Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-02-2013) 26-06-2013, n. 28069

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 25.7.2012 il tribunale del riesame di Napoli confermava l’ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari il tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in data 5.7.2012, applicava nei confronti di F.G. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai reati di cui ai capi 1), 21), 23), 29) e 31) dell’imputazione provvisoria, corrispondenti a fattispecie di reato in materia di associazione per delinquere, falso e corruzione.

Avverso tale decisione, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso il C., lamentando: 1) i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in ordine alla ritenuta sussistenza del reato associativo, in quanto gli elementi di fatto utilizzati dai giudici di merito per dedurne la configurabilità (gli esiti di tre intercettazioni telefoniche; il contenuto degli appunti sequestrati al F. e le dichiarazioni del collaboratore di Giustizia M.A.), appaiono inidonei ad integrare il requisito dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato per il delitto associativo; 2) ) i vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), in relazione sia agli artt. 481 e 479 c.p., sia all’art. 321 c.p., in quanto, da un lato, la supposta falsità dei sinistri non è stata dimostrata e nessuna delle pratiche di cui ai capi 21) e 29) è stata curata dal F., dall’altro i certificati medici che si assumono falsi sarebbero stati rilasciati da medici che non possono considerarsi pubblici ufficiali, perchè hanno agito al di fuori della veste di dipendenti ospedalieri, per cui nel caso in esame, si può parlare, a tutto voler concedere, di una violazione dell’art. 481 c.p., che non consente l’adozione di misure cautelari, e, per la medesima ragione (assenza della qualità di pubblico ufficiale o incaricati di pubblico servizio), non è configurabile nemmeno il reato di corruzione; 3) i vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 274 c.p.p., in quanto, nel ritenere sussistenti le esigenze cautelari, il tribunale del riesame, da un lato ha valorizzato, con riferimento all’esigenza di inquinamento probatorio, semplici congetture, dall’altro, in ordine all’esigenza di tutela della collettività, non ha tenuto conto degli elementi di segno contrario rappresentati dal tempo trascorso dai fatti e dalla sospensione dall’attività professionale dell’indagato da parte dell’ordine degli avvocati.

Tanto premesso il ricorso è parzialmente fondato e va accolto nei termini che seguono.

Preliminarmente va rilevato che in tema di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure cautelari personali, il ricorso per Cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (cfr. Cass., sez. 5, 8/10/2008, n. 46124, rv. 241997). Ed invero, in materia di provvedimenti de libertate, la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato, in relazione alle esigenze cautelari e all’adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice che ha applicato la misura e del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità è quindi circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr. Cass., sez. 4, 3/2/2011, n. 14726, D.R.; Cass., sez. 4, 06/07/2007, n. 37878 C. e altro).

Ne consegue che quando, come nel caso in esame, viene denunciato il vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte di Cassazione spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie, con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all’accertamento non della responsabilità, ma di una qualificata probabilità di colpevolezza, oltre che all’esigenza di completezza espositiva" (cfr. Cass., sez. 5, 20.10.2011, n. 44139, O.M.M.).

Orbene a tali criteri si è puntualmente conformato, nel condurre la sua analisi in ordine al reato associativo, il tribunale del riesame, che, con motivazione approfondita ed immune da vizi logici, ha ricostruito il complesso iter investigativo, evidenziando come le indagini preliminari (incentrate sulle spontanee dichiarazioni di D. C.N.; sugli esiti delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, disposte dall’autorità giudiziaria, e delle riprese video effettuate dagli agenti operanti; sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia M.A. e sulle dichiarazioni auto ed etero accusatorie del dott. D.G.), hanno fatto emergere l’esistenza di una associazione a delinquere finalizzata alla consumazione di truffe ai danni delle compagnie di assicurazione, i cui componenti (falsi infortunati, falsi testimoni, procacciatori, medici, radiologi, avvocati, consulenti), ciascuno consapevole di operare all’interno di un vasto meccanismo illecito, fornivano una specifico apporto, in ragione delle proprie specifiche competenze professionali e della rete di relazioni di cui disponeva, alla ideazione di falsi sinistri stradali, al reperimento di persone disponibili a simulare i sinistri ed a testimoniare in ordine alle modalità; alla formazione di false certificazioni mediche per corroborare le istanze di risarcimento dei danni; ad assistere le parti nell’ambito dei relativi giudizi di risarcimento dei danni (cfr. p. 11 dell’impugnata ordinanza).

La sede principale (ma non esclusiva) in cui operavano i medici infedeli era il (OMISSIS), di cui era amministratore di fatto il co-indagato B.G., dove il tecnico radiologo Co. ed il medico ecografista D. G. ricevevano i "clienti", indirizzati ed accompagnati presso la struttura sanitaria da una serie di procacciatori (tra i quali spiccavano Di.Ca.An., C.V. e P. F.), interessati ai relativi guadagni, provvedendo a confezionare, ovviamente con la complicità dei "pazienti", falsi referti medici, attestanti lesioni inesistenti o di gravità maggiore di quella realmente patita da questi ultimi, da far valere, poi, nei confronti delle società assicuratrici, anche in giudizio, come mezzo di pressione per ottenere rimborsi in realtà non dovuti o, comunque, non nella misura richiesta.

