Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-08-2012, n. 14238

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Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 21 luglio 2009, la Corte d’Appello di Palermo respingeva il gravame svolto da XXXs.p.a. contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a C.G. in data 2 aprile 2001, con ordine di reintegrazione e condanna al risarcimento del danno.
2. La Corte territoriale puntualizzava, per quanto qui rileva, che:
– C.G., dipendente delle XXXs.p.a., veniva licenziato, ai sensi degli artt. 52, 54, 68 lett. E) del CCNL di categoria dell’11.1.2001, per l’asserita commissione del reato di falso ideologico in concorso con i componenti della commissione medica periferica di Corleone che avevano attestato l’esistenza di patologie comportanti lo stato di invalidità del predetto C.;
con la lettera di contestazione degli addebiti, la società aveva comunicato al dipendente di aver rilevato, dagli esami degli atti processuali contenuti nel fascicolo aperto presso il tribunale di Palermo per reati connessi all’assunzione presso l’amministrazione in qualità di invalido civile, che la Commissione medica periferica per le pensioni di guerra di Palermo, investita dell’accertamento della permanenza dei requisiti sanitari prescritti per l’iscrizione negli elenchi di collocamento di cui alla L. n. 482 del 1968, art. 19, aveva dichiarato le infermità, a suo tempo riconosciute, non idonee a giustificare la qualità di invalido civile;
– il dipendente lamentava la genericità della contestazione;
– la decisione di accoglimento del primo giudice veniva impugnata dalla società che deduceva l’erronea esclusione della giusta causa di licenziamento per aver il consulente tecnico officiato in primo grado escluso che il dipendente avesse la percentuale di invalidità necessaria per essere qualificato invalido civile ed assunto come tale; che il procedimento penale, celebrato nei confronti del dipendente, era stato definito con declaratoria di estinzione del reato per prescrizione e non con sentenza di assoluzione; ed infine, che la condotta del dipendente integrava comunque il giustificato motivo soggettivo di licenziamento in relazione all’uso consapevole di una certificazione falsa ai fini della costituzione del rapporto di lavoro.
3. A sostegno del decisum la Corte territoriale riteneva, per quanto qui rileva:
– il provvedimento espulsivo, di natura univocamente disciplinare, fondato sull’asserita commissione di reati da parte del dipendente ed adottato all’esito del procedimento avviato con la contestazione degli addebiti, sviluppatosi con la formulazione delle difese da parte dell’incolpato e concluso con l’adozione della sanzione;
– in relazione alla contestazione e ai motivi di licenziamento, non rilevava tanto la sussistenza delle condizioni necessarie per la declaratoria dello stato di invalidità civile, quanto la compartecipazione nella falsa certificazione di patologie inesistenti e la consapevole utilizzazione di tale certificazione per l’assunzione quale invalido civile, in forza della quale veniva stipulato il contratto di lavoro;
– il Giudice per l’udienza preliminare, decidendo in sede di rinvio, riqualificava i fatti ascritti come falso ideologico in certificati e dichiarava non doversi procedere per insussistenza del fatto, e tali conclusioni andavano condivise costituendo elemento sufficiente ad escludere la sussistenza della condotta illecita ascritta al dipendente nell’impugnato provvedimento espulsivo;
– la pluralità di accertamenti cui era stato sottoposto il dipendente, per accertare le patologie da cui era stato ritenuto affetto ad opera di organi collegiali e in tempi diversi, appariva scarsamente conciliabile con l’ipotizzata dolosa falsità delle certificazioni, in mancanza di elementi di valutazione idonei a giustificare l’interesse degli organi accertatoli a formulare una falsa valutazione delle condizioni di salute per consentire all’interessato di fruire dei relativi benefici;
– le patologie, in misura percentuale inferiore a quella utile per l’attribuzione dello stato di invalidità civile, erano state accertate anche dalla Commissione medica officiata dalla Procura della Repubblica di effettuare il controllo, e lo stesso c.t.u.
officiato in primo grado aveva formulato un giudizio di non invalidità in considerazione del range valutativo previsto per le singole affezioni;
– mancavano, pertanto, elementi probatori idonei a dimostrare che l’attribuzione dello stato di invalidità fosse frutto di certificazioni, da parte dei competenti organi, di situazioni patologiche inesistenti o dolosamente sopravvalutate, e che il dipendente avesse concorso a diverso titolo o consapevolmente fatto uso dell’ipotizzata falsità;
– non sussisteva, pertanto, alcuna delle condotte indicate nell’art. 54 del CCNL di categoria richiamato nella lettera di licenziamento, che contempla "la violazione dolosa di leggi e regolamenti o dei doveri d’ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio all’ente o a terzi" o prevede la possibilità della massima sanzione "quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile e, comunque, con mezzi fraudolenti", o ancora "in genere per fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro", ipotesi in relazione alle quali è stato giustificato il recesso e che presuppongono tutte la sussistenza di una condotta dolosa, nella specie indimostrata; nè sussisteva, in concreto, la possibilità della conversione del licenziamento per giusta causa in recesso per giustificato motivo soggettivo, mancando proprio la prova dell’inadempimento che avrebbe legittimato la conversione.
4. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, XXXs.p.a., ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico articolato motivo, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c. L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso.
Motivi della decisione
5. Con unico articolato motivo di ricorso, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 54 CCNL del 2001 e art. 2119 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’artt. 652 e ss. c.p.p.; insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Assume la società che la Corte di merito avrebbe limitato il proprio esame alle valutazioni espresse dal giudice penale omettendo di esaminare, ed adeguatamente motivare, i risultati cui era pervenuto l’ausiliare officiato in primo grado, in particolare che il dipendente non avesse mai accusato alcun sintomo della diagnosticata patologia bronchiale ragione per cui non poteva che essere consapevole della fraudolenta assunzione, onde la condotta era caratterizzata da dolo e passibile della massima sanzione espulsiva prevista dall’art. 54 del CCNL del 2001. Assumeva, inoltre, che la condotta del dipendente integrava gli estremi del giustificato motivo soggettivo di recesso ed era comunque sussumibile in una delle ipotesi contrattualmente previste ai fini dell’applicabilità della sanzione del licenziamento con preavviso.
6. Osserva il Collegio che le dedotte censure per violazione legge non risultano adeguatamente illustrate con l’esposizione ed illustrazione delle ragioni per le quali la Corte territoriale avrebbe violato norme o principi di diritto.
7. La deduzione è all’evidenza inammissibile perchè la censura dedotta risulta, per come svolta, priva della specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, non risultando in tal modo consentito alla Corte di legittimità di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione.
8. Ma la doglianza non è meritevole di accoglimento anche per i seguenti molteplici profili:
– sono genericamente richiamati gli artt. 652 e ss. c.p.p., ma a prescindere dal rilievo di inammissibilità della deduzione priva di specificità, va rilevato che l’art. 653 c.p.p., inerisce, invero, all’efficacia del giudicato penale nei procedimenti disciplinari a carico dei dipendenti pubblici e non si applica, pertanto, ai rapporti di lavoro intercorrenti con la s.p.a. Poste italiane, che non è amministrazione pubblica (ex multis, Cass. 5530/2003);
– comunque, l’art. 654 c.p.p., disposizione che, correttamente, potrebbe rilevare con riferimento ai procedimenti disciplinari a carico dei dipendenti privati, esclude che possa avere efficacia in un successivo giudizio civile la sentenza penale di condanna o di assoluzione, con riferimento ai soggetti che non abbiano partecipato al giudizio penale, indipendentemente dalle ragioni di tale mancata partecipazione, sicchè nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore sulla base di una condotta per la quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudice civile non è vincolato dal giudicato penale ed è quindi abilitato a procedere autonomamente alla valutazione del materiale probatorio acquisito al processo, nel caso di mancata partecipazione del datore di lavoro al giudizio penale (ex multis, Cass. 17652/2007;
Cass. 1095/2007).
9. Passando all’esame del dedotto vizio di motivazione, rileva il Collegio che il ricorso per cassazione con il quale siano dedotti vizi della motivazione della sentenza deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basa la decisione (o il capo di essa) censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere, come nella specie, il contrasto dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice del gravame con il convincimento e con le tesi della parte, risolvendosi il motivo di ricorso così proposto in un’inammissibile richiesta di sindacato del Giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito.
10. In ogni caso la sentenza impugnata ha esaminato tutte le circostanze rilevanti ai fini della decisione, svolgendo un iter argomentativo esaustivo coerente con le emergenze istruttorie acquisite: la declaratoria di insussistenza del fatto pronunciata dal giudice del rinvio all’esito della cassazione della sentenza da parte della S.C. nella parte relativa alla posizione del C.; la pluralità e collegialità degli accertamenti cui il C. è stato sottoposto; la variabilità dell’apprezzamento della riduzione della capacità lavorativa ai fini dell’attribuzione dello stato di invalidità civile, anche da parte della Commissione medica officiata dalla Procura della Repubblica dei relativi controlli.
11. La valutazione delle predette risultanze che ha, pertanto, condotto la Corte di merito verso la ritenuta mancanza di elementi probatori idonei a dimostrare che l’attribuzione dello stato di invalidità civile, proveniente da una Pubblica Amministrazione, e per di più reiterata, sia stata frutto delle certificazioni attestanti patologie inesistenti o sopravvalutato e che a tale apprezzamento il dipendente abbia concorso a diverso titolo o fatto uso consapevolmente dell’ipotizzata e indimostrata falsità, è immune da contraddizioni e vizi logici; le valutazioni svolte e le coerenti conclusioni che ne sono state tratte configurano quindi un’opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole, espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio.
12. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2012

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