Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-02-2013) 20-06-2013, n. 27228

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il difensore di M.E. ha presentato ricorso avverso l’ordinanza 26.6.2012 del tribunale del riesame di Napoli, con la quale era stata confermato il provvedimento di coercizione personale, nei confronti di M.E., accusato, in concorso con altre persone, di 3 tentate estorsioni aggravate L. n. 203 del 1991, ex art. 7 (capi B, D, E della rubrica).

Secondo il ricorrente, l’ordinanza va annullata per i seguenti motivi:

1. violazione di legge, in riferimento agli artt. 267 ss. c.p.p.: le intercettazioni di conversazioni, su cui è basata l’ordinanza cautelare, sono state effettuate sull’autovettura di persona totalmente estranea alle indagini, senza che ricorra la dimostrazione, nel decreto di intercettazione emesso il 17.11.2011, di alcun collegamento con la persona indiziata e dell’indispensabilità delle operazioni di registrazioni di conversazioni all’interno dell’auto stilizzata da Ma.Ma. e di proprietà della madre D.M.R.. Il decreto di proroga, emesso il 14.2.2012 è intempestivo, in quanto le intercettazioni erano iniziate in data 27.11.2011 ;

2. violazione di legge in riferimento agli artt. 192, 273, 274 e 275 c.p.p.: ai fini della configurabilità del reato estorsione, la minaccia, manifesta o implicita,reale o figurata deve essere comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, ma nelle condotte del M. e degli altri indagati non è riscontrabile alcuna connotazione efficacemente intimidatoria, come si evince dalla condotta del titolare dell’impresa commerciale, di cui al capo B, che dimostra che mai si sia sentito minacciato; quanto al capo E, va rilevato che i presunti estorsori, che dopo la richiesta di denaro e dopo il rifiuto del figlio del titolare, si allontanarono senza protestare o insistere il tribunale ha dato rilievo, in relazione al fatto sub B, che l’autore della richiesta della tangente ha indicato come mandante il M., accusato, inoltre, da alcuni collaboratori (dalla non controllata credibilità) di essere l’addetto alle estorsioni per la zona di (OMISSIS), per conto del gruppo camorristico, allora dominante (i Venosa, detti i cocchieri).

Non è stato invece tenuto conto che il contatto con l’impresa fu un’iniziativa autonoma ed isolata di C.L., un tossicodipendente, che non ha alcun collegamento con l’indagato. Sul capo D, i giudici hanno dato rilievo accusatorio alle dichiarazioni dell’imprenditore, che però si è limitato a rievocare un incontro con il M., in compagnia di altro soggetto, finalizzato a contrattare l’acquisto di un’auto, offrendo il pagamento in cambiali.

Quanto al capo E, non risulta dimostrato il collegamento dell’indagato con la richiesta estorsiva;

3. violazione di legge in riferimento all’art. 56 c.p.: ammesso che sia stata fatta una richiesta di denaro, successivamente non è stata posta in essere alcuna attività dagli indagati, a cui va riconosciuta la volontaria desistenza di cui al citato art. 4, comma 3 violazione di legge,in riferimento alla L. n. 203 del 1991, art. 7:

nella ricostruzione dei fatti non è emerso alcun collegamento con il clan dei Casalesi che sia stato idoneo a determinare, nei soggetti passivi, in ragione dell’inserimento nell’associazione mafiosa, di determinare un condizione di assoggettamento. In ogni caso, manca la dimostrazione che nel tempo e nel luogo dei fatti esistesse un apparato organizzativo stabile, da considerare come indispensabile presupposto per la contestazione dell’aggravante.

Il ricorso non merita accoglimento.

1. Quanto al primo motivo, va rilevato che, in conformità a quanto operato nel corso delle indagini qui in esame, la collocazione di microspie all’interno di un luogo di cui sia proprietario o possessore soggetto diverso dall’indiziato costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni, che sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost, con il quale il principio di inviolabilità della libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione deve coordinarsi, subendo la necessaria compressione, al pari di quanto previsto dall’art. 15 Cost. in tema di libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (v. Sez. l,del 2 ottobre 2007, n. 38716, Biondo; Sez. settembre 2005, n. 47331, Cornetto offre P.M.; Sez. 6, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco). Ne deriva l’infondatezza del connesso motivo con cui il ricorrente ha dedotto rinutilizzabilità delle intercettazioni per il superamento di confini, assolutamente non previsti dalla norma e dalla logica; la loro utilizzabilità discende in maniera lineare dalla piena legittimità dell’autorizzazione, diretta su un luogo (autovettura) determinato non in relazione alla titolarità formale del diritto di proprietà, ma in relazione alla presenza dell’indagato e alla conseguente prevalente necessità del prosieguo efficace delle indagini (indagini che hanno, tra l’altro, portato ad accertare il diretto coinvolgimento del Ma. nei reati di cui ai capi D – E).

