Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-02-2013) 28-06-2013, n. 28294

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 3.8.2012 il tribunale del riesame di Napoli confermava l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere applicava nei confronti di C.V. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai reati di cui ai capi 1), 2) e 4) dell’imputazione provvisoria, corrispondenti a fattispecie di associazione per delinquere, falso e corruzione.

Avverso tale decisione, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso il C. lamentando 1) il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in ordine alla ritenuta sussistenza del reato associativo, di cui difettano i presupposti; la mancanza, la illogicità e la contraddittorietà della motivazione dell’impugnata ordinanza in relazione alla ritenuta partecipazione del C. all’associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. ed alle circostanze favorevoli esposte dalla difesa dell’indagato in sede di riesame; 2) la violazione e l’erronea applicazione della legge penale in ordine agli artt. 319, 321, 476 e 479, fattispecie di reato tutte insussistenti, perchè il dott. D. è un semplice dipendente del Centro Medico (OMISSIS), ente convenzionato con il servizio sanitario nazionale attraverso il suo titolare, dott. B.G.; 3) la violazione e l’erronea applicazione della legge penale, sotto un diverso profilo, stante l’impossibilità di configurare un concorso formale tra il reato di corruzione e quello di falso del pubblico ufficiale. Tanto premesso il ricorso è infondato e va rigettato.

Preliminarmente va rilevato che in tema di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali, il ricorso per Cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (cfr, Cass., sez. 5, 8/10/2008, n. 46124, rv. 241997).

Ed invero, in materia di provvedimenti de liberiate, la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato, in relazione alle esigenze cautelari e all’adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice che ha applicato la misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr. Cass., sez. 4, 3/2/2011, n. 14726, D.R.; Cass., sez. 4, 06/07/2007, n. 37878 C. e altro).

Ne consegue che Quando, come nel caso in esame, viene denunciato il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte di Cassazione spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravita del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, ma di una qualificata probabilità di colpevolezza, oltre che all’esigenza di completezza espositiva" (cfr. Cass., sez. 5, 20.10.2011, n. 44139, O.M.M.).

Orbene a tali criteri si è puntualmente conformato il tribunale del riesame, che, con motivazione approfondita ed immune da vizi logici, ha ricostruito il complesso iter investigativo, evidenziando come le indagini preliminari (incentrate sulle spontanee dichiarazioni di D. C.N.; sugli esiti delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, disposte dall’autorità giudiziaria, e delle riprese video effettuate dagli agenti operanti; sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia M.A. e sulle dichiarazioni auto ed etero accusatorie del dott. D.G.), hanno fatto emergere "l’esistenza di un consolidato sistema costituito da sanitari, procacciatori, attori, avvocati, cancellieri e perfino da alcuni giudici di pace compiacenti …, che operavano in combutta per garantirsi i proventi costituiti dalle somme sborsate dalle Compagnie di Assicurazioni a titolo di risarcimento dei danni asseritamente subiti da figuranti prezzolati nel corso di sinistri stradali mai verificati o, se verificati, nei quali, grazie a medici infedeli, venivano aggravati i postumi invalidanti", ciascuno consapevole di operare all’interno di un vasto meccanismo illecito (cfr. p. 2 dell’Impugnata ordinanza).

La sede principale (ma non esclusiva) in cui operavano i medici infedeli era il Centro Radiologico (OMISSIS), di cui era amministratore di fatto il coindagato B.G., dove il tecnico radiologo Co. ed il medico ecografista D. ricevevano i "clienti", indirizzati ed accompagnati presso la struttura sanitaria da una serie di procacciatori (tra i quali spiccavano, oltre al C., Di.Ca.An. e P. F.), interessati ai relativi guadagni, provvedendo a confezionare, ovviamente con la complicità dei "pazienti", falsi referti medici, attestanti lesioni inesistenti o di gravita maggiore di quella realmente patita da questi ultimi, da far valere, poi, nei confronti delle società assicuratrici, anche in giudizio, come mezzo di pressione per ottenere i relativi rimborsi.

In questo contesto si inserisce il C., che, sulla base degli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari (peraltro non contestati dal difensore dell’indagato), risulta, come correttamente affermato dal tribunale del riesame (cfr. p. 3 dell’impugnata ordinanza), avere rivestito "un ruolo estremamente attivo … come protagonista nell’istruire le pratiche, inventare incidenti, preparare documentazione falsa per accedere ai risarcimenti a carico delle compagnie assicuratrici convenute (spesso accompagnando le false vittime presso studi medici compiacenti per il confezionamento dei falsi referti"). Il C., in particolare, come ricostruito dai giudici di merito sulla base delle risultanze investigative, agendo spesso sotto i falsi nomi di " N. (OMISSIS)" o di " Di.Vi.", risultava tra i principali accompagnatori di numerosi "clienti" di cui si è detto presso il Centro Radiologico (OMISSIS), dove questi ultimi godevano di una corsia privilegiata, quanto ai tempi di attesa e di effettuazione degli esami diagnostici, conclusi i quali, erano sempre gli accompagnatori, nella medesima giornata, a prelevare gli esiti degli accertamenti radiologici.

Importante conferma dell’ipotesi accusatoria, veniva individuata dal tribunale del riesame nelle dichiarazioni accusatorie del dott. D., non contestate dalla difesa.

Il coindagato ha, infatti riferito che il C., da lui conosciuto come " Di.Vi.", si recava sempre presso il Centro Radiologico (OMISSIS) in compagnia di tale " N.", i quali, in un primo momento, temporalmente collocabile nel (OMISSIS), gli avevano versato saltuariamente somme di denaro affinchè effettuasse "delle ecografie di comodo" ovvero procedesse, in alcuni casi, "ad accentuare le lesioni", attestando talvolta "la sussistenza di lesioni" non riscontrate dallo stesso D., per poi proporgli un compenso stabile di cinquanta euro "per ogni persona che veniva ad eseguire queste ecografie", ove il medico avesse "aggravato la prognosi" o "attestato falsamente l’esistenza della lesione (cfr. p. 5 dell’impugnata ordinanza).

Dimostrati sono, infine, attraverso una serie di conversazioni telefoniche, anche i contatti tra il C. ed il Co., altro tassello fondamentale, in considerazione del ruolo di tecnico radiologo da quest’ultimo svolto all’interno del centro medico, del disegno criminoso disvelato dalle indagini (cfr. p. 6 dell’impugnata ordinanza), rispetto ai quali l’osservazione difensiva sulla erronea attribuzione dell’utenza telefonica al C., che si assume appartenere a tal G., non assume rilievo, in quanto, oltre ad essere una censura attinente al merito, non consentita in questa sede, non esclude, di per sè, la possibilità che, nell’occasione, la suddetta utenza sia stata utilizzata dal ricorrente.

Rispetto al quadro accusatorio così delineato, le doglianze difensive sub 1), che sostanzialmente propongono una lettura della condotta dei ricorrente in termini di reato continuato commesso da più persone in concorso tra loro (il C. ed il D.), non sembrano cogliere nel segno, in quanto appaiono sufficientemente delineati sia i profili dell’organizzazione a delinquere di cui si discute, sia il ruolo svolto all’interno del suddetto sodalizio dal C.. Al riguardo si osserva che il criterio distintivo tra il reato di associazione a delinquere e l’ipotesi di concorso di persone nel reato continuato va individuato nel grado di determinatezza del disegno criminoso rispetto al programma associativo: per aversi associazione a delinquere l’accordo deve essere diretto all’attuazione di un più ampio programma criminoso, destinato a durare nel tempo, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, dando così vita ad un vincolo associativo fonte di allarme sociale; perchè si possa parlare di reato continuato occorre, invece, che l’accordo intervenga in via occasionale ed accidentale, per la realizzazione di uno o più reati, e si esaurisca con la commissione degli stessi (cfr. Cass. sez. 5, 22/06/2012, n. 39378, M.M. e altro).

Orbene appare evidente che la natura dell’accordo stretto, quanto meno, tra il C., il D., il Co. ed il " N." non identificato, mantenutosi stabile nel tempo a partire, come si è detto, dal (OMISSIS), fosse finalizzato alla commissione, destinata a durare nel tempo di una serie indeterminata di delitti in materia di corruzione e di falso, che si sono consumati prevalentemente all’interno del Centro Radiologico (OMISSIS), venendo interrotti solo dall’intervento degli organi investigativi.

Non appare revocabile in dubbio, quindi, che, nel caso in esame, risultino integrati tutti gli elementi che l’interpretazione tradizionale seguita dalla giurisprudenza di legittimità individua come costitutivi dell’associazione per delinquere, consistenti nella formazione e nella permanenza di un vincolo associativo continuativo fra tre o più persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, con la predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale (la documentazione medica falsificata e da falsificare; il denaro necessario a corrompere i medici; la sede operativa del Centro Radiologico (OMISSIS)) e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del programma stesso (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 1, 22.2.1979, Pino). Il tribunale del riesame, pertanto, ha adempiuto al proprio onere motivazionale, attribuendo valore decisivo agli elementi sintomatici dell’esistenza del sodalizio e della partecipazione ad esso del C. innanzi indicati e, quindi, pur non confutandoli tutti espressamente, disattendendo implicitamente i rilievi difensivi di segno opposto, reiterati nei motivi di ricorso, che appaiono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

Siffatta tecnica motivazionale appare del tutto legittima, posto che, anche in sede di impugnazione dei provvedimenti cautelari che incidono sulla libertà personale, trova applicazione il principio secondo cui il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera del giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo (cfr. Cass., sez. 6, 4.5.2011, n. 20092, Schowick, rv. 250105; Cass., sez. 4, 13.5.2011, n. 26660, Caruso e altro, rv. 250900). Infondati sono anche i rilievi sub 2).

Infatti, come affermato dalla Suprema Corte nella sua espressione più autorevole, con decisione condivisa dal Collegio, il medico che, come il D., presta opera libero-professionale, in virtù di un rapporto di natura privatistica, per una casa di cura convenzionata con il servizio sanitario nazionale, quale il Centro Radiologico (OMISSIS), è pubblico ufficiale, in quanto partecipa delle pubbliche funzioni che l’unità sanitaria locale svolge per il tramite della struttura privata mediante la convenzione; egli, quindi, concorre a formare ed a manifestare la volontà della pubblica amministrazione in materia di pubblica assistenza sanitaria, esercitando poteri autoritativi in sua vece nonchè poteri certificativi (cfr. Cass., sez. un., 11/07/1992, Delogu e altro).

Infondato appare, infine, anche il motivo sub 3, in quanto i reati in materia di falso e di corruzione possono concorrere, attesa la diversità strutturale delle fattispecie e il differente bene giuridico tutelato dalle rispettive norme incriminatrici.

Proprio in applicazione di tale principio, la Corte di Cassazione, affrontando un caso per certi versi assimilabile a quello in esame, ha ritenuto configurabili i reati di cui agli artt. 81, 110, 319, 314 e 480 c.p., nella condotta del medico ospedaliere, che, operando intra moenia, quindi in regime privatistico, all’interno di una struttura ospedaliera, abbia proceduto a falsa attestazione, per fini di favore, di accertamenti sanitari in realtà mai effettuati, ricevendo il compenso corrispondente a quello previsto per le visite realmente svolte, consegnando i relativi certificati medici a un collega che li utilizzava per commettere reati di truffa in danno di compagnie assicuratrici (cfr. Cass., sez. 6, 20/05/1997, n. 2004, Ascari).

Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso presentato nell’interesse di C.V. va rigettato, con condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2013
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