Cass. civ. Sez. I, Sent., 09-08-2012, n. 14351

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Svolgimento del processo
La Curatela del Fallimento della XXX s.r.l., dichiarato dal Tribunale di Treviso con sentenza del 11 dicembre 1995, convenne in giudizio P.V., che aveva ricoperto la carica di amministratore unico della società dall’atto di costituzione – sottoscritto dalla convenuta e dall’altro socio XXX, titolare di quota largamente maggioritaria – nel settembre 1984 sino alla revoca conseguente alla delibera dell’azione di responsabilità nel giugno 1994. Le imputava, tra l’altro, di avere concesso in comodato gratuito, con atto sottoscritto il 4 marzo 1985 e registrato, all’altro socio (e suo compagno di vita) un compendio mobiliare – costituito in gran parte da pregiati oggetti di antiquariato – che la società aveva acquistato, con contratto scritto e registrato, dal medesimo R. due mesi dopo la costituzione, di non averne chiesta la restituzione alla scadenza del termine quinquennale al R., al quale anzi i beni stessi erano stati rivenduti con patto di riservato dominio al prezzo, mai riscosso, di lire 100 milioni, a fronte di un valore di circa un miliardo; con la conseguenza che, quando il Fallimento aveva fatto sequestrare i beni, solo una parte degli stessi – per un valore stimato di lire 234.570.000 – era stata recuperata.
La convenuta eccepì, al riguardo, che in realtà l’acquisto del compendio era stato escogitato al solo fine di sottrarre ai creditori personali del R. i beni, che infatti erano rimasti presso l’abitazione di (OMISSIS) del predetto, sì che nessun danno la società aveva in effetti subito in conseguenza dei negozi in questione. Il giudizio, interrotto per la chiusura del fallimento e riassunto dalla XXX s.r.l. in liquidazione, venne definito in primo grado con la condanna della P. al risarcimento dei danni, liquidati in somma pari alla differenza tra il valore dell’intero compendio e quello della parte recuperata e venduta dal Fallimento, oltre al mancato guadagno per il comodato gratuito durato di fatto circa dieci anni.
Il gravame proposto dalla P. – cui resistette la XXX s.r.l.
formulando appello incidentale sulla liquidazione dei danni – è stato, per quanto qui ancora rileva, accolto dalla Corte d’appello di Venezia, che in riforma della sentenza di primo grado ha rigettato la domanda di risarcimento in relazione alle suddette condotte gestorie.
La Corte ha ritenuto fondata l’eccezione di simulazione assoluta del contratto di acquisto dei beni mobili e dei successivi contratti di comodato e rivendita dei beni stessi al R., desumendo la mera apparenza di tali contratti da un complesso di elementi indiziar gravi, precisi e concordanti, il cui utilizzo a tal fine non ha ritenuto precluso dal disposto degli artt. 1417 e 2729 cod. civ. attesa la qualità di terzo rivestita dalla P., la quale aveva sottoscritto i contratti stessi nella esclusiva qualità di legale rappresentante della società. Ha quindi concluso la Corte che la inala gestio imputata alla convenuta per la perdita di alcuni dei beni acquistati (peraltro risalente ad epoca successiva alla cessazione dalla carica della convenuta appellante), e per la mancata utilizzazione dei beni stessi, è insussistente, non avendo la società mai realmente acquistato la proprietà di tali beni.
Avverso tale sentenza, depositata il 27 agosto 2008, la XXX s.r.l.
in liquidazione ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste la P. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la società ricorrente lamenta che, ritenendo (implicitamente) la P. legittimata ad eccepire la simulazione assoluta dei contratti di compravendita, comodato e rivendita di cui sopra, ed (esplicitamente) a provare senza limiti tale simulazione, la sentenza della Corte veneziana avrebbe violato e falsamente applicato l’art. 1415 c.c., comma 2 e l’art. 1417 cod. civ., perchè la predetta, pur essendo terzo, non è titolare di diritti propri che siano stati pregiudicati dalla simulazione, sì che non potrebbe ritenersi "meritevole" di tale legittimazione e facoltà di prova senza limiti.
