Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-08-2012, n. 14242

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Svolgimento del processo
Con sentenza depositata in data 30 aprile 2007, la Corte d’appello di Palermo, confermando la sentenza del 17 marzo 2006 del Tribunale di Trapani, rigettava la domanda proposta da B.M.G. e Br.Gi., quale curatrice della prima, inabilitata, e intesa a conseguire l’indennità di accompagnamento.
La Corte d’appello, dopo avere ricordato che il consulente tecnico d’ufficio, aveva accertato che la B. era affetta da ritardo mentale lieve su base cerebropatica, esiti di malattia di Crohn, degenerazione maculare, con visus OD 1/20, visus OS 1/20 e VC 5/10, poliartrosi con deficit funzionale, edentulismo, note di deterioramento mentale su base vasculopatica, ha condiviso le conclusioni raggiunte dall’ausiliare, secondo il quale tali patologie, pur gravi, non determinavano l’incapacità della donna di deambulare o di compiere autonomamente gli atti della vita quotidiana.
Avverso tale sentenza la B. e la Br. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi e depositato memoria ex art. 378 c.p.c., cui risulta allegata relazione di consulenza psicopatologica e medico-legale. L’INPS ha depositato procura speciale in calce al ricorso notificato.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, le ricorrenti denunciano la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., nonchè erronea e falsa interpretazione della L. 11 febbraio 1980, n. 18, art. 1.
Le ricorrenti muovono le loro censure, ricordando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di incapacità di compiere autonomamente gli atti della vita quotidiana, presupposto del riconoscimento del diritto di percepire l’indennità di accompagnamento e sottolineano che non rileva la mera idoneità fisica del malato a compiere gli atti, ma la sua capacità di intenderne significato, portata ed importanza, così come l’incidenza di tali atti sulla salute del malato e la salvaguardia della dignità di quest’ultimo. Esse assumono che il ritardo mentale della B. e l’assenza di autonomia erano provate, dal momento che il c.t.u. aveva accertato ritardo mentale lieve su base cerebropatica, malattia di Crohn con sindrome dell’intestino corto, degenerazione corneale periferica e degenerazione maculare senile con OD VN 1/20 = VC 1/10 scarso, OS VN 1/20 = VC 5/10, poliamosi a severa incidenza funzionale con note psoriasiche, anemia macrocitica, endetulismo non protesizzato, note di deterioramento mentale su base vasculopatica, con capacità intellettiva al di sotto della media, per poi giungere, contraddittoriamente, alle conclusioni recepite dai giudici di merito.
Formulano, al riguardo, il seguente quesito di diritto:
"In base alla normativa richiamata in rubrica, la L. 11 febbraio 1980, n. 18, art. 1 laddove prevede l’indennità di accompagnamento, quale misura assistenziale diretta anche a sostenere il nucleo familiare, deve essere interpretato anche nel significato di riconoscere, a coloro che, pur capaci di compiere materialmente alcuni atti elementari della vita quotidiana (quali il mangiare, il vestirsi, il pulirsi, ecc), necessitano di un accompagnatore, anche con assistenza passiva in momenti dell’intera giornata, in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva e cognitiva, di gravi stati patologici anche psichici (ritardo mentale aggravato da deterioramento delle funzioni psichiche e declino cognitivo con inibizione psicomotorie) – e per trovarsi nella incapacità di rendersi conto della portata dei singoli atti che vanno a compiere e dei modi e tempi in cui gli stessi debbano essere compiuti, di comprendere la rilevanza di condotte volte migliorare – o, quanto meno, a stabilizzare o non aggravare – il proprio stato patologico (condotte volte ad osservare un giornaliero trattamento farmacologico), e di valutare la pericolosità di comportamenti suscettibili di arrecare danni a sè o ad altri"?.
