Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 04-02-2013) 20-06-2013, n. 26825

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Il 10 ottobre 2011 la motonave italiana XXX venne assalita a circa 620 miglia a est della costa della Somalia; l’equipaggio riuscì a chiudersi per tempo nella cosiddetta "cittadella" – ovvero in una parte blindata della cabina di comando – e a non perdere il controllo della nave, nonostante che gli assalitori avessero danneggiato le attrezzature, la strumentazione e gli equipaggiamenti della nave, appiccando anche il fuoco nel locale "electrical equipment". Circa ventiquattro ore dopo l’abbordaggio, una nave militare statunitense in forza alla missione Nato "XXX" raggiunse la XXX; dopo una prima ricognizione, intervennero anche i XXX britannici, imbarcati sulla XXX, che arrestarono i sequestratori e liberarono l’equipaggio della XXX, composto da una ventina di persone tra cui sei italiani.
Gli assalitori somali vennero poi consegnati all’XXX, l’incrociatore della Marina Militare che allora partecipava a "XXX", mentre la XXX partiva all’inseguimento di un peschereccio la cui posizione faceva pensare che fosse stata la "nave madre" da cui erano partiti i barchini per l’assalto alla XXX. A bordo di questo peschereccio, iraniano ma con equipaggio pachistano, vennero arrestati altri quattro somali, assieme a due pakistani (poi scarcerati e prosciolti).
Con sentenza del 16.6.2012, il Tribunale per i Minorenni di Roma dichiarò A.M., Ab.Ah.Ma., D. A.M., A.A.M., tutti minori d’età all’epoca del fatto, responsabili in concorso con i correi maggiorenni, dei reati di cui al capo 1) pirateria ex art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 61 c.p., n. 2., art. 1135 c.n.; 3) detenzione e possesso di armi da guerra ai sensi dell’art. 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 4; 4) danneggiamento seguito da incendio delle attrezzature, della strumentazione e degli equipaggiamenti della nave XXX, ai sensi degli artt. 81 c.p.v. e 110 c.p., art. 112 c.p., comma 1, n. 1, art. 424 c.p., commi 1 e 2, art. 635 c.p., commi 1 e 2, nonchè del reato di tentato sequestro di persona a scopo di estorsione, così diversamente qualificato il fatto di cui al capo 2) (reato di sequestro di persona per finalità di terrorismo), e – esclusa la contestata aggravante della finalità di terrorismo prevista dal D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 1 per i reati di cui ai capi 1, 3 e 4 – unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, concesse la diminuente per la minore età e le attenuanti generiche prevalenti sulle residue aggravanti, li condannò ciascuno alla pena di anni otto di reclusione.
Avverso tale pronunzia proposero gravame gli imputati, e la Corte d’Appello di Roma, Sezione Minori, con sentenza del 6.10.2012, confermava la decisione di primo grado.
Sull’eccezione preliminare in ordine al difetto di richiesta del Ministro della Giustizia e al difetto di giurisdizione in relazione all’appellante A.A.M., la Corte territoriale rammentava la normativa speciale di cui alla L. n. 12 del 2009 e L. n. 100 del 2009, l’obbligo di cooperazione che la Convenzione di Montego Bay del 1982 fa a tutti gli Stati per la repressione della pirateria, e alcune fra le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU all’origine delle missioni in corso "XXX" e "XXX". Riguardo alla eccepita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 c.p.p. con riferimento al reato contestato al capo 2), la Corte rilevava poi che non si era verificato alcun difetto di contraddittorio con riferimento alla diversa ipotesi di reato prospettata al capo 2) e che – ove effettivamente determinatosi – non avrebbe comunque integrato la violazione in questione, non avendo prodotto la diversa qualificazione giuridica del fatto alcun effetto peggiorativo in danno agli imputati.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato A.A. M., deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art. 10 c.p.. Non essendo stata avanzata l’obbligatoria richiesta del Ministro della Giustizia per il delitto comune dello straniero all’estero, erroneamente la Corte Territoriale ha ritenuto infondata la questione della mancanza della condizione di procedibilità di cui alla norma in questione; l’imputato al momento in cui è stato commesso il reato non si trovava sul territorio dello stato in quanto non è salito sulla nave, ma è rimasto a bordo della "nave madre".
