Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-02-2013) 05-04-2013, n. 15806

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Torino con sentenza del 3 febbraio 2012 confermava quella di primo grado che aveva condannato A.I., imputato del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, alla pena di mesi otto di reclusione, tenuto conto della riduzione per la scelta del rito.
L’imputato, destinatario del provvedimento di espulsione emesso dal Prefetto di Biella ed eseguito il 16 febbraio 2008, era entrato nuovamente in Italia in maniera illegale, come accertato in (OMISSIS).
La Corte territoriale, infatti, per quanto ancora interessa in questa sede:
– escludeva la sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. invocata dall’appellante, con riferimento al dovere di accudire i figli minori residenti in Italia;
– negava che il reato contestato dovesse ritenersi estinto, L. n. 102 del 2009, ex art. 1 ter In quanto la domanda di emersione proposta dall’imputato, era stata rigettata con provvedimento non impugnato in sede amministrativa;
– escludeva che il nuovo reato commesso dall’imputato potesse ritenersi unito nel vincolo della continuazione ad analoga precedente violazione commessa dall’appellante.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Imputato, personalmente, il quale denuncia:
– violazione ed erronea applicazione della legge penale, attesa l’Incompatibilità del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, e successive modifiche, con la direttiva rimpatri;
– violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla negata operatività della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., contestando la fondatezza delle argomentazioni addotte sul punto dai giudici di appello, obiettando, quanto alla pretesa assenza di prova relativamente al pregiudizio subito dalla prole a ragione dell’assenza del padre, che nella specie tale danno doveva ritenersi in re ipsa; quanto all’asserita negatività di una presenza dell’imputato in ambito familiare, che tale affermazione si basava su dei dati non significativi ed unilaterali, quali le inverificate denunce sporte dalla moglie A.F.;
– violazione di legge (art. 51 cod. pen. e artt. 29, 30 e 31 Cost.) relativamente all’affermazione del giudici di appello secondo cui il valore dell’unità familiare non potrebbe prevale sui valori protetti dalla norma incriminatrice;
– violazione di legge (art. 51 cod. pen.), con riferimento al passaggio argomentativo In cui si afferma che sarebbe onere dell’imputato fornire la prova del grave pregiudizio subito dalla prole a ragione della loro lontananza dalla figura paterna;
– violazione di legge (art. 62 c.p., comma 1), relativamente alla mancata concessione dell’attenuante dell’aver agito l’imputato per motivi di particolare valore morale o sociale, avendo omesso i giudici di appello di considerare le ragioni alla base della decisione dell’imputato di rientrare in Italia (volontà di fornire assistenza alla prole);
– violazione di legge (art. 81 c.p., comma 2) e vizio di motivazione, relativamente al mancato riconoscimento della continuazione tra il reato contestato e quello già giudicato con sentenza del Tribunale di Biella del 16 febbraio 2008;
– violazione di legge e vizio di motivazione, relativamente alla mancata rivelazione di una causa di estinzione del reato ed alla mancata disapplicazione del provvedimento di rigetto della domanda di emersione.
Motivi della decisione
1. L’impugnazione proposta da A.I. è basata su motivi infondati e va per ciò rigettata.
1.1 Quanto al primo motivo dedotto in ricorso, va infatti rilevato che le pur articolate argomentazioni ivi proposte muovono da non condivisibili presupposti esegetici.
Come questa Corte ha infatti già avuto occasione di precisare con riferimento ad una fattispecie non dissimile (Sez. 1, n. 35871 del 25/05/2012 – dep. 19/09/2012, Pg in proc. Mejdi, Rv. 253353) – ed alle cui diffuse motivazioni, che questo Collegio ritiene senz’altro di condividere, espressamente si rinvia la condotta di reingresso nel territorio dello Stato, senza autorizzazione, del cittadino extracomunitario già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale pur dopo l’emissione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi, perchè i principi affermati con riguardo alle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo ai fini della valutazione della condotta di reingresso in assenza di autorizzazione.
In particolare, va ribadita l’impossibilità di trasporre automaticamente le conclusioni della sentenza El Dridi, pronunziata con riguardo al delitto previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, e successive modifiche alla diversa fattispecie disciplinata dal medesimo D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, che, come già ricordato, incrimina la condotta di reingresso nel territorio dello Stato, senza autorizzazione, del cittadino extracomunitario già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, in quanto tale operazione esegetica comporterebbe una non consentita invalidazione a posteriori del provvedimento amministrativo di espulsione a suo tempo legittimamente adottato che, oltre a non costituire elemento strutturale della fattispecie penale di cui all’art. 13, comma 13, ha esaurito i suoi effetti con l’avvenuta espulsione del cittadino extracomunitario dal territorio dello Stato.
1.1.2 Ciò posto, le argomentazioni del ricorrente si rilevano non fondate anche laddove prospettano un contrasto del divieto di reingresso con alcuni principi fissati dalla direttiva.
Il divieto di reingresso non è connotato da alcun automatismo rispetto al provvedimento di espulsione, essendo prevista, sia nella versione normativa antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 129 del 2011 che in quella successiva, la possibilità di appositi provvedimenti ministeriali di deroga e l’attribuzione di specifico rilievo a determinate situazioni legislativamente disciplinate (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, e successive modifiche).
