Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-02-2013) 24-04-2013, n. 18513

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 23.1.2012, il tribunale di Torino, in riforma della sentenza 5.10.2010 del giudice di pace di Chivasso, ha assolto L. L., primario del reparto ginecologia e ostetricia presso l’ospedale di Chivasso, perchè il fatto non sussiste, dal reato di diffamazione, in danno di T.A., medico chirurgo del medesimo reparto. Il cui capo di imputazione è stato così formulato "perchè, comunicando con più persone e, in particolare con M. M. e B.E., pazienti della dottoressa T.A., medico ginecologo, offendeva la reputazione della T., affermando, rivolto alla M., che "a volte le persone si mettono nelle mani sbagliate",riferendosi in modo inequivoco al fatto che la stessa fosse in cura presso la T., ed affermando,in presenza della B., "sono sicuro che non appena fatto il test di gravidanza vi siete messe d’accordo per il cesareo", alludendo ad una presunta leggerezza della T. nel prescrivere il parto cesareo". Il difensore della parte civile T. ha presentato ricorso per i seguenti motivi:

1. violazione di legge e vizio di motivazione: la sentenza ha escluso il carattere diffamatorio della frase detta in presenza della B. in quanto non assurge a lesione della reputazione il rilevare la particolare propensione della collega a consentire il taglio cesareo, trattandosi del riferimento a una scelta di campo, che, agli occhi della paziente, non si è tradotta in una denigrazione della capacità e della competenza del medico curante.

Secondo la ricorrente, il L. ha irriso la scelta della collega, indicandola come espressione non di una valutazione formulata secondo scienza e coscienza, ma di una decisione presa nove mesi prima del parto, al momento del test di gravidanza. Ha rappresentato così la collega come superficiale, incauta,impreparata, corriva alle pretese di comodità e di convenienza della paziente, con la quale aveva preso in precedenza un accordo in tal senso. La sentenza ha inoltre omesso di dare atto che alla pronuncia della frase suddetta era presente il collega, dottor Bo.;

2. vizio di motivazione per travisamento del capo di imputazione:

nella sua formulazione si da atto che le espressioni furono pronunciate alla presenza di più persone, tra cui M. e b.. La frase "a volte le persone si mettono nelle mani sbagliate, è stata detta in presenza della M. e anche di un medico, il cui nome non è stato rammentato dalla teste. E’ quindi risultata la circostanza della comunicazione a più persone dell’espressione offensiva, tenuto conto, che, secondo un orientamento giurisprudenziale non è necessario la loro identificazione. Nella sentenza sez. 5, n. 1763 del 19.10.2010, è stato riconosciuta la sussistenza della diffamazione, in una fattispecie di un messaggio inviato a mezzo telefax, il cui apparecchio ricevente era accessibile a più impiegati di un ufficio;

ciò aveva determinato "la conoscenza o la conoscibilità della missiva, da parte,non solo del destinatario, ma da tutti i dipendenti della banca". La presenza di un medico dell’ospedale è confermata dalle dichiarazioni dello stesso L., secondo cui egli non visitava mai da solo, ma sempre alla presenza di un medico o di un’ostetrica.

Il ricorso merita accoglimento.

La sentenza impugnata riconosce la natura diffamatoria dell’espressione pronunciata dal L., in data 20.9.2007 (A volte le persone si mettono nelle mani sbagliate), mentre, a differenza di quanto sostenuto dal primo giudice, non ha ravvisato alcuna portata lesiva della reputazione della dottoressa T. nella frase pronunciata il successivo 26 settembre, in presenza della gestante bo. (Sono sicuro che non appena fatto il test di gravidanza, vi siete subito messe d’accordo per il cesareo): il tribunale ha considerato che, con essa, il suddetto L. si era limitato a rilevare la particolare propensione della collega a consentire il parto cesareo, attribuendole così una "scelta di campo", che, agli occhi della paziente, "non si traduce in una denigrazione della capacità e della competenza del medico curante".

Questa valutazione del giudice di appello è, in astratto, correttamente improntata al rispetto del diritto di ogni cittadino di manifestare il proprio pensiero, anche se critico nei confronti del pensiero e dell’azione altrui. Il giudice non ha però tenuto conto che il quadro storico, in cui si è pacificamente manifestata questa critica, incide negativamente sulla razionalità della motivazione:

il primario ha attribuito alla dottoressa T. non una sua astratta posizione favorevole, all’interno della generale contrapposizione di opinioni in tema dell’esigenza o meno del parto cesareo; le ha invece attribuito di aver ideato e comunicato una concreta preferenza alla paziente, in una modalità temporale (non appena fatto il test di gravidanza), tale da trasformare un giudizio della dottoressa sul piano della tecnica e della cultura professionale in un intempestivo pre-giudizio,guidato da un criterio di scelta esterno ed estraneo alla scienza medica e alla tecnica ginecologica. E’ quindi fondata la censura, secondo cui in tal modo non è stata criticata un’opinione in campo teorico e pratico della ginecologa, ma le è stata attribuita, in maniera non giustificata, la qualifica di incauta specialista, che aveva privilegiato pretese di convenienza e opportunità, indipendenti e indifferenti rispetto alle superiori esigenze della salute della partoriente e dell’incolumità del nascituro.

Questo specifico aspetto della motivazione – disarticolata dall’evidente quadro storico emergente, con immediata evidenza, dalla ricostruzione del fatto compita dal medesimo giudice – rende di per sè la decisione meritevole di annullamento.

Va inoltre rilevato che questa reiterata condotta del L., lesiva della reputazione della T., realizza compiutamente l’ipotesi del reato di diffamazione contestato: l’accertata presenza del dottor Bo. o comunque di altro sanitario (che usualmente accompagnava il primario,durante le visite ai ricoverati) ha un’immediata rilevanza, agli effetti del requisito della comunicazione a più persone, in quanto in tal modo è risultato che il dottor L. ha agito in un contesto di tempo e di luogo, con la piena consapevolezza di pronunciare parole offensive in presenza di un uditorio di persone (composto anche dalle due pazienti),in grado di percepire le offensive valutazioni da lui espresse. Secondo un corretto orientamento interpretativo, il reato di diffamazione è reato formale ed istantaneo che si consuma con modalità espressive e comunicative che rendano accessibili a più persone la percezione delle affermazioni lesive della reputazione (sez. 5, n. 1763 del 19.10.2010, rv 249507).

D’altro canto, va rilevato che l’integrazione del reato di diffamazione non richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purchè risulti comunque rivolta a più soggetti, non essendo dato cogliere nel tenore dell’art. 595 c.p. alcun segno della volontà del legislatore di esigere, per la punibilità della diffamazione, la contestualità delle comunicazioni con più persone. (Sez. 5, n. 7408 del 4.11.2010,rv 249599).

Nel caso in esame, è evidente che, con le ripetute affermazioni diffamatorie, pronunciate dal primario, il 20 e il 26 settembre 2007, in presenza – oltre che del collega – delle pazienti M. M. e bu.em., hanno determinato un’evidente lesione del credito professionale e umano che la dottoressa T. aveva conseguito nel contesto sociale, costituito dagli utenti dell’assistenza medica, gestita dalla pubblica struttura sanitaria dell’ospedale di (OMISSIS). Tenuto conto della fondatezza dell’impugnazione proposta dalla sola T., la sentenza va annullata ai soli effetti civili, con rinvio al giudice civile, competete per valore in grado di appello. Le spese sostenute dalla parte civile saranno calcolate e rimborsate a seguito della decisione definitiva.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, ai soli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. Spese al definitivo.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2013

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