Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-02-2013) 01-03-2013, n. 9853

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione
M.G. e M.F. ricorrono avverso la sentenza 12.4.12 della Corte di appello di Reggio Calabria che ha confermato quella in data 24.1.05 del Tribunale di XXXcon la quale sono stati condannati ciascuno, concesse ad entrambi attenuanti generiche equivalenti alla aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, alla pena di anni tre di reclusione, oltre le pene accessorie di legge, per il reato di bancarotta fraudolenta.
Deducono i ricorrenti, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per avere il curatore ricostruito i dati a sua disposizione in malam partem e quindi illogicamente, riverberando detta ricostruzione i suoi effetti anche in ordine alla motivazione posta a base della condanna di primo grado e della successiva conferma, il primo elemento di illogicità essendo rappresentato dall’inusualità di restituzioni di prelievi personali operati nel 1987 da M. F. il quale, ove avesse avuto in animo di fallire, non avrebbe tenuto tale comportamento, ottenendo inoltre fidi bancari, nel 1987, per complessivi L. 80 milioni senza fornire garanzie immobiliari, a riprova della solvibilità prossima e futura della società. La sentenza di secondo grado, invece – lamenta la difesa degli imputati – si era soffermata sulla causale di una delle "pezze giustificative" dei componenti negativi della contabilità per avvalorare la tesi in malam partem, con riferimento alla voce "opere murarie e ristrutturazione", ritenuta anomala per essere l’attività della società fallita di tutt’altro genere che quella di un’impresa di costruzioni, senza considerare che si trattava di una mera presunzione in ordine alla quale la difesa aveva fornito la sua versione dei fatti chiedendo di verificarne la rispondenza ed indicando un teste ad hoc, ma i giudici di appello avevano taciuto sul punto.
Si lamenta inoltre, con riferimento a M.F., la mancata esclusione della recidiva per aver il predetto riportato una lontana condanna per reato depenalizzato, nonchè la mancata esclusione dell’aggravante di cui alla L. Fall., art. 219, in ragione del ridimensionamento da operare circa il passivo fallimentare, avendo gli imputati pacificamente prestato la propria attività lavorativa nella societa", con il conseguente diritto "di prelevare un minimo vitale".
Osserva la Corte che il ricorso, nella sua sostanziale aspecificità, si presenta come reiterativo delle doglianze avanzate con l’atto di appello e puntualmente disattese, con motivazione congrua ed immune da profili di illogicità, dalla Corte calabrese.
I giudici territoriali hanno infatti compiutamente evidenziato come i due odierni ricorrenti, entrambi con poteri anche disgiunti di amministrazione ordinaria e straordinaria della XXX s.r.l., società dichiarata fallita il (OMISSIS), mai abbiano fornito spiegazione alcuna in merito ai considerevoli ammanchi di denaro e alle esposizioni in bilancio di passività inesistenti, secondo quanto emerso dalla relazione del curatore fallimentare e dagli atti di indagine espletati sui quali aveva riferito il teste C..
La prova dell’attività distrattiva e della esposizione di passività relative ad operazioni commerciali inesistenti, realizzate con il preciso intento di sottrarre patrimonio attivo alle legittime aspettative dei creditori, è stata dai giudici correttamente rinvenuta nell’essere stata la gestione societaria caratterizzata da operazioni fittizie, dalla assenza di conferimento di capitali e dalla destinazione a prestiti personali ai soci (tra i quali i due odierni ricorrenti, che solo parzialmente avevano provveduto alla restituzione) delle somme ottenute tramite accensione di fidi bancari in luogo della loro naturale destinazione alla creazione della nuova società e alla realizzazione dell’oggetto sociale.
Incontestate – hanno evidenziato i giudici di appello – erano rimaste le circostanze relative alla identità di uno degli amministratori della XXX con quello della soc. Computers, nella persona di M.G.; l’identità delle sedi di dette società e la emissione di due fatture, da parte della Computers in favore della XXX (in data 30 e 31.12.88, allorchè cioè la Computers aveva già cessato la propria attività) per L. 123.824.000, oltre IVA, e L. 80.000.000, oltre IVA, relative ad operazioni risultate fittizie, oltre al mancato rinvenimento, in sede di apposizione dei sigilli, di alcuno dei beni fatturati, oggetto della fattura n. 145 del 31.12.88 essendo inoltre risultato "opere murarie e ristrutturazione" pur non essendo la Computers s.n.c. un’impresa di costruzioni, per cui – hanno del tutto correttamente concluso anche i giudici di appello, rimarcando l’assoluta infondatezza della richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale – era risultata palese l’illecita condotta tenuta dai due imputati, anche alla luce della significativa circostanza, accertata in sede di indagini, che sulle bolle di accompagnamento il luogo di destinazione della merce apparentemente venduta alla XXX era lo stesso del mittente, segno che la merce – hanno concluso perspicuamente i giudici di secondo grado – non si era in realtà mai mossa dalla sua originaria sede, a dimostrazione che si era trattato di un mero movimento cartolare e contabile, risultando inoltre l’importo pagato per contanti e corrispondente in maniera pressochè identica al totale dei debiti verificati alla data della dichiarazione di fallimento della XXX. Quanto alle doglianze circa la mancata esclusione di recidiva ed aggravante, le stesse non hanno formato oggetto di specifica censura in appello, per cui trovano in questa sede la preclusione di cui all’ultima parte del dell’art. 606 c.p.p., comma 3.
Alla inammissibilità dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che reputasi equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2013

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