Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-08-2012, n. 14235

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 5354/09 del 19 novembre 2009, rigettava l’impugnazione proposto da M.S. nei confronti della società XXX spa, in ordine alla sentenza emessa dal Tribunale di Napoli del 5 marzo 2008.
2. Il M. aveva adito il Tribunale esponendo di essere stato assunto in data 7 maggio 2001 dalla società XXX spa, prima part-time, e poi a tempo pieno;
di aver ricevuto nota di contestazione disciplinare per avere ammesso che il personale adibito alle pulizie di Palazzo XXX, egli stesso incluso, nell’ultimo mese e mezzo aveva abbandonato il posto di lavoro tre ore prima del termine dell’orario normale, firmando per la presenza per l’intera giornata ed effettuando pulizie che avrebbe dovuto svolgere, dopo il termine dell’orario di lavoro, in altri siti, segnando le relative ore come straordinario;
di aver presentato giustificazioni per iscritto scritte e in sede di audizione orale;
di avere ricevuto il 25 giugno 2004 comunicazione di licenziamento senza preavviso, ai sensi dell’art. 49, lettera B, del CCNL, tempestivamente impugnato, per aver tenuto un orario di lavoro inferiore a quello stabilito;
che i fatti contestati erano insussistenti e non provati circa l’abbandono del posto di lavoro e la percezione dello straordinario indebito;
che le proprie mansioni di caposquadra non comprendevano anche quelle di coordinatore e verificatore dell’operato del personale dipendente;
che era sproporzionata la sanzione inflitta rispetto all’addebito contestato in violazione anche delle norme del CCNL. Chiedeva, quindi, che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento e ordinata la reintegra, con condanna della convenuta società al risarcimento del danno.
3. Il Tribunale rigettava il ricorso.
4. La Corte d’Appello, preliminarmente, ha ritenuto ritualmente instaurato il giudizio di appello in quanto la prima notifica (effettuata alla parte personalmente, essendo deceduto il difensore, ma ad un indirizzo errato) era da considerarsi nulla e non inesistente con l’applicazione del sistema sanante di cui all’art. 291 c.p.c..
Nel merito, premesso:
che il procedimento disciplinare scaturiva dalla denuncia del 7 giugno 2004 di altra dipendente, tale G.R. (componente della squadra coordinata dal M.), che la lettera di contestazione affermava che "il giorno 7 giugno scorso, in un colloquio con il responsabile della Produzione lei ha ammesso che il personale adibito a Palazzo XXX, lei incluso, nell’ultimo mese e mezzo ha costantemente abbandonato il posto di lavoro oltre 3 ore prima del termine del normale orario di lavoro firmando la presenza per l’intera giornata …." (pag. 5 della sentenza);
che con successiva comunicazione veniva irrogato licenziamento (pag.
6 della sentenza) riteneva:
che l’immutabilità della contestazione impediva di contestare fatti nuovi al lavoratore ma non richiedeva una precisa identità tra contenuto della contestazione e il tenore del provvedimento sanzionatorio (abbandono posto lavoro ed effettuazioni orari inferiori descrivono un inequivocabile fatto: non avere osservato l’intero orario di lavoro);
che non sussisteva la genericità del provvedimento espulsivo in riferimento all’art. 49, lettera B, del CCNL in quanto le specifiche ipotesi dallo stesso previste (lettere a-h) erano solo esemplificative e non tassative, mentre la reiterata anticipazione della fine dell’orario di lavoro può dar luogo al grave nocumento morale e materiale per l’azienda di cui al n. 1 del suddetto art. 49;
che la condotta non poteva ascriversi, in ragione della sua reiterazione, nella mera anticipata cessazione del lavoro di cui all’art. 48 del CCNL;
che nella comunicazione di recesso il mancato riferimento all’art. 2119 c.c. veniva supplito dal riferimento alla irrimediabile lesione del rapporto fiduciario, risultando detto provvedimento sufficientemente motivato;
che era corretta la valutazione delle risultanze istruttorie (teste G., testi Mo. e R.).
5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il M. prospettando due motivi di ricorso.
6. Resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato, articolato in un motivo, la società.
7. Il M. ha proposto controricorso in merito al ricorso incidentale.
8. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso principale è prospettata la violazione, anche sotto il profilo del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia – in particolare, sull’illegittimità del procedimento disciplinare, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale – degli artt. 47, 48 e 49 del CCNL Imprese pulizia (XXX), nonchè il vizio di ultra ed extra petita, arti 12 epe (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il ricorrente premette che la vicenda in esame, come esposto nella sentenza d’appello, prendeva origine dalla presunta denuncia del 7 giugno 2004, di una dipendente della società, tale G.R., componente di una squadra di pulizia, che avrebbe dichiarato, in ragione di proprie supposizioni, che tutti gli altri colleghi, per un mese e mezzo circa anticipavamo l’uscita.
A seguito di ciò, gli veniva contestato, di aver ammesso, in un colloquio intervenuto il giorno 7 giugno con il Responsabile della produzione, che il personale di pulizia addetto a Palazzo XXX, lui compreso aveva abbandonato il posto di lavoro nell’ultimo mese e mezzo, oltre tre ore prima del termine del normale orario di lavoro, firmando la presenza per l’intera giornata. Durante tali ore lo stesso personale, se ve ne fosse stata la necessità, eseguiva le pulizie che avrebbe dovuto effettuare in altri siti dopo l’orario di lavoro, segnando straordinario. Ciò presentava profili di gravita estrema perchè, non solo lo stesso M., come caposquadra, non vigilava sul rispetto dell’orario e sulla reale effettuazione del lavoro straordinario dei lavoratori componenti il gruppo da lui coordinato, ma adottava anche egli le stesse forme di orario. La riduzione ingiustificata dell’orario di lavoro peggiorava la qualità del servizio stesso in quantità di immagine della società nei confronti del cliente, non dimenticando il danno economico ricevuto.
Il successivo provvedimento espulsivo faceva riferimento alla circostanza che esso M. non solo effettuava orari più brevi di quelli contrattuali, ma che tali orari erano prassi e non casi sporadici, sia per lo stesso che per i componenti della squadra. Ciò era molto grave in quanto, oltre ad aver commesso gravi infrazioni disciplinari, ledeva irrimediabilmente l’elemento fiduciario che è alla base di qualsiasi rapporto di lavoro e, ancor più, per il M. che ricopriva ruoli di coordinamento.
Per tale ragione veniva disposta, ex art. 49 del CCNL, la sanzione del licenziamento senza preavviso.
Tanto premesso, deduce il ricorrente che non vi sarebbe corrispondenza tra la contestazione disciplinare ed il provvedimento espulsivo, in quanto l’abbandono del posto di lavoro, oggetto della prima, integrava fattispecie diversa rispetto alla riduzione dell’orario di lavoro, oggetto del secondo, e le due ipotesi andavano riferite a due distinte disposizioni contrattuali, rispettivamente, la prima all’art. 49, e la seconda all’art. 48 del CCNL, con la previsione di differenti sanzioni.
Erroneamente, la Corte d’Appello avrebbe ritenuto priva di rilievo la discordanza dedotta, affermando che il licenziamento veniva irrogato per fatti ricompresi nella contestazione, senza, peraltro, fare applicazione del principio di proporzionalità in ragione della minore gravita del fatto per cui veniva intimato il recesso, riconducibile all’art. 48 del CCNL di settore. Non risultava, altresì, che esso ricorrente avesse abbandonato il posto di lavoro, ma solo che, completato in minor tempo la pulizia da fare, lo continuava altrove, non percependo peraltro, straordinario.
Infine, deduce il ricorrente che la Corte d’Appello non poteva giustificare il provvedimento impugnato, invocando l’art. 2119 c.c., in quanto veniva in rilievo l’art. 49, lettera B, del CCNL. 1.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Sull’immutabilità della contestazione disciplinare la giurisprudenza di questa Corte è più volte intervenuta affermando, tra l’altro, i seguenti principi.
L’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 assicura al lavoratore incolpato (Cass. n. 6499 del 2011).
L’operatività del principio d’immutabilità della contestazione dell’addebito al lavoratore licenziato non preclude le modificazioni dei fatti contestati che non si configurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata ma che, riguardando circostanze prive di valore identificativo della stessa fattispecie, non precludano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della contestazione dell’addebito (Cass., n. 21912 del 2010).
Nell’esercizio del potere disciplinare la contestazione dell’addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata l’immutabilità degli stessi fatti, anche ai fini del pieno svolgimento del contraddittorio (Cass., n. 13998 del 2005).
