello di non avere preteso in passato l’osservanza dell’obbligo stesso, in quanto tale comportamento può essere ispirato da svariati motivi piuttosto che essere determinato dalla volontà di modificazione del patto. (Cass 3964/2003; 466/1994;
Cass 6635/81). A tale principio si è correttamente attenuto il giudice di secondo grado che ha osservato che il non avere la resistente rifiutato l’esecuzione degli ordini in mancanza dell’invio dei XXX e della sottoscrizione dei XXXs non costituisce un comportamento atto a dimostrare la sua rinuncia ad un diritto derivante dal rapporto contrattuale, occorrendo, peraltro, la sussistenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare tale circostanza.
4.3.2. Dall’altro, la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio secondo cui, nel valutare la sussistenza o meno di un inadempimento contrattuale, occorre interpretare le clausole contrattuali e considerare il comportamento delle parti nell’esecuzione del contratto anche in relazione al rispetto, da parte dei contraenti dei doveri di correttezza e buona fede. (Cass. 17 febbraio 2004 n. 2992; 25 gennaio 2000 n. 805). Del resto, anche a voler considerare, nell’ambito dell’interpretazione del contratto, in posizione paritaria l’elemento letterale e quello del comportamento delle parti (Cass. 1.6.2004 n. 10484), la Corte territoriale non è venuta meno a tale duplice indagine, proprio perchè non si è limitata ad addurre la chiarezza del senso letterale del contratto, ma ha posto a confronto, appunto, le reciproche utilità delle parti ed i rispettivi "sacrifici".
5. Ne deriva il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente 1 pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano in Euro 3.200,00=, di cui Euro 3.000,00= per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 27 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012

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