Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-02-2013) 18-02-2013, n. 7912

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Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 1 dicembre 2011 la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Caserta, il 27 maggio 2010, con la quale H.E., cittadino albanese, è stato condannato, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, con la contestata recidiva reiterata e specifica infranquinquennale e con la sola riduzione per il rito, per il delitto previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 13, con successive modifiche.
L’ H. è stato dichiarato responsabile del suddetto reato, perchè, materialmente espulso, con accompagnamento alla frontiera di Bari a seguito di decreto di espulsione emesso dal Prefetto della Provincia di Caserta il 24 luglio 2009 e del provvedimento del Questore a lui notificato nella stessa data, aveva fatto rientro nel territorio dello Stato senza l’autorizzazione del Ministro dell’Interno.
L’ H. fu sorpreso, il (OMISSIS), da agenti della Questura di Napoli mentre, scalzo, si dava alla fuga dall’abitazione di una cittadina rumena, A.R.N., all’interno della quale era stata segnalata la presenza di armi che non furono rinvenute.
Immediatamente bloccato e identificato dagli agenti, l’ H. recuperò le sue scarpe, rimaste nell’abitazione, e indicò ai verbalizzanti le chiavi della cassaforte presente nell’appartamento, le quali erano riposte in un cassetto dell’armadio tra la sua biancheria.
Nella cassaforte fu rinvenuta la somma di Euro 15.000 di cui il prevenuto si dichiarò proprietario, senza fornire alcuna indicazione circa la sua provenienza.
Davanti al Tribunale l’ H. giustificò la rilevante somma di denaro posseduta attribuendola ai guadagni propri e di alcuni congiunti, destinata all’acquisto di un’autovettura di grossa cilindrata da rivendere in (OMISSIS) ad un prezzo superiore a quello di acquisto; aggiunse di essere rientrato in Italia per le maggiori opportunità di lavoro esistenti nel nostro paese; precisò, su richiesta del difensore, di aver contratto matrimonio in (OMISSIS), il (OMISSIS), con una cittadina italiana, Ar.
M., residente in (OMISSIS), come da certificato di matrimonio registrato presso l’ufficio di stato civile di (OMISSIS) su richiesta della stessa Ar..
La Corte di appello ha respinto le conformi richieste del pubblico ministero e della difesa di assoluzione dell’imputato perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, sulla base della direttiva dell’Unione Europea (U.E.) 2008/115/CE del 16/12/2008 in tema di rimpatri e della sentenza della Corte di giustizia della U.E. in data 28 aprile 2011 (XXXi), sopravvenuta nelle more del giudizio di appello.
La Corte territoriale ha rilevato che l’ H., già condannato alla pena di mesi quattro di reclusione con applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato, per il reato previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 13, cit., commesso in Tarvisio il 2 marzo 2006, era stato colpito da ulteriore provvedimento di espulsione del prefetto di Caserta, in data 9 giugno 2006, e coattivamente accompagnato alla frontiera marittima di Bari, dove era stato imbarcato per l'(OMISSIS); successivamente, il (OMISSIS), era stato sorpreso presso gli uffici dello stato civile di (OMISSIS) in procinto di contrarre matrimonio con la cittadina italiana, Ar.Ma.; era stato, quindi, nuovamente arrestato per rientro illegale e, all’esito del giudizio di condanna, rimesso in libertà con contestuale nulla osta all’espulsione, disposta ed eseguita il 24 luglio 2009 con accompagnamento alla frontiera marittima di Bari ed imbarco per l’Albania, in esecuzione del coevo decreto del Prefetto della provincia di Caserta e del relativo ordine del locale Questore.
Tanto premesso in fatto, la Corte di appello ha osservato che l’ultimo decreto di espulsione del 24 luglio 2009 con contestuale imposizione del divieto di ingresso per un periodo di dieci anni, costituente il presupposto del reato contestato, non era nè sostanzialmente nè proceduralmente incompatibile con i principi fissati dalla direttiva rimpatri, la quale espressamente prevede la possibilità per gli Stati membri di astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria, procedendo direttamente all’allontanamento coattivo nei casi di cui all’art. 7, paragrafo 4, e art. 8, paragrafo 1; e, nel caso in esame, il provvedimento del 24 luglio 2009 aveva esaurientemente rappresentato il rischio di fuga e la pericolosità dell’ H., più volte inosservante dei precedenti divieti di ingresso.