Inoltre la durata del divieto è graduata in rapporto alle peculiarità del caso concreto, come si desume dalla formulazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 14, che, nella versione antecedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 129 del 2011, imponeva di tenere conto della complessiva condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza in Italia e, nella formulazione attualmente in vigore, obbliga l’Autorità a tenere conto di tutte le circostanze pertinenti il singolo caso.
Con riferimento alla durata del divieto di reingresso il Collegio osserva, in particolare, che mentre prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 129 del 2011, esso operava per un periodo minimo di cinque anni fino ad un massimo di dieci, attualmente, a seguito della novella legislativa che ha doverosamente recepito la direttiva, esso concerne un lasso di tempo compreso fra i tre e cinque anni.
Nel caso concreto, per altro, il reingresso dell’imputato nel territorio dello Stato è stato accertato il 15 febbraio 2008 e, quindi, a distanza di pochi mesi dall’espulsione, avvenuta il 26 ottobre 2007. Pertanto, pure dovendosi indubbiamente tenere conto del disposto dell’art. 11, par. 2, della direttiva, che fissa In un massimo di cinque anni la rilevanza penale della condotta di reingresso nel territorio dello Stato in assenza di autorizzazione, è incontestabile che, nella peculiare fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, la sentenza impugnata è esente da censure nella parte in cui ha ritenuto che la condotta dell’imputato integrasse, anche sotto questo profilo, il reato contestato.
1.2 Infondati si rivelano anche gli ulteriori motivi di impugnazione prospettati in ricorso, attraverso i quali si prospetta, sostanzialmente, la tesi secondo cui il carattere antigiuridico del reingresso in Italia di A.I. dovrebbe considerarsi eliso dalla circostanza che tale condotta era stata determinata dalla volontà dell’imputato di ottemperare agli obblighi di assistenza morale ed economica dei due figli minori, residenti in Italia.
Tutte le deduzioni proposte in questa sede riproducono, infatti, delle tesi già formulate nei precedenti gradi del giudizio e disattese dai giudici del merito con argomentazioni corrette e condivisibili.
Al riguardo va ribadito – come rilevato nelle precedenti sentenze – che il decreto di espulsione non presenta vizi evidenti rilevabili in questa sede, e che comunque, l’imputato era ben consapevole dell’esistenza del decreto di espulsione e della necessità di una specifica autorizzazione per il rientro in Italia, autorizzazione che non ha chiesto, in vigenza di un decreto di espulsione non dichiarato illegittimo. Peraltro, nessun elemento è stato fornito dal ricorrente che dimostri che la sua presenza in Italia sia stata sollecitata dalla moglie e madre della prole, fermo restando, in ogni caso, che il ricongiungimento con i propri discendenti sprovvisti della nazionalità italiana e non conviventi non può costituire certamente ipotesi scriminante (nè specifica, nè in generale) di una condotta di rientro senza autorizzazione, non costituendo neppure valido presupposto per l’applicazione in favore dell’imputato (già espulso) della condizione ostativa all’espulsione di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 2.
1.3 Nessun profilo di illegittimità è altresì ravvisabile nella decisione impugnata relativamente al mancato riconoscimento all’imputato dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 1, avendo i giudici dei giudici di appello con plausibile argomentazione, precisato, per un verso, che non era affatto provato, intanto, che la violazione del divieto di reingresso fosse stata effettivamente motivata dalla volontà di assistere la prole, nè che l’assenza del genitore fosse pregiudizievole per l’educazione della stessa, deponendo, anzi, in senso contrario la denuncia sporta nel 2006 nei confronti dell’imputato per abbandono di persone minori; dall’altro, che anche qualora fosse stata positivamente dimostrata tale volontà, tale intento non legittimava, evidentemente, il reingresso del ricorrente in Italia, senza autorizzazione.
1.4 Considerazioni non diverse valgono, poi, anche con riferimento alle censure prospettate in ricorso relativamente al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra il reato contestato nel presente giudizio e quello, analogo, giudicato dal Tribunale di Biella con sentenza del 16 febbraio 2008, avendo la Corte territoriale sul punto, con adeguata e logica motivazione, precisato che le due violazioni, seppur omogenee, erano frutto di autonome determinazioni, essendo scaturite da situazioni nuove e contingenti, le quali non consentivano, per ciò, di ritenerli espressione di una programmazione unitaria.
1.5 Quanto, infine, al mancato riconoscimento dell’applicabilità della causa di estinzione del reato L. n. 102 del 2009, ex art. 1 ter, comma 11 risultano assolutamente corrette le considerazioni svolte dalla Corte territoriale, che sul punto ha evidenziato come l’Istanza di emersione proposta dall’imputato fosse stata rigettata dalla Prefettura di Biella e come tale provvedimento non avesse formato oggetto di impugnativa da parte dell’Interessato, dovendosi qui ribadire, quanto alla mancata disapplicazione di tale provvedimento, il principio di diritto già affermato da questa Corte con riferimento ad una fattispecie non dissimile, secondo cui il giudice penale può disapplicare il provvedimento amministrativo illegittimo, presupposto di ipotesi delittuosa e provvedere di conseguenza all’assoluzione dell’imputato, ma solo quando la causa dell’illegittimità risulti oggettiva e di semplice rilevabllità (Sez. 1, n. 28849 del 11/06/2009 – dep. 15/07/2009, M., Rv.
244296) eventualità questa motivatamente esclusa dai giudici di appello.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2013

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