Il concetto di territorio estero, così come ritenuto in sentenza con esclusione delle acque extraterritoriali è errato e privo di supporto giuridico, atteso che la normativa di cui all’art. 7 c.p. e ss., allorquando ha inteso individuare sul territorio estero una forma di giurisdizione, lo ha definito Stato o Stato estero; 2) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art. 4 c.p., comma 2, e nullità della sentenza in difetto di giurisdizione. Nella fattispecie, va evidenziato che l’arresto del ricorrente e di tutti gli occupanti del peschereccio denominato "XXX" è avvenuto da parte della marina militare inglese in acque internazionali. E’ indubitabile quindi che, in virtù degli accordi internazionali previsti dall’art. 105 della convenzione di Montego Bay del 1982, che stabilisce che gli Stati sottoscrittori o aderenti hanno facoltà di processare o meno nella loro giurisdizione gli autori degli atti di pirateria, la giurisdizione spettava alla Gran Bretagna che non avrebbe dovuto consegnare gli occupanti del peschereccio alle autorità italiane, in mancanza di atto di estradizione tra l’Italia e il Regno Unito; 3) la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) in riferimento all’art. 192 c.p., mancanza e contraddittorietà della motivazione. Le sentenze di merito, e soprattutto quella d’appello, si fondano sul semplice presupposto della presenza dell’ A. A.M. sul peschereccio, e costruiscono una serie di presunte condotte, che il ricorrente avrebbe posto in essere al momento dei fatti in contestazione che integrerebbero il concorso materiale e soprattutto quello di adesione al piano comune (ricollegandosi ad alcune circostanze oggettive quali le scalette uncinate della stessa natura di quella sequestrata a bordo del natante italiano, i telefonini satellitari, e le armi dello stesso tipo) nulla rilevando circa una vera e possibile condotta nei fatti di cui è processo.
Totalmente non provata è poi la coscienza del contributo fornito dal ricorrente alle altrui condotte; 4) la nullità della sentenza per erronea interpretazione dell’art. 521 del codice di rito, in relazione all’art. 6, comma 3, lett. A) e B) della CEDU. Il diritto ad essere informato dell’accusa e quindi dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda l’accusa stessa implica il diritto dell’imputato a preparare la sua difesa, sicchè, se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all’imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva; ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia dell’accusa sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico, la qual cosa nella fattispecie non si è verificata.
Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato Ab.Ah.
M., deducendo: 1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per errata interpretazione della legge penale, in riferimento all’art. 630 c.p.. I Giudici di prime cure hanno ritenuto non provata la sussistenza della finalità del terrorismo, riqualificando il fatto come tentato sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 c.p., e hanno fondato il loro convincimento riallacciandosi a fatti di esperienza pregressa, ritenendoli regole di esperienza o fatti notori tal che hanno ritenuto sussistente sia il reato di pirateria e sia il tentativo di sequestro di persona, mentre non vi è prova che l’intento di coloro che hanno occupato la motonave XXX fosse quello di sequestrare i marinai onde chiedere il riscatto per la loro liberazione; 2) la nullità della sentenza per erronea interpretazione dell’art. 521 del codice di rito, in relazione all’art. 6, comma 3, lett. A) e B) della CEDU. Il diritto ad essere informato dell’accusa e quindi dei fatti materiali posti a suo carico e sui quali si fonda l’accusa stessa implica il diritto dell’imputato a preparare la sua difesa, sicchè se il giudice ha la possibilità di riqualificare i fatti, deve essere assicurata all’imputato la possibilità di esercitare il proprio diritto alla difesa in maniera concreta ed effettiva; ciò presuppone che sia informato, in tempo utile, sia dell’accusa sia della qualificazione giuridica dei fatti a carico, la qual cosa nella fattispecie non si è verificata.
Ricorre per cassazione il difensore di A.M. e D. A.M., deducendo: 1) la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) per erronea interpretazione della legge penale, e per mancanza, illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in relazione agli artt.98 e 630 c.p.. Sulla base delle carenti indagini effettuate dai giudici di primo e secondo grado e dal pubblico ministero in merito alla personalità dei minori e dalle risultanze processuali appare del tutto apodittica e illogica l’affermazione secondo cui gli imputati non avrebbero avuto sufficiente maturità per partecipare in modo consapevole al reato di cui all’art. 289 bis, mentre sarebbero stati sufficientemente consapevoli ai fini dell’integrazione del dolo specifico richiesto dall’art. 630 c.p.. Dalle relazioni degli educatori in data 29 e 30 marzo 2012 emerge che gli imputati sono analfabeti, hanno atteggiamento collaborativo, e che potrebbero essere stati facili e inconsapevoli prede di persone adulte e strutturate; la tutrice, mediatrice culturale somala, ha poi dichiarato che i due imputati non sanno cos’è il mondo occidentale.
