Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-08-2012, n. 14246

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Torino confermava la statuizione di primo grado con cui era stata rigettata la opposizione proposta dalla XXX XXX spa avverso il decreto reso L. n. 300 del 1970, ex art. 28 con cui era stata accertata l’antisindacalità della condotta posta in essere dalla società, la quale non aveva dato corso alle richieste dei lavoratori aderenti all’organizzazione sindacale XXX di operare le trattenute della quota sindacale sulle rispettive retribuzioni. La Corte territoriale rigettava il motivo d’appello concernente la carenza di legittimazione passiva del XXX, riportandosi alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, per la legittimazione, si richiede solo il requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale, il che era comprovato, non solo dalla presenza di organismi locali della Confederazione in quasi tutte le province, ma anche lo svolgimento dell’attività con richiesta, su tutto il territorio nazionale, di JW incontri, volantini ecc, non essendo invece necessaria la sottoscrizione di accordi.
La Corte adita rigettava altresì, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, gli altri motivi di impugnazione sulla cessione del credito come effettuata in frode alla legge, sugli oneri aggiuntivi per il datore di lavoro, sulla irrevocabilità della cessione.
Rigettava altresì l’ulteriore motivo di impugnazione concernente la incompatibilità tra le richieste cessioni di credito e le previsioni del D.P.R. n. 180 del 1950, come modificato da ultimo dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 137 e dal D.L. n. 35 del 2005, art. 13 bis, convertito in L. n. 80 del 2005.
Avverso detta sentenza la società soccombente ricorre con tre motivi.
Resiste il XXX con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo si denunzia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 28 e difetto di motivazione, per avere la sentenza impugnata affermato il carattere nazionale del XXX pur in mancanza della stipula di contratti o accordi nazionali.
Il motivo è infondato.
E’ stato infatti da ultimo ritenuto (Cass. n. 16787 del 29/07/2011) in conformità a principi già consolidati che "In tema di repressione della condotta antisindacale, ai fini della legittimazione a promuovere l’azione prevista dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali".
Invero tanto in dottrina che in giurisprudenza (Cass. n. 5209 del 2010, n. 13240 del 2009 e n. 29257 del 2008), si è evidenziato che non deve confondersi la legittimazione ai fini dell’art. 28, con i requisiti richiesti dal l’art. 19 della medesima legge per la costituzione di rappresentanze sindacali titolari dei diritti di cui al titolo terzo. L’art. 19, al suo specifico fine, richiede la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali (o anche provinciali o aziendali, purchè applicati in azienda). L’art. 28 non prevede analogo requisito, implicante il consenso della controparte datoriale. Richiede che l’associazione sia nazionale.
Il carattere nazionale non può desumersi da dati meramente formali e non è sufficiente una dimensione nazionale statica, meramente strutturale, ma è necessaria anche un’azione diffusa a tale livello.
Tuttavia azione a livello nazionale non significa necessariamente stipulazione di contratti collettivi di livello nazionale. Se contratti di questo livello sono stati sottoscritti, ciò sarà un indice importante del carattere nazionale dell’attività sindacale, ma è possibile che presentino questo requisito anche associazioni che abbiano svolto attività su tutto, o quanto meno ampia parte, del territorio nazionale, anche se non abbiano sottoscritto contratti collettivi nazionali.
2. Con il secondo motivo si denunzia violazione degli artt. 1362 e seg. 1367 in riferimento all’art. 39 Cost. e dell’art. 1260 cod. civ. per la illegittimità di un negozio finalizzato alle cessione di un credito futuro a fronte di un debito di fatto inesistente al momento dell’accordo.
Anche questo motivo è infondato.
Con la sentenza di questa Corte n. 21368 del 07/08/2008 si è affermato che "Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 dello statuto dei lavoratori, e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo, sicchè i lavoratori, nell’esercizio della autonomia privata e mediante la cessione del credito in favore del sindacato, possono chiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato. Qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporta in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex artt. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza. L’eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia della cessione del credito, ma può giustificare l’inadempimento del debitore ceduto, mentre il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti,qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale".
Detti principi sono stati riconfermati dalle sentenze n. 9049 del 20/04/2011 e n. 2314 del 17/02/2012, in quest’ultima pronunzia si è effettuata la seguente sintesi:
"La posizione della Cassazione sul problema dei contributi sindacali è consolidata quanto alle questioni poste con il secondo ed il terzo motivo (Cfr., in particolare, Cass., sezioni unite, 21 dicembre 2005, n. 28269; Cass., 7 agosto 2008, n. 21368; Cass., 20 aprile 201, n. 9049).
11. Sono stati affermati i seguenti principi di diritto.
a) Il referendum del 1995, abrogativo dell’art. 26 st. lav., comma 2, e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995, non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, ma è soltanto venuto meno il relativo obbligo. 1 lavoratori, pertanto, possono richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi da accreditare al sindacato cui aderiscono (S.U. 28269/2005).
b) Tale atto deve essere qualificato cessione del credito (art. 1260 c.c., e segg.) (S.U. 28269/2005).
c) In conseguenza di detta qualificazione, non necessita, in via generale, del consenso del debitore (cfr. art. 1260 c.c.) (S.U. 28269/2005).
d) Non osta il carattere parziale e futuro del credito ceduto: la cessione può riguardare solo una parte del credito ed avere ad oggetto crediti futuri (S.U. 28269/2005, nonchè Cass. 10 settembre 2009, n. 19501)".
Il secondo motivo va quindi rigettato.