"In base alla normativa richiamata in rubrica, avrebbe dovuto l’Autorità Giudiziaria considerare la corretta applicazione della L. n. 18 del 1980, art. 1 laddove il diritto all’indennità all’accompagnamento non può essere applicato limitatamente alle sole ipotesi di difficoltà nello svolgimento di atti quotidiani, dovendo ritenersi che vi rientrano anche quegli impedimenti cagionati da infermità mentali con limitazioni dell’intelligenza, che, nello stesso tempo, richiedono una giornaliera assistenza farmacologia, e dovendosi intendere gli atti quotidiani non meramente come capacità in senso fisico di porli in essere, cioè come mera idoneità ad eseguire in senso materiale detti atti, ma anche come capacità di intenderne il significato, la portata, la loro importanza anche ai fini della salvaguardia della propria condizione psico-fisica".
2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le t. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
In particolare, si lamenta che la sentenza non ha preso in considerazione la documentazione di parte, la consulenza tecnica di parte depositata e le controdeduzioni alla c.t.u., laddove il consulente di parte aveva dichiarato "nella certificazione agli atti che la ricorrente è affetta da un deficit intellettivo e da ritardo mentale aggravato da deterioramento delle funzioni psichiche con declino cognitivo e tendenza all’inibizione psico – motoria".
La Corte, inoltre, aveva trascurato il fatto che nel 1974 la B. era stata inabilitata da Tribunale di Milano e che anche il verbale di visita medico legale datato 11 marzo 2004, redatto dalla 3^ Commissione di prima istanza, dopo la diagnosi, aveva concluso riconoscendo la ricorrente invalida con totale e permanente inabilità lavorativa con il 100% e invalida ultrasessantacinquenne con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’età.
In relazione a tale motivo, le ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: "In base alla normativa richiamata in rubrica, avrebbe dovuto l’Autorità Giudiziaria considerare la consulenza tecnica offerta da parte ricorrente in contestazione a quella fornita dal perito d’ufficio e se del caso, motivare per quale motivo non l’abbia ritenuta rilevante ai fini della decisione?".
3. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, le ricorrenti denunciano la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Esse lamentano che i giudici di merito non hanno valutato in concreto l’incapacità richiesta per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento e, in particolare, se per la mancanza di una effettiva capacità di intendere il significato degli atti che andava a compiere, si rendeva necessaria la presenza di un accompagnatore.
In relazione a tale motivo, le ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto:
"In base alla normativa richiamata in rubrica, "avrebbe dovuto l’Autorità Giudiziaria considerare ogni prova indicata dalla ricorrente e indicare i motivi per i quali non le abbia ritenute rilevanti ai fini della decisione e in particolare non fondare la decisione sul mero rinvio alla consulenza tecnica d’ufficio ma fornire una congrua motivazione sul mancato accoglimento della domanda di accompagnamento nonostante le accertate gravi condizioni patologiche della ricorrente, mediante un giudizio adeguatamente formulato e nel caso di specie completamente omesso".
4. I motivi proposti sono inammissibili.
4.1. Va, premesso che, poichè la sentenza impugnata è stata depositata in data 30 aprile 2007, è applicabile ratione temporis l’art. 366 bis c.p.c. nel testo vigente prima dell’abrogazione operata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d).
Come chiarito da questa Corte (v., ad es., Cass. 24 marzo 2010, n. 7119), alla stregua del principio generale di cui all’art. 11 preleggi, comma 1, secondo cui, in mancanza di un’espressa disposizione normativa contraria, la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, nonchè del correlato specifico disposto della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5, in base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge (4 luglio 2009), l’abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c. è diventata efficace per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, con la conseguenza che, per quelli proposti antecedentemente (dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006), tale norma è da ritenersi ancora applicabile.
4.2. Ciò posto, le Sezioni Unite, con la sentenza 5 luglio 2011, n. 14661, hanno ribadito che "il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C., il principio di diritto applicabile alla fattispecie, costituisce il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio generale, e non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula juris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata".
4.3. In particolare, "il quesito di diritto non può essere desunto dal contenuto del motivo, poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, consiste proprio nell’imposizione, al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità" (Cass., ord. n. 20409 del 2008).