A ciò aggiungasi che la Somalia è in guerra da venti anni, e come rilevato da Amnesty International in un comunicato del 2011 si registra una gravissima crisi umanitaria, con carestie diffuse e pesantissime violazioni dei diritti umani in particolare nei confronti dei bambini. Gli imputati si sono arresi, non hanno opposto alcuna resistenza, e a seguito di un complesso percorso emotivo condotto con il tutore, nelle dichiarazioni rese davanti alla Corte sono riusciti ad ammettere le proprie responsabilità: vi sarebbe stata partecipazione all’azione di pirateria, ma l’età e il ruolo ricoperto facevano sì che entrambi fossero destinati allo svolgimento delle mansioni più umili all’interno del gruppo (pulizia e cucina) e non avessero alcuna idea del piano criminoso, a parte la consapevolezza di attaccare una nave al fine di sottrarre tutti i beni materiali ivi presenti. Da tutti questi indizi sulla maturità psicologica ed emotiva degli imputati non è logico dedurre che ci sia stata consapevolezza per integrare il dolo specifico della fattispecie di cui all’art. 630 c.p., tanto più a fronte di un’accertata incapacità di partecipare con sufficiente grado di coscienza e volontà al reato di cui all’art. 289 bis c.p.; 2) la violazione dell’art. 606 lett. b) ed e) per erronea interpretazione della legge penale, e per mancanza, illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in relazione all’art. 521 c.p.p.. La Corte di Strasburgo ha affermato che ai sensi dell’art. 6 l’imputato deve essere informato tempestivamente non solo dei fatti materiali ma anche delle corrette qualificazioni giuridiche; 3) la violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) per erronea interpretazione della legge penale, e per mancanza, illogicità e contraddittorietà delle motivazioni in relazione agli artt. 56 e 630 c.p.. La mancanza di sufficienti elementi di conoscenza storica e fenomenologia della pirateria conducono a ritenere che gli atti posti in essere dal gruppo di pirati non possano considerarsi diretti in modo non equivoco a commettere un sequestro di persona a scopo di estorsione.
Nè è in alcun modo provato che il gruppo di undici imputati avesse già contatti con altri gruppi criminali in grado di gestire il sequestro. Chiedono tutti l’annullamento della sentenza.
Motivi della decisione
1. Le questioni concernenti il difetto di richiesta del Ministro della Giustizia ai sensi dell’art. 10 c.p. e di giurisdizione, dedotte dal difensore di A.A.M. al primo e secondo motivo di ricorso, sono prive di giuridico fondamento.
1.1 La prima definizione di pirateria è contenuta nell’art. 15 della Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958. In seguito la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare UNCLOS (ratificata dall’Italia con L. 2 dicembre 1994, n. 689), conosciuta anche come Convenzione di Montego Bay dal nome del luogo nel quale è stata firmata nel 1982, agli artt. 101 e 102, ha definito pirateria marittima "a) ogni atto illecito di violenza o di sequestro, o ogni arto di rapina, commesso a fini privati dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, e rivolti:
nell’alto mare, contro un’altra nave o aeromobile o contro persone o beni da essi trasportati; contro una nave o un aeromobile, oppure contro persone e beni, in un luogo che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato; b) ogni atto di partecipazione volontaria alle attività di una nave o di un aeromobile, commesso nella consapevolezza di fatti tali da rendere i suddetti mezzi nave o aeromobile pirata; c) ogni azione che sia di incitamento o di facilitazione intenzionale a commettere gli atti descritti alle lettere a) o b)".
L’art. 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare nel definire la "pirateria", stabilisce che sono ritenuti atti di pirateria quegli atti commessi esclusivamente in alto mare o in luogo non sottoposto alla giurisdizione di qualsiasi altro Stato; restano, quindi, esclusi gli atti commessi nelle acque territoriali, dove lo Stato costiero esercita la propria giurisdizione, che sono comunemente qualificati come "XXX".
L’art. 100 della medesima Convenzione dispone, poi, che tutti gli Stati debbano cooperare per reprimere la pirateria nell’alto mare o in qualunque altra area che si trovi fuori della giurisdizione di qualunque Stato e li autorizza a prendere parte attiva nella repressione e nella lotta contro la pirateria nelle zone più a rischio riconosciute dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Allorchè una nave rientra nella definizione di nave pirata di cui all’art. 103, ad essa non sono infatti più applicabili le norme generali di cui all’art. 84 della stessa Convenzione, che stabilisce la libertà di navigazione in alto mare, e all’art. 94, che prevede che ogni Stato in alto mare eserciti senza interferenza alcuna la propria giurisdizione e il proprio controllo sulle navi che battono la sua bandiera.
A seguito della risoluzione n. 1851 del 2008 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, è permesso agli Stati impegnati nella lotta alla pirateria di entrare nel territorio somalo, sia attraverso mezzi aerei che terrestri. La risoluzione n. 1851 è stata preceduta dalla risoluzione n. 1816 del 2008, nella quale si concedeva agli Stati la possibilità di perseguire chi si macchiava di atti di pirateria anche all’interno delle acque territoriali somale per sei mesi, disposizione che è stata di volta in volta rinnovata con le risoluzioni n. 1838 del 2008, n. 1846 del 2008, n. 1851 del 2008, n. 1897 del 2009 e n. 1950 del 2010.