3. Con il terzo motivo, si denunzia violazione delle disposizioni di legge che hanno modificato il D.P.R. n. 180 del 1950, art. 1, degli artt. 11 e 12 preleggi e dell’art. 1260 c.c., nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Costituisce invece questione nuova quella relativa alle conseguenze sulla materia di alcuni recenti interventi legislativi: la L. 31 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 137; il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 14 maggio 2005, n. 80 e la L. 23 dicembre 2005, n. 266.
Le sezioni unite del 2005 citarono i primi due interventi (il terzo è successivo alla decisione), ma precisarono che i problemi di interpretazione di tali modifiche non potevano essere affrontati in quella sede perchè la nuova disciplina non era applicabile ratione temporis al caso esaminato.
Al contrario, la nuova normativa è sicuramente applicabile in questa controversia e quindi il problema deve essere affrontato.
La questione è la seguente. Il "Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e le cessioni degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni" (D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180), è stato modificato ed integrato dai tre interventi legislativi prima richiamati. L’art. 1 prevedeva, e prevede tuttora, la insequestrabilità, impignorabilità, e incedibilita1 di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti corrisposti ai propri dipendenti dalle amministrazioni pubbliche.
Con la legislazione recente su richiamata tali limitazioni sono state estese alle retribuzioni corrisposte dalle aziende private.
A sua volta, l’art. 5, pone dei limiti alla possibilità per i dipendenti pubblici di "contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote di stipendio o del salario fino ad un quinto dell’ammontare". Gli artt. 15 e 53, individuano gli istituti autorizzati, in via esclusiva, a concedere prestiti ai dipendenti pubblici. Anche queste limitazioni sono state estese ai dipendenti di imprese private.
L’art. 52 stabilisce che i dipendenti pubblici (e ora anche i dipendenti di privati) "possono fare cessioni di quote di stipendio in misura non superiore ad un quinto" e per periodi massimi di cinque o dieci anni a condizione che siano provvisti di stipendio fisso e continuativo (ulteriori modifiche della disposizione introdotte dalla recente legislazione non rilevano ai fini della questione in esame).
La tesi della società ricorrente è che i lavoratori dipendenti (dopo le recenti modifiche, anche quelli di aziende private) non potrebbero cedere una parte della loro retribuzione alle associazioni sindacali a titolo di quote associative, perchè la cessione sarebbe consentita solo in favore degli istituti di credito indicati negli artt. 15 e 53 del D.Lgs. su richiamato.
La tesi fa dire alla legge qualcosa in più e di diverso da ciò che essa stabilisce effettivamente.
Infatti, la limitazione concernente gli istituti di credito riguarda solo le cessioni di credito retributivo collegate alla erogazione di prestiti (cfr. il combinato disposto degli artt. 5, 15 e 53 del T.U.).
Sono perfettamente comprensibili le ragioni di tale scelta legislativa, volta a garantire che il soggetto erogatore del prestito e correlativamente beneficiario della cessione di quote della retribuzione per la restituzione del capitale maggiorato degli interessi, presenti caratteristiche tali da assicurarne serietà ed affidabilità e che il lavoratore sia tutelato contro prestiti erogati da soggetti che non offrano adeguate garanzie.
Al contrario, l’art. 52 riguarda tutte le cessioni del credito del lavoratori dipendenti, anche quelle non collegate alla erogazione di un prestito. La norma prevede una serie di condizioni e restrizioni, ma non contiene limitazioni del novero dei cessionari. Queste ultime, specifiche limitazioni sono circoscritte alle sole cessioni in qualsiasi modo collegate a concessioni di prestiti e riguardano soggetti che, al tempo stesso, sono erogatori di credito e cessionari. Tali specifiche limitazioni non riguardano cessioni del tutto slegate dalla concessione di crediti, come sono quelle in favore delle associazioni sindacali per il pagamento delle quote associative.
Sarebbe stato molto strano, del resto, che il legislatore, al fine di garantire il lavoratore cedente, gli impedisse di destinare una parte (in genere molto contenuta, e comunque soggetta ai limiti incisivi fissati dall’art. 52) della sua retribuzione al sindacato cui aderisce, cosi trasformando una legislazione antiusura volta a tutelare il lavoratore, in una forma di restrizione irragionevole della sua autonomia e della sua libertà sindacale.
Il legislatore non ha previsto questo, ma ha introdotto limitazioni calibrate in funzione degli interessi da tutelare e differenziate in relazione alla diversità delle situazioni, fissando limiti per tutte le cessioni e prevedendo limiti specifici per le cessioni in qualsiasi modo connesse alla erogazione di un prestito.
L’interprete non può estendere queste limitazioni oltre l’ambito segnato dalla lettera e dalla finalità dell’intervento legislativo.
Si è infatti ritenuto sulla questione (Cass. n. 2314 del 17/02/2012) che "In tema di riscossione di quote associative sindacali dei dipendenti pubblici e privati a mezzo di trattenuta ad opera del datore di lavoro, il D.P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, art. 52, come modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 13-bis, convertito dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, nel disciplinare tutte le cessioni di credito da parte dei lavoratori dipendenti, non prevede limitazioni al novero dei cessionari, in ciò differenziandosi da quanto stabilito dall’art. 5, del medesimo D.P.R., per le sole ipotesi di cessioni collegate all’erogazione di prestiti. Ne consegue che è legittima la suddetta trattenuta del datore di lavoro, attuativa della cessione del credito in favore delle associazioni sindacali, atteso, altresì, che una differente interpretazione sarebbe incoerente con la finalità legislativa antiusura posta a garanzia del lavoratore che, altrimenti, subirebbe un’irragionevole restrizione della sua autonomia e libertà sindacale".
34. Il ricorso, pertanto, non è fondato e deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro per esborsi e tremila per onorari, oltre spese generali, Iva e CPA. Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2012
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