4.4. Il quesito di diritto, quindi, "deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.
E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge" (Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., SU., n. 6530 del 2008; v. anche Cass., n. 28280 del 2008).
4.5. Le Sezioni Unite hanno, altresì, ribadito che il ricorso per cassazione nel quale si denunzino con un unico articolato motivo d’impugnazione vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto, è bensì ammissibile, ma esso deve concludersi "con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto". (Cass., S.U., n. 7770 del 2009).
Nella norma dell’art. 366 bis c.p.c., infatti, "nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5, precedente art. 360 – cioè la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione" – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione.
4.6. Ora, con specifico riferimento al primo quesito di diritto, si rileva che esso è privo di decisività, dal momento che non emerge dalla sentenza impugnata l’applicazione di una regula juris diversa da quella propugnata dalle ricorrenti, ma una diversa valutazione dell’incidenza funzionale delle patologie accertate sull’autonomia della B..
4.7. Tale conclusione non muta, anche in una lettura coordinata del primo motivo con i restanti due, proposti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e che presentano plurimi profili di inammissibilità.
Sia il secondo che il terzo quesito, infatti, non indicano le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione, quanto alla decisiva influenza delle patologie accertate sulla capacità di compiere gli atti della vita quotidiana.
Al riguardo, in aggiunta a quanto sopra ricordato, deve ribadirsi che, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris, rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. civ. ord. 7 aprile 2008, n. 8897: in applicazione di tale principio la suprema corte ha ritenuto inammissibile il ricorso nel quale la sentenza impugnata veniva censurata per avere integralmente recepito una consulenza tecnica d’ufficio, ma senza indicare in modo chiaro e sintetico le ragioni per cui tale motivazione fosse inidonea a sorreggere la decisione).
Più in particolare, il secondo motivo – ma non il quesito – opera un generico riferimento a "documentazione di parte" non meglio precisata e il terzo quesito rinvia in modo altrettanto generico ad "ogni prova indicata dalla ricorrente".
Quanto alla lamentata mancata considerazione della consulenza tecnica di parte, si rileva, in primo luogo, che, a pag. 6 del ricorso, le ricorrenti affermano che la Corte d’appello non ne avrebbe ammesso il deposito, ma non censurano in alcun modo tale decisione e non indicano gli elementi fattuali necessari a valutare l’esistenza di un eventuale error in procedendo.
In ogni caso, sia il secondo che il terzo quesito non specificano, come si diceva, quali profili, emersi o non da una consulenza di parte, dimostrino, con riferimento al caso concreto, l’insufficienza delle argomentazioni addotte dal consulente d’ufficio, prima, e dai giudici di merito, poi, a sostegno delle loro conclusioni.
E’ appena il caso di rilevare l’inammissibilità della produzione di una relazione di consulenza tecnica di parte allegata alla memoria e che non ne fa parte integrante, come reso palese dalla distinzione operata dalle stesse ricorrenti nell’indice della nota di deposito ai sensi dell’art. 372 c.p.c., non è infatti ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso.
Al riguardo, va sottolineato che, secondo l’orientamento espresso da questa Corte (v., ad es., di recente, Cass. civ. ord, sez. 6, 8 novembre 2010, n. 22707), sia pure con riferimento all’accertamento dell’inabilità da infortunio sul lavoro, qualora il giudice del merito si sia basato sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, affinchè sia denunciabile in cassazione il vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza, è necessario che eventuali errori e lacune della consulenza, che si riverberano sulla sentenza, si sostanzino in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche o scientificamente errate, non già in semplici difformità tra la valutazione del consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e il valore diverso allo stesso attribuito dalla parte.
5. Quanto alle spese processuali, ritiene il Collegio che la natura della controversia e le difficoltà di ricostruzione dell’incidenza funzionale delle patologie anche psichiche sull’autonomia della persone, giustifichino la compensazione. Nulla con riferimento al Ministero intimato.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2012

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