Non poteva, inoltre, omologarsi la condotta meramente omissiva di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, di violazione dell’ordine di rimpatrio, sanzionata con pena detentiva nella precedente formulazione della norma e, perciò, ritenuta incompatibile con le disposizioni di cui agli artt. 15 e 16 della direttiva rimpatri dalla sentenza della Corte di giustizia U.E. del 28/4/2011, con la positiva condotta trasgressiva del cittadino straniero, già espulso, il quale rientri in Italia senza la speciale autorizzazione prevista dall’art. 13, comma 13, dello stesso D.Lgs., e, in ogni caso, dovendo ritenersi legittimo il presupposto provvedimento amministrativo di espulsione con immediato accompagnamento coattivo alla frontiera, trattandosi di misura coercitiva proporzionata e non eccedente l’uso ragionevole della forza, tenuto conto della resistenza più volte manifestata dall’ H. a rispettare le decisioni di rimpatrio.
L’unica incompatibilità rilevabile era pertinente alla durata del divieto d’ingresso, fissata in dieci anni mentre la direttiva prevede che essa, tranne casi particolari, non possa eccedere i cinque anni, ma tale discrasia era irrilevante nel caso concreto, avendo l’ H. fatto rientro in Italia meno di un anno dopo il più recente provvedimento di espulsione.
Male invocate erano, inoltre, le disposizioni sul ricongiungimento familiare, posto che l’imputato non era stato autorizzato a tale ricongiungimento ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, di cui neppure sussistevano i presupposti, nè vi era la prova che l’ H. avesse richiesto ed ottenuto il visto di ingresso per motivi familiari, senza tacere che lo stesso non risultava convivente con la moglie e, anzi, aveva dichiarato di abitare col fratello in (OMISSIS), Comune diverso da quello di (OMISSIS) dove risiedeva Ar.Ma..
La Corte ha, infine, ritenuto infondate le censure relative al trattamento sanzionatorio, considerate la gravità del reato e la capacità a delinquere dimostrata dall’imputato, rilevando che l’aumento per la recidiva era stato determinato in misura inferiore a quella imposta dal tipo di recidiva contestata e l’entità della pena base era prossima al minimo edittale; le circostanze attenuanti generiche, infine, non erano giustificate dai precedenti penali dell’imputato e dalla sua pregressa condotta caratterizzata da una costante e pervicace riluttanza all’osservanza di obblighi e prescrizioni.
2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso a questa Corte l’imputato personalmente, il quale, deduce sette motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 6, 7, 14, 15 e ss. della direttiva 2008/115/CE, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, commi 13 e 13 bis, e art. 14, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste, previa disapplicazione dell’atto amministrativo complesso (decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia per dieci anni), costituente il presupposto della violazione contestata.
2.2. Con il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 6, 7, 14, 15 e ss. della direttiva 2008/115/CE, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, commi 13 e 13 bis, e art. 14, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato, per carenza di dolo ed errore scusabile sulla conoscibilità della norma penale, in ragione dell’illegittimità dell’atto amministrativo presupposto.
2.3. Con il terzo motivo deduce violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, commi 13 e 13 bis, artt. 14 e 19, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato, essendo rientrato in Italia per un giustificato motivo costituito dal ricongiungimento con la moglie, cittadina italiana.
2.4. Con il quarto motivo denuncia l’inosservanza od erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p., e il vizio della motivazione nonchè il travisamento della prova con riguardo al negato riconoscimento delle attenuanti generiche.
2.5. Con il quinto motivo lamenta l’inosservanza od erronea applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., il vizio della motivazione e il travisamento della prova con riguardo ai criteri di commisurazione della pena.
2.6. Con il sesto motivo deduce i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 99 c.p., comma 4, in tema di recidiva, essendo raggiunto da sole due condanne: la prima per reato sanzionato con pena pecuniaria e la seconda per ricettazione di un’autovettura di scarsissima rilevanza economica.