La Corte d’Appello di Napoli, con congrua motivazione ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.
Il giudice di secondo grado, infatti, ha affermato, che l’aver ricompreso nel provvedimento espulsivo solo alcuni fatti e non tutti quelli contenuti nella lettera di contestazione non costituisce violazione del principio dell’immutabilità della contestazione, potendo ciò, invece, rilevare ai fini del giudizio di proporzionalità.
Nella specie, come affermato dalla Corte d’Appello, l’abbandono del posto di lavoro e l’effettuazione di orari di lavoro inferiori a quelli contrattuali possono considerarsi descrizioni terminologiche di un identico fatto e cioè, la non osservanza dell’intero orario di lavoro dovuto: circostanza peraltro non smentita, ma giustificata con l’aver terminato le attività da svolgere, come prospettato nell’odierno ricorso.
Come correttamente argomentato dal giudice di appello (cfr. Cass., n. 58 del 2009), nell’ambito della subordinazione, la prestazione tipica consiste nel tenere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative per l’orario contrattualmente stabilito e non già nell’eseguire un certo quantitativo di lavoro, sicchè le espressioni utilizzate nei due atti sono volte ad esprimere il medesimo concetto di non avere osservato l’orario di lavoro.
Quanto alla violazione di legge prospettata con riguardo all’art. 2119 c.c. e alle disposizioni del CCNL di settore, occorre rilevare che nella valutazione della giusta causa di licenziamento il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso, il giudice può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass., n. 4060 del 2011).
La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (Cass., n. 6498 del 2012).
Correttamente, e con logica e adeguata motivazione, la Corte d’Appello, ha ritenuto che la condotta addebitata al M. integrasse grave nocumento morale e materiale all’azienda, sanzionato con il licenziamento senza preavviso, come previsto dal richiamato art. 49, lettera B, del CCNL, dal momento che si trattava di un comportamento ripetuto nel tempo, anche quale caposquadra, e non di una anticipata cessazione del lavoro ex art. 48, lettera B, del CCNL, con l’irrimediabile lesione dell’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, ancor più per chi svolge ruoli di coordinamento.
2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto vizio di motivazione e violazione di legge, in relazione alla valutazione delle risultanze istruttorie, tenuto conto che la sentenza era fondata sulla deposizione della G. che esponeva le proprie supposizioni.
Violazione: art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il ricorrente censura la valutazione delle dichiarazioni rese dalla G., il mancato rilievo attribuito alla testimonianza del capoarea R.P., di Mo.Ma., di M. F. e P.M., la rilevanza attribuita alla testimonianza di D.A..
2.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Come questa Corte ha più volte affermato (ex multis, Cass., n. 6288 del 2011), il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
La valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., n. 21412 del 2006, n. 4391 del 2007).
Nella specie, tali principi connotano come corretta e congrua la decisione della Corte d’Appello le cui argomentazioni non sono incise dalla genericità della censura che propone una lettura alternativa, rispetto a quella del giudice di merito, delle risultanze istruttorie. Ciò, in particolare, ove si consideri, come affermato dalla Corte d’Appello, l’irrilevanza delle risultanze istruttorie sul lavoro straordinario non essendo tale profilo presente nel provvedimento espulsivo; che la testimonianza di R.P. era ritenuta secondaria in quanto lo stesso recatosi in qualità di capoarea presso la sede di Palazzo XXX non precisava l’orario in cui ciò era avvenuto al fine di verificare se l’orario di lavoro del M. nella parte finale era rispettato; che la testimonianza della Mo., una dei 23 dipendenti sottoposti a procedimento disciplinare, appariva in contrasto con il non avere avuto alcuna reazione a seguito del provvedimento disciplinare di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
3. Con il motivo del ricorso incidentale condizionato, è prospettata violazione dell’art. 291 c.p.c. e art. 435 c.p.c., commi 2 e 3, in combinato disposto con art. 111 Cost., comma 2.
La società deduce improcedibilità dell’appello per non essere stato notificato il ricorso nei termini di legge.
3.1. Al rigetto dei motivi del ricorso principale segue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.
4. Il ricorso principale deve essere rigettato. Assorbito l’incidentale.
5. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale. Assorbito il ricorso incidentale condizionato. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro quaranta per esborsi, euro tremila per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 18 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2012

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