1.2 In Italia, il reato di pirateria marittima è disciplinato agli artt. 1135 e 1136 c.n.. L’art. 1135, comma 1, dispone che il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero a scopo di depredazione commette violenza in danno di persona imbarcata su una nave nazionale o straniera, è punito con la reclusione da dieci a venti anni. Per gli altri componenti dell’equipaggio la pena è diminuita in misura non eccedente un terzo; per gli estranei la pena è ridotta fino alla metà. Ai sensi dell’art. 1136 (nave sospetta di pirateria) il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, fornita abusivamente di armi, che naviga senza essere munita delle carte di bordo, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
1.3 Il principio di territorialità è uno dei principi regolatori della legge penale nello spazio, anzi il principio base temperato però da altri principi tra i quali anche quello di universalità, e discende dalla considerazione del territorio quale oggetto sul quale si esercita la sovranità politica dello Stato. La nozione di territorio dello Stato è indispensabile per definire la validità e l’efficacia della legge penale nello spazio.
Gli elementi che concorrono a definire tale nozione sono contenuti nell’art. 4 c.p. comma 2 il quale stabilisce che, agli effetti della legge penale, è "territorio dello Stato" il territorio della Repubblica, e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato.
Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera; alla luce di tale disposizione, le navi ed aeromobili italiani civili e mercantili sono considerati "territorio dello Stato" quando si trovano, rispettivamente, nel mare territoriale o nello spazio nazionale, nel mare libero o nello spazio atmosferico libero. Ai sensi dell’art. 6 c.p. è punibile secondo la legge italiana qualunque reato commesso nel territorio dello Stato medesimo, anche se l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento costituente la conseguenza dell’azione o dell’omissione.
In applicazione del principio di universalità e del recepimento delle consuetudini in sede convenzionale, l’art. 7 c.p., che prevede la deroga al principio della territorialità in relazione ad alcuni reati, punibili incondizionatamente secondo la legge italiana, anche se commessi all’estero da cittadino o da straniero, stabilisce in particolare al n. 5 che sono punibili secondo la legge penale italiana i reati per i quali speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali ne stabiliscono l’applicabilità.
1.4 Il D.L. 30 dicembre 2008, n. 209 (contenente la proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali) convertito in legge con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2009, n. 12, contiene disposizioni per l’esercizio della giurisdizione rispetto agli atti di pirateria. In particolare, l’art. 5, comma 4, come modificato dal D.L. 15 giugno 2009, n. 61, art. 1 (convertito in L. 22 luglio 2009, n. 100), prevede che i reati previsti dagli artt. 1135 e 1136 c.n. e quelli a essi connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. (ossia i reati in concorso formale, reati legati dalla continuazione e commessi per eseguire o occultare i reati di pirateria o nave sospetta di pirateria), se commessi a danno dello Stato o di cittadini o beni italiani, in alto mare o in acque territoriali altrui e accertati nelle aree in cui si svolge la missione "XXX", sono puniti ai sensi dell’art. 7 c.p. e la competenza è attribuita al Tribunale di Roma.
Anche se espressamente menzionata la L. 22 febbraio 2012, n. 13, solo con l’art. 4, comma 11 che ha disposto l’autorizzazione della spesa, per tutto l’anno 2012, "per la proroga della partecipazione di personale militare all’operazione militare dell’Unione Europea denominata XXX e all’operazione della Nato denominata "XXX" per il contrasto della pirateria, di cui al D.L. 12 luglio 2011, n. 107, art. 4, comma 13, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 agosto 2011, n. 130", la partecipazione italiana all’operazione antipirateria Nato "XXX", con il coinvolgimento di unità navali statunitensi, britanniche e italiane operanti sotto il comando dell’ammiraglio italiano M., era, al momento dei fatti, assistita dallo stesso quadro normativo formale proprio della prima missione di questo tipo (la missione "XXX" promossa dall’Unione Europea), per effetto del D.L. 12 luglio 2011, n. 107, art. 7 convertito con modificazioni nella L. 2 agosto 2011, n. 130 all’epoca vigente.
1.5 La normativa speciale in materia di giurisdizione, come da ultimo emendata, prevede, quindi, che quando i reati di pirateria (e quelli a questi collegati) vengono commessi, nell’area del Golfo di Aden e al largo della Somalia, in danno dello Stato Italiano, di nave, cittadini o beni italiani, gli stessi sono puniti secondo la legge italiana e la giurisdizione non è sottoposta ad alcuna condizione di procedibilità.