2.7. Con il settimo motivo denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in tema di omesso riconoscimento dell’attenuante dei motivi di particolare valore sociale o morale, mancata concessione delle attenuanti generiche da bilanciare con le aggravanti, eccessiva entità della pena inflitta.
Motivi della decisione
1. Il ricorso non merita accoglimento.
1.1. Il primo motivo è infondato.
Come già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, la condotta di reingresso, senza autorizzazione, nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale pur dopo l’emissione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso XXXi, perchè i principi affermati con riguardo alle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo ai fini della valutazione della condotta di reingresso in assenza di autorizzazione (Sez. 1, n. 35871 del 25/05/2012, dep. 19/09/2012, XXX, Rv. 253353).
Non sussiste, pertanto, alcuna illegittimità dell’atto amministrativo complesso, contenente decisione di rimpatrio e divieto di ingresso, emesso dal Prefetto di Caserta il 24 luglio 2009, ad eccezione della durata del divieto, fissata nel provvedimento in anni dieci mentre la citata direttiva (v. l’art. 11, par. 2) prevede, tranne casi particolari non esplicitati nella fattispecie, che essa non possa superare i cinque anni. Tale difformità, peraltro, non assume rilevanza scriminante nel caso in esame, essendo stato l’ H. sorpreso in Italia, in violazione del divieto intimatogli, il 26 maggio 2010, meno di un anno dopo la sua espulsione eseguita il 24 luglio 2009.
1.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Il delitto previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 13, (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), con successive modifiche, postula il dolo generico ovvero la consapevole volontà di entrare in territorio italiano senza la speciale autorizzazione imposta al cittadino straniero da esso già espulso, e la sentenza impugnata, con motivazione puntuale e coerente, ha ravvisato tale elemento psicologico nella condotta dell’imputato, già inottemperante ai divieti di ingresso precedentemente intimatigli negli anni 2006 e 2009.
La legittimità dell’ultimo provvedimento di espulsione, in data 24 luglio 2009, esclude poi l’errore scusabile sulla regolarità del proprio rientro in Italia determinato dalla presunta illegittimità dell’atto amministrativo di espulsione contenente anche il divieto di ingresso, secondo l’ulteriore censura manifestamente infondata del ricorrente.
1.3. Il terzo motivo è infondato.
Il matrimonio con una cittadina italiana, contratto dall’ H. in Albania il 7 settembre 2009, dopo la terza espulsione dal territorio nazionale, non giustifica il suo rientro in Italia senza alcuna autorizzazione nell’anno successivo, essendo necessario l’ulteriore presupposto della convivenza con il coniuge, come si ricava dal sistema e dall’esigenza di evitare matrimoni solo formali, strumentali ad ottenere il permesso di soggiorno v. il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, lett. c), e art. 30, comma 1 bis, e il D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394, art. 28, lett. b), contenente il regolamento di attuazione del T.U. approvato col suddetto D.Lgs..
Nel caso in esame la Corte ha puntualmente indicato che le emergenze istruttorie escludevano il detto rapporto di convivenza e, in ogni caso, come si è detto, esso non avrebbe giustificato, da solo, il rientro clandestino in Italia senza la prescritta autorizzazione.
1.4. Il quarto, quinto, e settimo motivo, tutti pertinenti alla determinazione della pena, sono inammissibili perchè postulanti rivalutazioni di merito non consentite nel giudizio di legittimità e, comunque, manifestamente infondati: la sentenza impugnata, invero, ha dato ampia e coerente giustificazione della negazione delle circostanze attenuanti generiche in ragione della capacità a delinquere dimostrata dall’imputato (motivo n. 4); ha compiutamente illustrato i criteri di determinazione della pena commisurandola alla ritenuta gravità del fatto e alla capacità a delinquere dell’ H. (motivo n. 5); ha giustificato come adeguata l’entità della pena inflitta, sottolineandone l’applicazione in misura prossima al minimo edittale (motivo n. 7), e, pertanto, inequivocabilmente escludendo ogni spazio al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., comma 1, n. 1, che non risulta neppure oggetto di specifico motivo di appello.
2. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, a norma dell’art. 616 c.p.p., comma 1, al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2013

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