Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-08-2012, n. 14342

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 23.2.07 la Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia del Tribunale della stessa sede, previa declaratoria di nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato il 31.5.99, con durata 1.6.99 – 30.10.99, ai sensi dell’art. 8 CCNL del 1994, fra XXX S.p.A. e A.A., dichiarava l’esistenza fra le parti d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 1.6.99, con le relative conseguenze economiche a decorrere dall’epoca della messa in mora (1.12.2000) nei limiti del triennio decorrente dalla cessazione del rapporto. Statuiva la Corte territoriale che il contratto a termine era stato stipulato dopo la cessazione dell’efficacia temporale della fattispecie auto rizzato ria di cui al cit. art. 8.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre XXX S.p.A. affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso l’ A., che spiega altresì ricorso incidentale basato su un solo motivo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente ex art. 335 c.p.c. si riuniscono i ricorsi principale e incidentale, aventi ad oggetto la medesima sentenza.
1- Con il primo motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 8 CCNL 26.11.1994, degli accordi sindacali 25.9.1997, 16.1.98, 27.4.99, 2.7.98, 24.5.99 e 18.1.2001, in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg.: a riguardo si sostiene che l’impugnata sentenza è erronea per non avere considerato che il potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 può esser esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che tale legge non prevede alcun limite temporale al riguardo; prosegue la ricorrente con il dire che il giudice di appello non avrebbe considerato che gli accordi successivi a quello del 25.9.97 avevano valenza ricognitiva della condizione legittimante in fatto il contratto a termine (ossia la ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto), senza circoscrivere il ricorso a tale strumento solo al periodo temporale considerato, ossia fino al 30.4.1998.
Tale ultima doglianza viene fatta valere, con il secondo motivo, anche sotto forma di vizio di motivazione contraddittoria su un fatto controverso e decisivo.
Le due censure, da esaminarsi congiuntamente perchè connesse, sono infondate.
Questa S.C. ha già più volte statuito che la L. n. 56 del 1987, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 e dal D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis (convertito in L. n. 79 del 1983) – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali pertanto non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (cfr. S.U. 2.3.2006 n. 4588). Poichè in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25.9.1997, la giurisprudenza considera corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in data 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.12.1997 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino la 30.04.1998), delle situazioni di fatto legittimanti le esigenze eccezionali menzionate dal detto contratto integrativo. Ne consegue che, avendo le parti collettive raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avendo successivamente stipulato accordi attuativi con fissazione di un limite cronologico alla possibilità di procedere ad assunzioni a tempo determinato, fissato inizialmente al 30.1.98 e poi al 30.4.98, l’indicazione di tale causale legittima l’assunzione a termine solo ove il contratto sia stato stipulato in data non successiva al 30.4.98 (cfr., e plurimis, Cass. 7.9.2007 n. 18838; Cass. 25.10.07 n. 22352). La giurisprudenza di questa S.C. ha anche ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18.1.2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, quando il diritto si era ormai perfezionato. I contratti aventi scadenza (o comunque stipulati) al di fuori del limite temporale del 30.4.98 sono illegittimi perchè non rientrano nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 e dalle successive disposizioni collettive che consentono la deroga alla L. n. 230 del 1962.
3- Con il terzo e ultimo motivo del ricorso principale ci si duole di violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c. perchè la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine all’effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore. La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c. e segg..
Tale quesito riguarda soltanto l’argomento della mora accipiendi e risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v., fra le altre, Cass. 4.1.2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidala di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (cfr., ad es., Cass. S.U. 5.1.07 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30.10.2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7.4.2009 n. 8463).
Nè può ignorarsi che, nella specie, anche l’illustrazione del motivo risulta generica perchè non chiarisce per quale ragione non costituirebbe rituale offerta della prestazione lavorativa (come, invece, ritenuto dalla Corte territoriale) la lettera inviata da parte controricorrente.
4- Con l’unico motivo del ricorso incidentale l’ A. denuncia vizio di motivazione e violazione degli artt. 112, 114 e 432 c.p.c., nonchè degli artt. 1218, 1219 e 1227 c.c., nella parte in cui l’impugnata sentenza ha contenuto nei limiti del triennio decorrente dalla cessazione del rapporto le conseguenze economiche della sua conversione in uno a tempo indeterminato.
Osserva la Corte che la doglianza del ricorrente incidentale, ritualmente devolvendo a questa S.C. la questione inerente al quantum delle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, rende applicabile d’ufficio la L. n. 183 del 2010, art. 32 intervenuto nelle more di fissazione dell’udienza, che al comma 5 così dispone: "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 bis.".
Il successivo comma 7 stabilisce che "Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.".
Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n. 16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purchè pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che – riguardo alla L. n. 183 del 2010, art. 32 sulle conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso, purchè ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine medesimo.
Nel caso di specie, i motivi concernenti la decorrenza della mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuotono direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 1.3.04 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche d’ufficio al giudizio di legittimità.
Nel caso particolare dell’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7 anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza n. 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. n. 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza – anche se non la fondatezza – della prospettata questione di legittimità costituzionale.
In senso analogo cfr. altresì, da ultimo, Cass. 29.2.2012 n. 3056.
Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a qua (trattandosi di pronuncia di rigetto), restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza n. 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un’interpretazione costituzionalmente conforme.
Orbene, per quanto il tenore testuale del comma 5 del cit. art. 32 – riferendosi alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C..
E poichè una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità.
Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.
In proposito si muova dal rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.
In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.
In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell’art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.
indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. art. 437 c.p.c., comma 2 poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.
Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437 c.p.c. o come divieto di applicazione dell’art. 32, art. 5 ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l’inciso "ove necessario" e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano "or") della congiunzione che precede l’ultima proposizione del cit. art. 32, comma 7 ("ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.").
L’inciso "ove necessario" dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice dell’interprete.
Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, mentre in appello – proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno consentiti solo questi ultimi.
In conclusione, deve ribadirsi che il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. art. 32 è applicabile anche in sede di legittimità (cfr., per tutte, Cass. 2.3.12 n. 3305).
Tuttavia, nel caso di specie l’applicazione d’ufficio di tale norma, se da un Iato impedisce l’accoglimento del ricorso incidentale, dall’altro non può risolversi in una sostanziale reformatio in peius della gravata pronuncia ai danni della stessa parte impugnante (atteso che l’art. 32 cit. consente solo un massimo di 12 mensilità, vale a dire meno di quanto già riconosciuto dalla Corte territoriale): infatti, in forza del principio dispositivo che governa il processo civile, la decisione non può essere più sfavorevole all’impugnante e più favorevole alla controparte di quanto non sia stata la sentenza gravata (cfr. in tal senso Cass. 27.6.11 n. 14127).
5- In conclusione, entrambi i ricorsi sono da rigettarsi, il che consiglia la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
LA CORTE riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2012

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