E’ poi prevista la possibilità di procedere al sequestro e alla detenzione di persone, in vista del trasferimento ad altro Stato che eserciti la giurisdizione in base ad accordi negoziati dall’UE, ma anche dalla NATO in base all’ultimo periodo della norma. Tale attività ha carattere coercitivo, ma non costituisce attività di polizia giudiziaria ed è piuttosto un’attività "sui generis". La consegna è disposta direttamente dalla legge e sfugge a ogni coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. I pirati catturati nel corso della missione XXX promossa dall’Unione europea, sono comunque soggetti alla disciplina speciale in materia di misure di garanzia della libertà personale introdotta per il personale della Forze armate in occasione dell’operazione Endouring Freedom, di cui alla L. n. 6 del 2002. Questa estensione è contenuta nella L. n. 12 del 2009 che applica la citata disciplina a chiunque commetta i reati di pirateria e di sospetta pirateria, ai sensi degli artt. 1135 e 1136 c.n..
1.6 Tanto premesso, rileva il Collegio che le disposizioni del codice penale nazionale concernenti la procedibilità e la giurisdizione nella materia in esame devono essere lette e interpretate alla luce dei principi del diritto internazionale e della normativa di cui alle Convenzioni citate. Poichè, nella fattispecie, è stato contestato e ritenuto dai giudici di merito il reato di "pirateria" di cui all’art. 1135 c.n., il reato in questione e quelli ad esso connessi, in base alle norme nazionali e convenzionali di cui sopra, sono, punibili secondo la legge italiana e senza limitazioni relative al luogo in cui sono posti in essere, vale a dire sia se l’azione piratesca è avvenuta nelle acque territoriali nazionali, sia in alto mare, sia in acque territoriali straniere, in quanto commessi in danno di nave italiana nelle zone di svolgimento dell’operazione "XXX".
Correttamente la Corte territoriale ha, quindi, rigettato sia l’eccezione relativa alla carenza di condizione di procedibilità prevista dall’art. 10 c.p., essendo stati commessi i reati non all’estero bensì in acque internazionali, che quella attinente al difetto di giurisdizione, in quanto i reati, essendo stati commessi in alto mare e su nave battente bandiera italiana (quindi su territorio italiano ai sensi dell’art. 4 c.p.), ed essendo stati accertati durante la missione "XXX", per quanto disposto dall’art.5 della legge citata, sono puniti ai sensi dell’art. 7 c.p., e la competenza è attribuita al Tribunale di Roma.
1.7 Nè può essere accolta la tesi difensiva circa la sottrazione a tale competenza dell’imputato A.A.M., che non avrebbe quindi commesso alcun fatto criminoso sul territorio dello Stato italiano, in quanto egli – diversamente dagli altri imputati – non ebbe mai a salire sulla motonave XXX, ed è rimasto a bordo della c.d. nave madre, circostanza pacifica anche sulla base della puntuale ricostruzione dei fatti operata nella sentenza di primo grado. A riguardo, è sufficiente rammentare che, una volta intercettata da parte della nave inglese Fort XXX la nave madre, A.A.M. è stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria ad opera del comandante G. dell’XXX su disposizione del pubblico ministero presso il Tribunale di Roma, e allo stesso sono stati contestati a titolo di concorso i reati commessi a bordo della nave XXX (v.pag.22 della sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma). La accertata compartecipazione all’azione di pirateria compiuta dagli altri tre imputati minorenni, nonchè dai coimputati maggiorenni giudicati in separato procedimento, così come contestata e ritenuta dai giudici di merito, toglie rilevanza alla tesi sostenuta dal difensore dell’imputato, posto che i reati attribuitigli a titolo di concorso si sono incontestabilmente realizzati a bordo della nave italiana, e quindi sul territorio dello Stato e in danno di nave italiana nelle zone di svolgimento dell’operazione "XXX".
2. Tutti i ricorrenti hanno dedotto – in modo sostanzialmente analogo – la violazione dell’art. 521 c.p.p. in relazione all’art. 6, comma 3, lett. A) e B) della CEDU, con riferimento al reato di cui al capo 2 della rubrica (quarto motivo del ricorso in favore di A. A.M.; secondo motivo del ricorso in favore di Ab.
A.M.; terzo motivo del ricorso in favore di A. M. e D.A.M.).
Anche tale motivo è infondato.
2.2 L’art. 111 Cost., comma 3, inserito dalla novella costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, sancisce il diritto della persona accusata di un reato a essere "informata (..) della natura e dei motivi della accusa".
La norma rappresenta la trasposizione, pressochè letterale, della corrispondente disposizione contenuta nell’art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, in forza della quale "Ogni accusato ha più specificamente diritto a: a) essere informato (..) in un modo dettagliato della natura e dei motivi della accusa elevata a suo carico".