1.1 Con il secondo motivo la società torna a dolersi del riconoscimento di tale facoltà in favore di chi sarebbe stata, sin dal principio, consapevole, partecipe ed artefice dell’asserito accordo simulatorio: deduce che in tal modo risulterebbe violato e falsamente applicato il coordinato disposto degli artt. 1417 e 2722 c.c. e art. 2729 c.c., comma 2, che sulla non partecipazione del terzo alla simulazione fonderebbero il presupposto dello speciale regime derogatorio previsto dalla prima norma.
2. I due motivi – la cui connessione ne consiglia l’esame congiunto – sono privi di fondamento. In primo luogo, la stessa società ricorrente non dubita che la signora P. sia da considerare terzo rispetto ai negozi da essa conclusi nella qualità di rappresentante (legale) della società stessa. E invero non è dubbio che gli effetti propri dei suddetti negozi (cfr. art. 1414 cod. civ.) riguardano esclusivamente i rispettivi patrimoni delle parti, cioè della società e del S., a prescindere dalla circostanza, rilevante ad altri fini (cfr. artt. 1389, 1390 e 1391 cod. civ.), che la volontà della prima sia stata espressa, anche in sede di accordo simulatorio, dalla odierna resistente in qualità di rappresentante.
In ciò del resto risiede una delle ragioni logico-giuridiche del riconoscimento in favore del terzo, nell’art. 1417 cod. civ., della facoltà di provare per testimoni (e quindi per presunzioni: art. 2729 cod. civ.) l’accordo simulatorio senza i limiti (artt. 2722, 2724 e 2725 cod. civ.) dettati dalla legge alle parti del negozio:
che quest’ultimo non opera nei confronti del terzo come regolamento negoziale, fonte di diritti e obblighi per le parti, bensì come mero fatto giuridico. In tal senso, alla attribuzione alla P. della qualità di terzo a norma dell’art. 1417, operata dalla sentenza impugnata in base alla circostanza che la predetta ha partecipato ai negozi in questione nella sola qualità di legale rappresentante di una delle parti, possono conferirsi una valenza ed un significato anche più ampi di quelli palesati nella motivazione:
il punto cioè è che i negozi in questione rilevano in questo giudizio di responsabilità solo come fatti giuridici, che influiscono sugli obblighi, della cui violazione qui si controverte, gravanti sul terzo P. quale amministratore della società. E, se è vero che legittimato ad eccepire la simulazione di un negozio può essere (non ogni terzo ma) solo il terzo la cui posizione giuridica subisca pregiudizio in conseguenza della vicenda simulatoria, tale legittimazione non può negarsi a colui che, convenuto in azione di responsabilità dalla società già da lui amministrata per inadempimento agli obblighi di conservazione del patrimonio sociale, alleghi la mera apparenza degli atti con i quali i beni, dei quali la controparte denunzi la dispersione, sono stati acquisiti al patrimonio sociale stesso per poi uscirne. Evidente appare invero il pregiudizio che il terzo subirebbe nella specie ove gli fosse preclusa la facoltà di eccepire, con la simulazione assoluta di quegli atti, l’insussistenza del presupposto dei danni dei quali è stato chiamato a rispondere, costituito dalla appartenenza effettiva al patrimonio sociale dei beni dei quali gli si contesta la perdita. D’altra parte, posto che, in tale prospettiva, i suddetti negozi non rilevano come fonti di obbligazioni dei quali si controverta nel giudizio bensì per l’appunto come semplici fatti giuridici rilevanti ai fini della domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’amministratore, l’ammissione di quest’ultimo senza limiti alla prova per testi e presunzioni della simulazione assoluta dei negozi stessi si mostra del tutto coerente con il sistema normativo regolante la prova dei contratti e con il disposto – con esso coerente – dell’art. 1417 cod. civ., come peraltro questa Corte ha già avuto modo di affermare chiaramente (cfr. Sez. 1 n. 4415/1979; Sez. 3 n. 2901/1969; Sez. 1 n. 2207/1966). Il rigetto delle doglianze esaminate ne deriva dunque di necessità.