Quanto alla tempestività del decreto di proroga, correttamente il tribunale ha rilevato che ,avendo avuto le operazioni effettivo inizio il 13.2.2012, con scadenza al successivo giorno 20 nessun superamento del termine è addebitabile al decreto emesso dal Gip del tribunale il 20.12.2012.

2. Quanto alla critica alla motivazione dell’ordinanza impugnata sulla sussistenza di adeguata base indiziaria, legittimante ex art. 273 c.p.p., il provvedimento di coercizione personale, va premesso che la richiesta di riesame, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, ha la specifica funzione di sottoporre a controllo la validità dell’ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 cod. proc. pen. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo. Ne consegue che la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all’art. 546 cod. proc. pen., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza. In questa chiave di pre-certezza del risultato degli accertamenti dell’autorità inquirente – non necessariamente sfociante in una progressiva certezza – la S.C., allorchè sia denunciato, con ricorso, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza,per partecipazione ad episodi estorsivi, ha il limitato compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravita del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. Nel caso in esame il risultato di questa verifica è del tutto positivo, attesa la precisa, coerente, minuziosa scansione degli elementi di fatto, emersi dal quadro probatorio, articolato in intercettazioni telefoniche ed ambientali, in videoriprese, nelle dichiarazioni delle persone offesa (di cui è stata ottenuta la narrazione dei fatti, superando naturali propensioni al silenzio); in dichiarazioni di collaboratori di giustizia (di cui è stata messa in evidenza credibilità e intrinseca ed estrinseca). Il quadro indiziario, emergente da questi dati storici e dalla linearità razionale della loro interpretazione, ha una forza persuasiva che non è assolutamente sminuita dalle contrapposte versioni dei fatti e dall’alternativa valutazione dei medesimi .effettuate dal ricorrente.

3. Quanto alla censura relativa al mancato riconoscimento della volontaria desistenza, va rilevato che questa diversa valutazione dei comportamenti del M. è smentita dal suindicato quadro indiziario, attestante una generale strategia dell’ambiente camorristico, che prevedeva l’invio dei gregari, nelle zone di (OMISSIS), di avanzare richieste di denaro a tutti gli imprenditori operanti in quelle zone, Nell’esecuzione di questa strategia, non risulta che il M. abbia operato con modalità e con cadenze temporali, tali da far ritenere che:

a) gli atti posti in essere non corrispondano a quelli da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento estorsivo;

b) l’azione intimidatoria a lui addebitata si sia realizzata non in modo continuativo, ma attraverso il succedersi di contatti verbali distanziati per un tempo sufficiente a dimostrare che vi sia stato un vero e proprio abbandono del progetto estorsivo.

4. Quanto alla critica sulla sussistenza dell’aggravante contestata, va premesso che la L. n. 203 del 1991, art. 7, richiede che i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo siano commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Si tratta di due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse. La prima ricorre quando l’agente o gli agenti, pur senza essere partecipi o concorrere in reati associativi, delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – non necessariamente presentandosi esplicitamente come "messaggeri" di un’organizzazione – con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata, anche se tale comportamento sia posto in essere "per millantato credito mafioso" da parte. In tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica o che effettivamente in essa rientrino i sedicenti messaggeri ; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sè tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso. La seconda delle due ipotesi previste dal citato art. 7, postulando che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica invece necessariamente l’esistenza reale, e non più semplicemente supposta, di un’associazione di stampo mafioso, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un sodalizio semplicemente evocato (Sez. 1, 18 marzo 1994, n. 1327). L’ordinanza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha ritenuto espressione della metodologia camorristica e della finalità di favorire il sodalizio le complessive modalità della condotta, da inquadrare in contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso, l’evocazione degli interessi dell’associazione quale beneficiaria delle somme di denaro da corrispondere, le modalità di approccio alla parte offesa da parte del ricorrente e dei suoi complici, i quali, a sostegno delle loro domande, evocavano l’esistenza di un gruppo di criminalità organizzata di cui essi erano emissari e i cui disegni non andavano contrastati in quanto "ineluttabili".

L’ordinanza ha precisamente ricostruito la storia della camorra nel territorio casertano, lo scontro armato tra due fazioni, la "tregua" e l’affermarsi del nuovo gruppo, facente capo ai Venosa, che, grazie alle narrazioni di uno dei leader, V.S., è stata descritta come impegnata a imporre versamenti di denaro,in favore dell’associazione, a tutti gli imprenditori operanti nelle zone. Il richiamo al clan camorristico ha comunque determinato una testimonianza di presenza, di forza, di capacità di invadere la gestione del mondo produttivo, incrementandone i costi con l’anomalo e incivile dazio mafioso, e quindi dell’oggettivo perseguimento del fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso.

Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2013

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