L’inequivocabile tenore della formulazione esclude che l’informazione possa essere limitata ai meri elementi fattuali posti a fondamento della "accusa", e impone, invece, pure l’enunciazione della qualificazione giuridica dei fatti addebitati, che necessariamente concorre a definirne la "natura" dell’addebito, alla quale l’ordinamento riconnette, in esito all’accertamento giudiziario, le conseguenze sanzionatorie. Solo così, infatti, è assicurata, nella sua interezza, la possibilità di effettivo esercizio del diritto di difesa nel "giusto processo" attraverso il quale si attua la giurisdizione (art. 111 Cost., comma 1).
2.3 La Corte europea dei diritti dell’uomo, con il noto arresto dell’11 dicembre 2007 della Sezione Seconda nella causa Drassich contro Italia, ha stabilito che la riqualificazione del fatto, operata dal giudice colla sentenza, senza che, in precedenza, la difesa dell’imputato avesse avuto la possibilità "di discutere in contraddittorio la nuova accusa", costituisce violazione dell’art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione citata.
La regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in questione, è stata ritenuta da questa Corte conforme al principio statuito dall’art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso (cfr. Cass. Sez. 6^, n. 45807/2008, rv. 241754).
2.4 Considerato che, nel nostro ordinamento, è previsto dall’art. 521 c.p.p., comma 1, il potere del giudice "di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione", tale diritto deve essere oggi necessariamente correlato al diritto alla informazione in ordine alla "natura della accusa" che, in rapporto alla evoluzione del procedimento nella fase processuale, si traduce nel diritto alla contestazione della "imputazione", consistente nella "enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge" (art. 405 c.p.p.; art. 417 c.p.p., comma 1, lett. b); art. 429 c.p.p., comma 1, lett. c).
Il contemperamento di tale norma con la regola in questione è, poi, certamente, possibile, attraverso una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 521 c.p.p., comma 1, che va quindi interpretato nel senso che la correlazione tra sentenza ed accusa deve sussistere assicurando all’imputato la garanzia del contraddittorio, anche in relazione alla qualificazione giuridica del fatto.
Esclusa la possibilità dell’attuazione "a sorpresa" del potere di nuova (e diversa) qualificazione della condotta, condizione essenziale per l’esercizio del potere in questione è la preventiva promozione, a opera del giudice, del contraddittorio tra le parti sulla "quaestio juris" relativa a una diversa qualificazione giuridica del fatto (v. Cass. Sez. 6^, sent. n. 36323/2009, Riv. n. 244974; Sez. 6^, Sent. n. 45807/2008 cit., in una fattispecie relativa alla modifica della qualificazione giuridica nel giudizio in Cassazione; V. altresì Cass. Sez. 2^, Sent. n. 14674/2010 Rv.
246922, per la quale il giudice di legittimità ha il potere di procedere "ex officio" alla riqualificazione giuridica del fatto, senza necessità di consentire all’imputato di interloquire sul punto allorquando, nel ricorso presentato dallo stesso, tale eventualità sia stata espressamente presa in considerazione, ancorchè per sostenere la diversità del fatto da quello contestato e la conseguente violazione dell’obbligo di trasmissione degli atti al pubblico ministero).
2.5 L’inosservanza di tale regola e la riqualificazione dell’imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio è, quindi, causa di nullità generale a regime intermedio, per violazione del diritto di difesa, e ciò anche nelle ipotesi in cui la riqualificazione sia più favorevole per l’imputato (v. Cass. Sez. 1^, Sent. n. 18590/2011 Rv. 250275). Anche in tali casi, infatti, la difesa potrebbe essere comunque pregiudicata dalla mancata informazione, in quanto impedita di diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico), in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltretutto, le emergenze processuali potrebbero assumere, a loro volta, diversa e nuova rilevanza.
2.6 Questa Corte ha affermato il principio, condiviso da questo Collegio, che la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice è assicurata pur quando l’imputato abbia comunque avuto modo di interloquire sul tema della diversa qualificazione giuridica in una delle fasi del procedimento, e che la regola è rispettata qualunque sia la forma nella quale ciò sia avvenuto (v. Sez. 1^, Sent. n. 9091/2010 Rv.
246494, in un caso nel quale la Corte ha ritenuto la regola rispettata in quanto la diversa qualificazione giuridica era stata oggetto di discussione nel corso del giudizio di merito, quanto meno nel procedimento incidentale "de libertate") Cass. Sez. 6^, Sent. n. 10093/2012 Rv. 251961, in fattispecie di diversa definizione giuridica del fatto da parte del giudice di primo grado nella sentenza pronunziata all’esito del giudizio abbreviato. V. altresì Sez. 2^, Sent. n. 32840/2012 Rv. 253267, la quale ha ritenuto che l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, sancito dall’art. 6 CEDU, comma 1 e comma 3, lett. a) e b), e dall’art. 111 Cost., comma 3, è assicurata anche quando il giudice d’appello provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato può comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), trattandosi di questione di diritto la cui trattazione non incontra limiti nel giudizio di legittimità).