3. Con il terzo motivo, la parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1414 c.c., comma 2 e la contraddittorietà della motivazione, per avere – sotto il primo profilo – ritenuto che la simulazione assoluta di atti sussista anche in difetto di controdichiarazione scritta (che la ricorrente ritiene invece necessaria) e, sotto il secondo profilo, per avere basato il suo convincimento in ordine alla mancanza di controdichiarazione su elementi presuntivi che invece farebbero presumere la natura reale e non simulata della compravendita dei beni tra la società ed il R..
Anche tali doglianze non meritano accoglimento. Innanzitutto, il disposto dell’art. 1414 c.c., comma 2 non è pertinente al caso in esame, giacchè regola la distinta ipotesi della c.d. simulazione relativa, in cui le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, laddove nella specie è stato eccepito che le parti non hanno voluto concludere realmente alcun contratto (c.d. simulazione assoluta). Nel caso di simulazione assoluta non può evidentemente trovare applicazione l’esigenza, posta dall’art. 1414, comma 2, che del diverso negozio voluto effettivamente dalle parti sussistano i requisiti di forma, oltre che di sostanza, unica circostanza da provare essendo invece l’inesistenza del contratto apparentemente concluso dalle parti, e la prova di tale circostanza – tanto più ove ad allegarla sia un terzo – non soggiace ai limiti previsti dal codice civile per la prova dei contratti.
Rettamente dunque la Corte veneziana si è data carico della mancanza di controdichiarazione scritta solo nell’esame critico dei vari elementi di prova indiretta risultanti complessivamente a sostegno della eccezione di simulazione, per concludere che tale mancanza nella specie non rivestiva valore significativo per escludere la simulazione, tenuto conto sia del complesso degli elementi considerati (dai quali emergeva inequivocamente come i contratti in questione costituissero un mero stratagemma del R. per sottrarre l’intero suo patrimonio mobiliare alla garanzia dei suoi creditori personali, mediante atti di data certa puntualmente registrati), sia della concreta situazione nella quale la vicenda è maturata, nella quale il totale controllo che il R. aveva sulla XXX s.r.l.
(direttamente, quale titolare del 90% del capitale sociale, o comunque per il tramite della sua compagna e fiduciaria P.) doveva fargli apparire, al momento della sottoscrizione della compravendita, del tutto remota l’esigenza di una controdichiarazione scritta. La critica che la società ricorrente muove a tale motivazione – che appare non priva di logica e di coerenza – si mostra in effetti diretta a sostenere una diversa interpretazione rispetto a quella scelta dal giudice di merito, e come tale è inammissibile, essendo estraneo al controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità il riesame nel merito delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.
4. Analoghe considerazioni si impongono infine in relazione al quarto motivo, con il quale la ricorrente si duole della motivazione espressa dalla Corte di merito in ordine al significato da attribuire al fatto della rivendita dei beni conclusa da ultimo tra la società – sempre rappresentata dalla P. – ed il S.. Fatto che la Corte, a differenza della odierna ricorrente, non ha ritenuto elemento fondamentale e decisivo, bensì solo un maldestro tentativo dei due soci di far riacquistare formalmente al S. – nel mutato contesto del passaggio del controllo della società in capo al creditore pignoratizio delle quote – la proprietà dei beni già fittiziamente ceduti alla società stessa. Anche qui, la ricorrente contrappone ad una motivazione – che appare congrua, pur se non necessariamente l’unica possibile – la sua tesi alternativa secondo la quale la necessità di compiere un atto di riacquisto attesterebbe l’inesistenza di qualsivoglia simulazione. Tesi sulla quale tuttavia non compete a questa Corte pronunciarsi, nell’ambito del controllo di legittimità ad essa attribuito.
5. Il rigetto del ricorso si impone dunque, con la conseguente condanna della soccombente al pagamento delle spese, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 7.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2012
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