Importante conferma dell’ipotesi accusatoria, veniva correttamente individuata dal tribunale del riesame nelle dichiarazioni accusatorie del dott. D.G., peraltro non contestate dalla difesa che di esse non si occupa. Il co-indagato ha, infatti riferito che i procacciatori si recavano presso il (OMISSIS), versandogli, in un primo momento, temporalmente collocabile sino al settembre 2010, somme di denaro, saltuariamente, affinchè effettuasse "delle ecografie di comodo" ovvero procedesse, in alcuni casi, "ad accentuare le lesioni", attestando talvolta "la sussistenza di lesioni" non riscontrate dal D.G., per poi proporgli, in seguito, un compenso stabile di cinquanta/00 Euro "per ogni persona che veniva ad eseguire queste ecografie", ove il medico avesse "aggravato la prognosi" o "attestato falsamente l’esistenza della lesione, aggiungendo che i "pazienti", dopo avere concluso le operazioni di accettazione, venivano visitati "per mera forma" dal suddetto D.G., che, nella stessa occasione, redigeva il certificato ecografia) da consegnare all’accompagnatore per il suo illecito utilizzo in danno delle compagnie di assicurazione (cfr. p. 9 dell’impugnata ordinanza).

In questo contesto si inserisce il F., indicato dal collaboratore di giustizia M.A., come uno degli avvocati, che avevano collaborato con il suddetto M.A. ed il suo complice P.L., nel consumare truffe in danno di compagnie assicuratrici, secondo un collaudato schema operativo, descritto dal M.A. nei seguenti termini: "gli avvocati costruivano falsi sinistri una volta che egli ed il P.L. avevano loro consegnato i CID, che ricevevano da alcune persone conoscenti, che avevano bisogno di guadagnare, ed avevano anche indicato i nominativi di persone compiacenti disposte a svolgere il ruolo di testimoni falsi", chiedendo "talvolta l’avvocato il referto, mentre, talaltra, era lo stesso avvocato che forniva un referto di cui aveva la disponibilità" (cfr. p. 10 dell’impugnata ordinanza).

Le dichiarazioni accusatorie del M.A., che delineano una notevole "professionalità" maturata dal F. nell’architettare truffe in danno delle compagnie assicuratrici (il collaboratore, infatti, si riferisce a condotte risalenti ad anni addietro), mantenutasi integra nel corso del tempo e messa al servizio della compagine criminosa di cui si discute, trovano adeguato riscontro, come rilevato dal tribunale del riesame, corroborando in tal modi il grave quadro indiziario a suo carico, sia nelle affermazioni del D.G., il quale riferiva di avere appreso da D.D.D. (uno dei procacciatore di pazienti per falsi incidenti con cui egli operava, come emerge dalla conversazione tra i due intercettata il 13.1.2011), che poteva rivolgersi all’avvocato F. per ottenere un maggior numero di incarichi peritali, essendo il suddetto legale uno dei professionisti per cui "lavorava" il D.D.D., sia nel contenuto di una serie di conversazioni telefoniche tra il suddetto D.D.D. ed il F., interpretate dal tribunale del riesame, con motivazione logicamente coerente, come sintomatiche del tentativo dei due complici di avvicinare un medico (la dott.ssa T.) per coinvolgerla nei propri disegni criminosi (tentativo che lo stesso F. sconsiglia di praticare trattandosi di persona non facilmente avvicinabile) e della preoccupazione che le società assicuratrici iniziassero ad insospettirsi per la frequenza dei sinistri stradali in territori così limitati, scoprendone la falsità (cfr. p. 9-14 dell’impugnata ordinanza).

Rispetto al quadro accusatorio così delineato, le doglianze difensive sub 1), non sembrano cogliere nel segno, in quanto appaiono sufficientemente delineati sia i profili dell’organizzazione a delinquere di cui si discute, sia il ruolo svolto all’interno del suddetto sodalizio dal F.. Al riguardo si osserva che il criterio tipizzante del reato di associazione a delinquere va individuato nel grado di determinatezza del disegno criminoso rispetto al programma associativo: per aversi associazione a delinquere l’accordo deve essere diretto all’attuazione di un più ampio programma criminoso, destinato a durare nel tempo, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, dando così vita ad un vincolo associativo fonte di allarme sociale (cfr. Cass. sez. 5, 22/06/2012, n. 39378, M,M. e altro).

Orbene appare evidente che la natura dell’accordo stretto tra i soggetti innanzi indicati (ed, in particolare, quanto meno il D. D.D., il F., il D.G., il Co.

e gli altri medici, alcuni dei quali non compiutamente identificati, necessari per la redazione dei falsi referti), fosse finalizzato alla commissione, destinata a durare nel tempo di una serie indeterminata di delitti in materia di corruzione e di falso, che si sono consumati in diverse strutture sanitarie, venendo interrotti solo dall’intervento degli organi investigativi.

Non appare revocabile in dubbio, quindi, che, nel caso in esame, risultino integrati tutti gli elementi che l’interpretazione tradizionale seguita dalla giurisprudenza di legittimità individua come costitutivi dell’associazione per delinquere, consistenti nella formazione e nella permanenza di un vincolo associativo continuativo fra tre o più persone, allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, con la predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del programma delinquenziale (la documentazione medica falsificata e da falsificare; il denaro necessario a corrompere i medici; le sedi operative dove avvenivano le falsificazioni) e con la permanente consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del programma stesso (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 1, 22.2.1979, Pino).

Il tribunale del riesame, pertanto, ha adempiuto al proprio onere motivazionale, attribuendo valore decisivo agli elementi sintomatici dell’esistenza del sodalizio e della partecipazione ad esso del F. innanzi indicati, rispetto ai quali i rilievi difensivi appaiono generici e, soprattutto, sollecitano, in definitiva, una revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, non consentita, come si è detto, in sede di legittimità.

A diverse conclusioni si deve giungere in ordine ai reati-fine di cui ai capi 21), 23), 29) e 31), in relazione ai quali appaiono evidenti l’errore di diritto e l’omessa motivazione in cui è incorso il tribunale del riesame, che assorbono ogni altra questione di diritto sollevata dal ricorrente. Non può, infatti, affermarsi, come ha fatto il tribunale del riesame, che "ovviamente la partecipazione alla associazione sub 1) induce al coinvolgimento del professionista anche nella commissione dei reati satellite" (cfr. p. 15 dell’impugnata ordinanza), in quanto, come da tempo affermato in sede di legittimità da un orientamento condiviso dal Collegio, in tema di reati commessi da appartenenti ad associazioni criminose, la sola appartenenza all’associazione ed anche l’eventuale previsione del reato-fine sono di per sè inidonee a far ritenere responsabile come compartecipe il singolo associato, rimasto estraneo alla ideazione e dalla esecuzione del reato-fine, in mancanza di una prova sicura circa il suo volontario apporto causale alla commissione del fatto, sia pure sotto forma di istigazione o di agevolazione causalmente rilevanti rispetto alla realizzazione del reato-fine (cfr. Cass., sez. 1, 12/07/1985, Pecchia e altro).

Per altro verso il tribunale del riesame, ha omesso di indicare, in relazione ai singoli reati-fine contestati al F. in concorso con altri soggetti, in primis con B.G., medico specialista in ortopedia e traumatologia, in servizio presso l’ospedale (OMISSIS), secondo quali specifiche modalità si sarebbe svolto il volontario apporto causale dell’indagato alla consumazione delle relative fattispecie delittuose e tale lacuna motivazionale appare particolarmente rilevante, ove si tenga conto che, dalla sola lettura del capo 29) dell’imputazione, si ricava che dei diciassette casi di certificati che si assumono falsi, utilizzati nei sinistri nel detto capo elencati, solo uno risulta avere ad oggetto una pratica istruita dall’avv. F..

Tale conclusione non contraddice il rigetto del ricorso in relazione alla partecipazione del F. all’associazione di cui al capo 1) dell’imputazione provvisoria, in quanto, secondo un costante e prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità che il Collegio condivide, la prova della partecipazione all’associazione, stante l’autonomia del reato associativo rispetto ai reati "fine", può essere data con mezzi e modi diversi dalla prova in ordine alla commissione dei predetti (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 2, 16/03/2010, n. 24194, B. e altro, rv. 247660).

L’accoglimento del ricorso per le indicate ragioni, impone anche una nuova valutazione delle esigenze cautelari, posto che il tribunale del riesame, ha fondato la sua valutazione sulla sussistenza della esigenza di tutela della collettività, considerando l’intero ventaglio delle condotte contestate al F. e non soltanto quella riconducibile al paradigma normativo dell’art. 416 c.p..

Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso presentato nell’interesse di C.V. va parzialmente accolto, disponendosi l’annullamento dell’impugnata ordinanza limitatamente ai reati-fine, con rinvio per nuovo esame sul punto al tribunale del riesame di Napoli, che provvedere a colmare, ove possibile, le evidenziate lacune motivazionali adeguandosi ai principi di diritto innanzi affermati.

Il parziale accoglimento del ricorso comporta che il ricorrente non sia condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

annulla l’ordinanza impugnata in ordine ai reati fine contestati con rinvio per nuovo esame al tribunale di Napoli.

Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2013

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