2.7 Tanto premesso, rileva il Collegio che il contraddittorio, nel caso in questione, si è realizzato, poichè il mutamento del titolo del reato è intervenuto all’esito del giudizio di primo grado, e con i motivi d’appello gli imputati sono stati posti nelle condizioni di contraddire la diversa qualificazione giuridica e di richiedere una specifica rivalutazione nel merito e ogni ulteriore integrazione probatoria utile a smentire la diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto oggetto dell’imputazione.
Peraltro, i giudici di merito hanno correttamente ritenuto che i fatti, come contestati nell’imputazione, hanno garantito, per la loro ampiezza espositiva, il diritto di difesa, dal momento che le due fattispecie di cui all’art. 289 bis c.p. e 630 c.p. sono identiche "salvo che per quel quid pluris legato alla finalità di terrorismo";
che nell’imputazione di cui al capo n. 2 (ove espressamente si indica, tra le finalità, anche quella di ottenere un riscatto in danaro, quale prezzo del rilascio del natante e degli ostaggi) era già contestata la finalità estorsiva costituente il dolo specifico del reato previsto dall’art. 630 c.p. e che rispetto a tale finalità gli imputati hanno avuto modo e possibilità di difendersi (v. pag.
30 della sentenza del Tribunale e pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata).
A ciò non può non aggiungersi che, diversamente dalla fattispecie sottoposta all’esame della Corte Europea, nella quale la qualificazione giuridica del fatto era stata modificata con il dispositivo della decisione di legittimità, in questo caso la diversa qualificazione giuridica è intervenuta in primo grado ed è stata oggetto di ampia discussione nel giudizio di appello, senza che in concreto siano stati individuati o prospettati quali mezzi di prova nuovi e ulteriori i ricorrenti avrebbero potuto invocare se avessero avuto la possibilità nel giudizio di merito di discutere sulla diversa qualificazione giuridica, limitandosi i ricorrenti ad affermare che la difesa approntata per la questione della sussistenza o meno della finalità di terrorismo non era sovrapponibile a quella che avrebbero potuto approntare per il delitto di cui all’art. 630 c.p..
3. Quanto al profilo del ragionamento probatorio complessivo sviluppato dai giudici di merito sulle prove acquisite, censurato dai ricorrenti ai residui punti 3 (del ricorso di A.A.), 1 (del ricorso di Ab.Ah.Ma.), 1 e 3 (dei ricorsi di A.M. e D.A.M.), deve rilevarsi la completezza delle argomentazioni e la coerenza delle valutazioni con i dati probatori acquisiti.
In relazione ai motivi in questione i ricorsi sono inammissibili.
3.1 Nella sentenza di primo grado, concorde con quella d’appello nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, e la cui struttura motivazionale, pertanto, si salda quindi con quella impugnata (v.
Cass. Sez. 1^, Sent.n.8886/2000, Sangiorgi, Rv. 216906), il Tribunale ha ampiamente descritto tutti gli elementi di prova acquisiti e il collegamento logico di essi con altri elementi relativi ai profili oggettivi e soggettivi nonchè alle motivazioni per le quali hanno agito gli imputati. In particolare, ha rilevato il Tribunale che le azioni di cui al completo e minuzioso "excursus" narrativo, "riassunte e realizzate dai pirati saliti a bordo della XXX possono e devono essere inquadrate in detta fattispecie (pirateria), visti in particolare: le raffiche sparate con le armi in dotazione contro i membri dell’equipaggio e del team di sicurezza, costretti a rifugiarsi nella "cittadella", la ricerca di oggetti e persone nei diversi locali della nave, le azioni poste in essere nel forzare la "cittadella", i danni arrecati alla strumentazione di bordo e alle strutture della nave", e che è evidente il carattere unitario dell’azione che si basa, sotto l’aspetto oggettivo, sulla connessione "causale degli atti dei singoli compartecipi e, sotto l’aspetto soggettivo, sul collegamento finalistico esistente tra tali atti, intesi dai singoli autori coma parti di un tutto unitario. Nel caso di specie, sicuramente A.A.M., come peraltro gli altri pirati rimasti a bordo della nave madre, ha portato un contributo di ordine materiale e psicologico, idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione delle varie fasi dell’azione posta in essere da altri soggetti, e cioè dei pirati saliti a bordo della XXX, con piena conoscenza del proprio contributo causale" (v. pag. 25 della sentenza di primo grado).
3.2 Tutti gli aspetti della vicenda trovano poi, nella sentenza impugnata, specifiche e dettagliate spiegazioni in riferimento ai rilievi di cui ai rispettivi atti d’appello. Circa la contraddittorietà degli elementi valutativi utilizzati dal primo giudice per escludere la finalità di terrorismo, e ritenuti invece ininfluenti al fine di escludere quella estorsiva, la Corte d’Appello, con motivazione logica ed adeguata, ha quindi evidenziato che "mentre il movente terroristico postula la considerazione di ragioni latu sensu politiche (ad es. nell’accezione di costringere uno Stato ad un facere o ad omettere qualcosa: si pensi al rilascio dei detenuti), al contrario appare ben possibile anche a persone non scolarizzate e/o provenienti da disagiate condizioni familiari e sociali comprendere lo scopo prettamente economico correlato al sequestro di persona; anzi, l’assenza di prospettive sociali e personali, sebbene non indicative in sè della sussistenza di un intento estorsivo appare del tutto compatibile con tale finalità" (v. pag 12 della sentenza impugnata). Nè appare logicamente sostenibile che gli imputati non avessero alcuna idea del piano criminoso, a parte la consapevolezza di attaccare una nave al fine di sottrarre tutti i beni materiali ivi presenti, e ciò in considerazione delle concrete modalità della condotta posta in essere, come ampiamente illustrato in sentenza (v. pagg. 12 e 13 della sentenza impugnata). L’abbordaggio della nave, avvenuto in due differenti fasi ed in più persone riunite (undici), l’utilizzazione quale base logistica della nave- madre in precedenza catturata, l’utilizzazione di veloci e agili "barchini" (skiff) per l’abbordaggio, la prolungata permanenza sulla nave, l’utilizzazione di armi da guerra (kalashnikov e lanciamissili RPG) e di esplosivi per "forzare" la zona fortificata, la manomissione della strumentazione del natante, il danneggiamento seguito da incendio del natante medesimo, sono modalità dell’azione tutte sovrabbondanti ed incongrue se finalizzate al mero scopo di impossessarsi delle "cose mobili altrui" appartenenti alla nave e all’equipaggio, e viceversa pienamente compatibili con l’intento – non realizzatosi in seguito all’auto sequestro dell’equipaggio barricatosi nella c.d.
"cittadella" – di sequestrare il personale del natante, al fine di impossessarsi della nave e di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.
3.3 Le stesse modalità dell’azione, valutate mediante un giudizio di verosimiglianza, che tenga conto anche dell’identità del "modus operandi" in questione rispetto ad episodi coevi ed analoghi, sono poi chiaramente indicative dell’intento, non riuscito, di impossessarsi della nave e di catturare l’equipaggio, allo scopo di chiedere un riscatto quale compenso per l’atto di pirateria.
Significative in tal senso, in quanto atte ad orientare il giudizio di verosimiglianza sull’idoneità ed univocità degli atti, sono le deposizioni dei testi G., Ma. e C., laddove hanno riferito di precedenti attacchi, ripetuti e ricorrenti ai mercantili in transito nel Golfo di Aden, svoltisi nel medesimo contesto temporale e caratterizzati dal sequestro dell’equipaggio, sempre finalizzato alla richiesta di riscatto (v. pag. 13 della sentenza impugnata). Tali testimonianze trovano del resto ampio riscontro nelle notizie di cronaca relativi ai numerosi attacchi a navi italiane avvenuti nel corso del 2011 nelle acque dell’Oceano Indiano, nel Golfo di Aden, e nelle zone di mare su cui si affaccia lo Yemen e al largo della Malesia.
Contro tali valutazioni, nei motivi in esame, sono formulate mere contestazioni di veridicità, generiche e meramente reiterative dei motivi d’appello, nonchè prive di autosufficienza in un impensabile tentativo di ottenere da questa Corte di legittimità un revisione di merito delle valutazioni stesse, dimenticando i limiti del sindacato del giudice di legittimità. E’ pacifico, in proposito, che ai sensi del disposto dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che detto testo è manifestamente carente di motivazione e/o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U., Sent.n.16 del 19 giugno 1996, Di Francesco, Rv.205620).
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e riservata in via esclusiva a giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione da parte de. ricorrente di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenuta più adeguata (Cass., S.U. Sent. n. 6402 del 30.4.1997, Dessimone, Rv.207942); questo valendo m particolare, relativamente alla valutazione sull’attendibilità e valenza dei mezzi di prova posti a fondamento della decisione.
Non va del resto dimenticato che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve (nè può) stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento".
La complessiva infondatezza dei ricorsi ne comporta il rigetto. Al rigetto dei ricorsi proposti dagli imputati minorenni al momento della commissione dei reati non consegue la condanna al pagamento delle spese processuali (Cass. S.U. 31 maggio 2000 n. 15).
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2008, art.52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *