Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 09-08-2012, n. 14326

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 22 gennaio 2008) respinge l’appello della GESTOR s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Alessandria del 5 settembre 2007, dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato, senza la rituale preventiva contestazione, dalla suddetta società ad M.A., con conseguente condanna della società stessa a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a corrispondergli l’importo delle retribuzioni dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, oltre agli accessori di legge.

La Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:

a) l’espresso richiamo alla natura disciplinare delle sanzioni adottate in precedenza e alla recidività delle stesse, contenuto nella lettera di intimazione del licenziamento del 20 marzo 2006, confermano la natura disciplinare del recesso datoriale;

b) peraltro, ai fini dell’efficacia del conseguente licenziamento, anche la mera recidiva deve essere oggetto di contestazione ai sensi dell’art. 7 St. lav.;

c) nella specie, invece, il licenziamento non è stato preceduto da alcuna rituale contestazione, tanto più che vale anche il principio dell’immediatezza della contestazione sicchè, essendo il licenziamento di marzo 2006 e riguardando la recidiva sanzioni applicate in un periodo compreso tra il 2002 e il 2004, se la reiterazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti era stata considerata tale da ledere l’elemento fiduciario del rapporto, ciò avrebbe dovuto essere contestato in epoca precedente, tanto più che nel dicembre 2005 la società aveva intimato al M. un licenziamento per giustificato motivo oggettivo (rimasto ineseguito, per esserne venute meno le ragioni economico-produttive giustificatrici), senza dare alcuna rilevanza a quegli stessi addebiti disciplinari, posti alla base del successivo licenziamento di cui si discute nel presente giudizio;

d) pertanto, da questo punto di vista, la società ha anche violato il principio di affidamento che regola il rapporto di lavoro;

e) d’altra parte, ai fini del risarcimento, non ha pregio il fatto – tardivamente dedotto dalla società, soltanto all’udienza successiva alla prima udienza di discussione fissata dal giudice nel giudizio di primo grado – secondo cui il lavoratore doveva considerarsi in periodo di preavviso a seguito della ricevuta comunicazione del suindicato licenziamento per giustificato motivo oggettivo;

f) infatti, tale comunicazione non poteva incidere sulla natura del rapporto, da considerare a tempo indeterminato, tanto più che il suddetto licenziamento se non fosse stata la stessa società a non darvi seguito, avrebbe potuto essere legittimamente contestato;

g) quanto all’aliunde perceptum, pur non dando luogo ad una eccezione in senso stretto, esso deve essere pur sempre oggetto di una allegazione precisa;

h) viceversa, la società GESTOR si è limitata a chiedere l’esibizione della dichiarazione dei redditi del lavoratore per l’anno 2006, senza dedurre nulla circa il supposto reperimento di altra attività lavorativa, neppure nell’atto di appello o nella discussione orale (come le sarebbe stato consentito, se della circostanza fosse venuta a conoscenza dopo la sentenza di primo grado).

2- Il ricorso della GESTOR s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, A. M..

Motivi della decisione

1 – Profili preliminari.

1.- Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancato rispetto dell’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile, nella specie, ratione temporis).

Va, infatti, ricordato che, in base al consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, l’art. 366-bis cod. proc. civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, ovvero del motivo previsto dal n, 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (vedi, per tutte: Cass. 25 febbraio 2009, n. 4556; Cass. SU 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 19 ottobre 2011, n. 21623).

Nella specie, il suddetto principio risulta essere stato rispettato e, in particolare, deve escludersi che i quesiti formulati a corredo dei motivi non siano conferenti rispetto alle questioni che rilevano per la decisione della controversia, quali emergono dall’esposizione dei motivi (Cass. SU 2 aprile 2008, n. 8466; Cass. SU 18 novembre 2008, n. 27347).

2 – Sintesi dei motivi di ricorso.

2.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 2119 cod. civ., nonchè degli artt. 131 e 146 c.c.n.l. del settore; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Si contesta, in primo luogo, la statuizione della Corte d’appello secondo cui la natura disciplinare del licenziamento in oggetto sarebbe desumibile chiaramente dallo stesso tenore letterale della relativa comunicazione.

Infatti, si sostiene che la società non abbia licenziato il dipendente per la recidiva – che avrebbe dovuto essere preventivamente contestata – ma perchè ha considerato le precedenti infrazioni disciplinari del lavoratore – tutte contestate e sanzionate con provvedimenti progressivamente più rigorosi – "come circostanze confermative della sistematicità e gravità delle infrazioni contestate, a prescindere dalla configurabilità della recidiva", e quindi come indici di un complessivo comportamento idoneo a far venire meno il vincolo fiduciario, secondo quanto esplicitato dal richiamo dell’art. 2119 cod. civ. e degli artt. 131 e 146 c.c.n.l. del settore Commercio.

Ad avviso della ricorrente, tali ultime due disposizioni prevedono, rispettivamente, la facoltà di recesso datoriale a causa della condotta non inadempiente del lavoratore, ma ugualmente lesiva del vincolo fiduciario nonchè l’obbligo per i dipendenti di osservare scrupolosamente i doveri d’ufficio.

Di esse la società ha fatto applicazione perchè ha intimato il licenziamento per giusta causa per aver constatato la irrimediabile lesione del rapporto di fiducia derivante dalla complessiva condotta scorretta pervicacemente tenuta dal lavoratore, ma senza volere sanzionare la condotta colposa o manchevole del M., avendo già provveduto a farlo con le sanzioni disciplinari adottate in precedenza.

Conseguentemente e diversamente da quanto affermato dalla Corte torinese – con motivazione illogica e priva di collegamenti puntuali alla fattispecie sub judice – nel caso di specie non si applicano le garanzie di cui all’art. 7 St. lav., visto che il licenziamento non è di carattere disciplinare.

Nè assume alcun rilievo, in contrario, il riferimento contenuto nella sentenza alla comunicazione del precedente licenziamento intimato nel 2005 per giustificato motivo oggettivo, ove non è stata attribuita alcuna rilevanza agli stessi precedenti disciplinari posti a base del successivo licenziamento, attualmente impugnato. Infatti, nulla vietava alla società, dopo la revoca del precedente licenziamento, di procedere ad un nuovo licenziamento, giustificato dalla condotta scorretta costantemente tenuta dal dipendente.

3.- Con il secondo motivo di ricorso si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 437, 416 e 112 cod. proc. civ..

Si precisa che l’eccezione di avvenuta cessazione del rapporto a partire dal 31 dicembre 2006 (data di scadenza del differimento del periodo di preavviso del primo licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato il 20 ottobre 2005) è stata prospettata dalla società nel corso del giudizio di primo grado e precisamente all’udienza successiva a quella di comparizione delle parti.

In quella circostanza è stato chiesto il libero interrogatorio del M. – o, in subordine, il relativo giuramento decisorio – per accertare sia lo stato di eventuale disoccupazione sia l’avvenuta ricezione della comunicazione sullo slittamento del periodo di preavviso del precedente licenziamento, non impugnato tempestivamente. Peraltro, tale richiesta è stata immotivatamente disattesa e il lavoratore non si è presentato, sicchè non è stato possibile accertare circostanze rilevanti per determinare la quantificazione del risarcimento da corrispondere ex art. 18 St.

lav., risarcimento che avrebbe dovuto essere limitato alle retribuzioni del periodo compreso tra la data del licenziamento (20 marzo 2006) e il giorno del termine del periodo di preavviso di cui si è detto (31 dicembre 2006).

4.- Con il terzo motivo di ricorso si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. e segg. e dell’art. 18 St. lav.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Quanto all’aliunde perceptum, la ricorrente precisa di avere formulato nella memoria difensiva di primo grado la richiesta di esibizione della dichiarazione dei redditi del lavoratore per l’anno 2006 e di eventuali accertamenti anche d’ufficio onde stabilire se il lavoratore avesse trovato una nuova occupazione, non essendo in grado di avere notizie al riguardo neppure nel corso del giudizio, avendo la società GESTOR la propria sede legale e amministrativa a (OMISSIS).

A fronte di questa situazione, la Corte torinese non ha esaminato la suddetta richiesta, ancorchè rituale, secondo la ricorrente.

3 – Esame delle censure.

5.- Il ricorso non merita accoglimento, per le ragioni di seguito esposte, salvo restando che deve essere preliminarmente affermata l’inammissibilità dei profili di censura, contenuti nel primo motivo, con i quali si denuncia la violazione e falsa applicazione di norme del c.c.n.l. per i lavoratori del settore Commercio, omettendo di trascriverne il testo nel ricorso e, quindi, in contrasto con l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che impone a pena di inammissibilità l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione del ricorso per cassazione, qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in indicando) per cui è proposto il ricorso stesso e che non consente di assolvere tale onere per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio (vedi, per tutte: Cass. 31 maggio 2011, n. 11984).

6.- Per quel che riguarda tutte le altre censure formulate nel primo motivo, va precisato che esse sembrano essere fondate sul presupposto che possa configurarsi un licenziamento per giusta causa che non sia di carattere disciplinare, sulla base dell’ulteriore premessa minore secondo cui un comportamento del lavoratore che sia reiteratamente scorretto e irrispettoso dell’obbligo di "osservare scrupolosamente i doveri d’ufficio" possa determinare la definitiva lesione del vincolo fiduciario – tanto da indurre il datore di lavoro a irrogare il licenziamento – senza essere inadempiente e, quindi, senza avere la sua fonte in una condotta del dipendente valutata negativamente dal punto di vista disciplinare.

Da tali premesse la società ricorrente desume che il presente licenziamento, essendo del suddetto tipo, sarebbe sottratto all’applicazione dell’art. 7 St. lav..

6.1.- Tale configurazione non corrisponde a quella che è adottata dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte – cui il Collegio intende dare continuità – da quando la Corte costituzionale, con la sentenza n. 204 del 1982, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del primo 1, secondo e terzo (sanzioni disciplinari) della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 che la giurisprudenza di legittimità (in particolare: Cass. SU 28 marzo 1981, n. 1781) aveva in precedenza prevalentemente interpretato nel senso della inapplicabilità ai licenziamenti disciplinari, se non espressamente richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro.

Dopo la suddetta sentenza costituzionale, infatti, si è affermato l’indirizzo secondo cui alla stregua dei principi in essa stabiliti, il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari previste dallo specifico regime del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare, e quindi deve ritenersi assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dall’art. 7 St. lav., commi 2 e 3 circa la contestazione dell’addebito ed il diritto di difesa, nonchè, per il caso in cui le parti si siano avvalse legittimamente della facoltà di prestabilire quali fatti e comportamenti integrino l’indicata condotta giustificativa del recesso, anche a quella posta dal primo comma del medesimo art. 7, circa l’onere della preventiva pubblicità di siffatte previsioni (vedi, per tutte: Cass. SU 1 giugno 1987, n. 4823; Cass. SU 16 dicembre 1987, n. 9302).

In altri termini, da quel momento in poi, è diventato jus receptum che qualunque tipo di licenziamento – i cui presupposti si caratterizzino non esclusivamente in ragione della loro riferibilità o meno ad un comportamento del lavoratore, quanto per l’incidenza (immediata o differita) che essi hanno di per sè sulla possibilità di prosecuzione del rapporto (sia quindi esso irrogato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo o situazioni simili) – è da considerare di tipo disciplinare e, come tale, assoggettato alle garanzie di cui all’art. 7 St. lav..

Si è, pertanto, pervenuti ad affermare la natura "ontologica" del licenziamento disciplinare, come riferito ai comportamenti imputabili a titolo di colpa (intesa in senso generico) al lavoratore e destinato a coprire sia l’area del licenziamento per giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento), sia la maggior parte di quella del licenziamento per giusta causa e non irrogabile senza le garanzie previste per le misure (disciplinari) non espulsive, consistenti in particolare nella contestazione preventiva dell’addebito e sull’audizione e difesa del lavoratore incolpato, divenute garanzie di generale applicazione per qualsiasi licenziamento (ontologicamente) disciplinare, anche alla luce delle successive sentenze della Corte costituzionale n. 427 del 1989 e 364 del 1991, che hanno ribadito il principio affermato nella menzionata sentenza n. 204 del 1982, estendendone ulteriormente la portata applicativa.

Nel frattempo si è anche affermato l’indirizzo secondo cui, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1982 cit., la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) assicurata al lavoratore dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1 si estende anche al caso di licenziamento disciplinare intimato – in violazione dell’art. 7 della cit. legge – senza il rispetto delle garanzie del contraddittorio e di difesa o prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa (vedi, per tutte: Cass. 7 maggio 1983, n. 3130; Cass. 12 luglio 1983, n. 4719; Cass. 19 giugno 1998, n. 6135; Cass. 21 giugno 2007, n. 14487).

6.2.- In questo quadro, a proposito delle caratteristiche della contestazione in oggetto, si e stabilito che essa debba soprattutto rispettare i principi della immutabilità e dell’immediatezza.

In ordine all’immutabilità, si è precisato che il criterio attraverso il quale è dato stabilire se le nuove deduzioni del datore di lavoro a sostegno delle sue determinazioni nell’esercizio del potere disciplinare siano precluse dall’operatività del principio di immutabilità della contestazione si snoda in un duplice profilo applicativo, l’uno di tipo ontologico, l’altro di tipo funzionale. Sotto il primo aspetto si deve considerare ravvisabile una modificazione sostanziale dell’originaria contestazione quando le circostanze nuove si configurano come elementi integrativi di una fattispecie astratta di illecito disciplinare prevista in una norma diversa rispetto alla quale sarebbero, invece, insufficienti i fatti originariamente contestati, sicchè ne deriva una sorta di "progressione" nell’illecito stesso, con necessario assorbimento della diversa e meno grave fattispecie cui tali fatti risultino autonomamente riconducibili. Il secondo – e correlato – aspetto implica che una deduzione tardiva è compatibile con le garanzie del diritto di difesa che il procedimento disciplinare mira ad assicurare al lavoratore incolpato (il cui fondamentale rilievo è stato più volte riconosciuto dalla Corte costituzionale vedi sentenze nn. 204 del 1982, 427 del 1989 e 364 del 1991), soltanto quando riguarda circostanze prive di valore identificativo della fattispecie; essa, invece, deve considerarsi preclusa quando si risolve in una immutazione del titolo dell’illecito (vedi per tutte: Cass. 16 luglio 1998, n. 6988; Cass. 10 luglio 2007, n. 17604).

In riferimento all’immediatezza, si è precisato che:

a) il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui ratio riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Peraltro, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonchè del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale. La relativa valutazione del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. 20 giugno 2006, n. 14115; Cass. 20 giugno 2006, n. 14113; Cass. 15 maggio 2006, n. 11100; Cass. 6 ottobre 2005, n. 19424; Cass. 19 agosto 2003, n. 12141; Cass. 4 marzo 2004, n. 4435; Cass. 23 aprile 2004, n. 7724; Cass. 8 giugno 2009, n. 13167);

b) in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione, che trova fondamento nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 3 e 4, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. Nè può ritenersi che l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l’interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest’ultimo, tutelata ex lege, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell’organizzazione aziendale (Cass. 8 giugno 2009, n. 13167);

c) in particolare, in tema di licenziamento per giusta causa, l’immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore;

peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichi o meno il ritardo (Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass. 22 ottobre 2007, n. 22066; Cass. 22 marzo 2010, n. 6845);

d) nel caso di irrogazione di licenziamento per giusta causa conseguente all’espletamento di procedimento disciplinare, ai fini della valutazione della tempestività della sanzione espulsiva, deve distinguersi tra la contestazione disciplinare, che deve avvenire a ridosso dell’infrazione o del momento in cui il datore ne abbia notizia, e l’irrogazione della sanzione disciplinare, che può avvenire anche a distanza di tempo, ma pur sempre nel rispetto del principio della buona fede, che è matrice fondativa dei doveri sanciti dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori e dall’art. 2106 c.c. in materia di esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (Cass. 9 maggio 2007, n. 10547).

6.3.- Per quel che riguarda la ed. recidiva ovvero il caso di licenziamento irrogato dopo l’applicazione di sanzioni disciplinari, in base consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) in tema di licenziamento disciplinare, la preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve riguardare, a pena di nullità del licenziamento stesso, anche la recidiva (o comunque i precedenti disciplinari che la integrano), ove questa rappresenti elemento costitutivo della mancanza addebitata (Cass. 25 novembre 2010, n. 23924; Cass. 23 dicembre 2002, n. 18294);

b) il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonchè dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati – ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati – ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati (Cass. 27 marzo 2009, n. 7523);

c) il principio dell’immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello Statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro (Cass. 19 gennaio 2011, n. 1145);

d) in materia disciplinare, soltanto la rilevanza autonoma, attribuita dalle fonti di regolazione del rapporto di lavoro alla recidiva, presuppone l’irrogazione di una sanzione disciplinare ed incontra il limite del biennio, mentre la valutazione della gravità dell’inadempimento (per giusta causa o, comunque, "notevole", ai sensi della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3) si estende a tutti i fatti contestati al dipendente con l’avvio della procedura di licenziamento disciplinare, anche concernenti comportamenti tenuti in precedenza e per i quali il datore di lavoro non abbia ritenuto, nella sua autonomia, di irrogare sanzioni disciplinari, salva l’operatività del limite costituito dal principio di tempestività e senza che tale determinazione datoriale possa ritenersi idonea ad arrecare pregiudizio al diritto del lavoratore alla difesa, atteso che l’incidenza disciplinare dei fatti contestati nel procedimento abbandonato deve essere autonomamente apprezzata nel giudizio sulla giustificatezza del licenziamento (Cass. 19 dicembre 2006, n. 27104).

6.4.- Dall’insieme dei su riportati principi risulta evidente che la sentenza impugnata è immune dalle censure che la ricorrente ha prospettato nel primo motivo.

Va, infatti, osservato che:

1) la qualificazione del licenziamento di cui si tratta come disciplinare non può essere messa in dubbio, trattandosi di un licenziamento per giusta causa irrogato per comportamenti asseritamente scorretti tenuti dal dipendente nell’ambito del rapporto d lavoro e quindi intesi (da parte della datrice di lavoro) come tali da minare definitivamente il rapporto fiduciario;

2) del resto, le residuali situazioni in cui la giusta causa di licenziamento – che è nozione legale dal contenuto elastico – non sia collegata, in base alla costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte, ad un grave inadempimento sono quelle in cui si è in presenza di un comportamento del lavoratore gravemente lesivo delle norme della comune etica o del comune vivere civile (vedi, per tutte:

Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass. 16 marzo 2004, n. 5372; Cass. 18 agosto 2004, n. 16280) ed è evidente che nella specie ciò non si verifica;

3) ne consegue che il licenziamento è assistito dalle garanzie di cui all’art. 7 St. lav. che rispondono principalmente alla necessità di tutelare il diritto di difesa del lavoratore e di obbligare il datore di lavoro ad un comportamento secondo buona fede;

4) nella specie, invece, il licenziamento non è stato preceduto da alcuna rituale contestazione, e, come sottolineato dalla Corte territoriale, la società ha anche violato il principio di affidamento che regola il rapporto di lavoro perchè non soltanto, con un licenziamento di marzo 2006, ha contestato, in violazione del principio dell’immediatezza della contestazione, la recidiva di sanzioni applicate in un periodo compreso tra il 2002 e il 2004, ma lo ha fatto dopo avere irrogato medio tempore, cioè nel dicembre 2005, un precedente licenziamento per giustificato motivo oggettivo (rimasto ineseguito, per esserne venute meno le ragioni economico- produttive giustificatrici), senza dare alcuna rilevanza a quegli stessi addebiti disciplinari, posti alla base del successivo licenziamento di cui si discute nel presente giudizio, come avrebbe potuto – e dovuto – fare se quei comportamenti erano considerati tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario.

6.5.- Anche il secondo motivo di ricorso non è da accogliere.

Va, infatti, osservato che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte: a norma dell’art. 2969 cod. civ., la decadenza prevista dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6 che impone al lavoratore l’onere dell’impugnativa del licenziamento entro il termine di sessanta giorni – non può essere rilevata d’ufficio, attenendo ad un diritto disponibile, ma necessita di un’eccezione (in senso stretto), che, nel rito del lavoro, deve essere proposta, dalla parte convenuta, nella memoria di costituzione (Cass. 23 settembre 2011, n. 19405;

Cass. 2 febbraio 1991, n. 1035; Cass. 6 novembre 1990, n. 10644).

Ne deriva che, allo stesso modo, deve essere qualificata l’eccezione in oggetto, visto che con essa è stata prospettata – dalla società nel corso del giudizio di primo grado e precisamente all’udienza successiva a quella di comparizione delle parti – l’avvenuta cessazione del rapporto a partire dal 31 dicembre 2006, essendo questa la data di scadenza del differimento del periodo di preavviso del primo licenziamento per giustificato motivo oggettivo comunicato il 20 ottobre 2005, di cui si è sostenuta l’efficacia – per limitare l’entità del risarcimento da corrispondere ex art. 18 St. lav. alle sole retribuzioni del periodo compreso tra la data del licenziamento (20 marzo 2006) e la suddetta data del termine del periodo di preavviso di cui si è detto (31 dicembre 2006) – sul rilievo che il primo licenziamento suindicato non era stato tempestivamente impugnato.

La Corte d’appello di Torino si è attenuta al suddetto principio, sicchè il secondo motivo è infondato.

6.6.- Anche il terzo motivo deve essere respinto. E’ jus receptum che:

a) in tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto della reintegrazione disposta dal giudice ai sensi dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, l’eccezione con la quale il datore di lavoro, al fine di vedere ridotto al limite legale delle cinque mensilità di retribuzione l’ammontare del suddetto risarcimento, deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non fa valere alcun diritto sostanziale di impugnazione, nè l’eccezione stessa è identificabile come oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trame d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. SU 3 febbraio 1998, n. 1099);

b) se vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trame d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato. Ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è necessario che risulti la prova, il cui onere grava sul datore di lavoro, non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito, essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (Cass. 26 ottobre 2010, n. 21919; Cass. 10 aprile 2012, n. 5676; Cass. 5 aprile 2004, n. 6668);

e) si deve ritenere che il cosiddetto aliunde perceptum non integri una eccezione in senso stretto e, pertanto, sia rilevabile dal giudice anche in assenza di un’eccezione di parte in tal senso, ovvero in presenza di un’eccezione intempestiva, semprechè la rioccupazione del lavoratore costituisca allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche se per iniziativa del lavoratore e non del datore di lavoro (Cass. 21 aprile 2009, n. 9464);

d) in tema di risarcimento del danno in favore del lavoratore illegittimamente licenziato sono deducibili dal danno, che si commisura alle retribuzioni non percepite, le somme costituenti aliunde perceptum da parte del lavoratore; a tal fine, può tenersi conto anche d’ufficio dei fatti che valgano a ridurre il risarcimento (quali ad esempio la rioccupazione del lavoratore), ma tale diversa qualificazione non incide sul divieto di nuove prove in appello e sull’onere di allegazione ai sensi dell’art. 416 cod. proc. civ., essendo invece necessario che quei fatti risultino ritualmente acquisiti al processo per essere stati tempestivamente allegati e dimostrati dalla parte che intenda avvalersene, salvo che la conoscenza di essi non sia stata raggiunta solo in un momento successivo, così solamente essendo ammissibile la loro prova in sede di gravame (Cass. 10 agosto 2007, n. 17606; Cass. 1 dicembre 2010, n. 24349);

e) in tema di conseguenze patrimoniali derivanti dal licenziamento illegittimo, il datore di lavoro, per poter essere ammesso a dedurre e a provare tardivamente circostanze idonee a dimostrare l’aliunde perceptum da parte del lavoratore, è tenuto a provare anche di non aver avuto conoscenza delle stesse e di avere, una volta acquisita tale cognizione, formulato le relative deduzioni nell’osservanza del principio, desumibile dagli artt. 414, 416 e 420 cod. proc. civ., della tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, attraverso il necessario impiego, a questo fine, sotto pena di decadenza, del primo atto difensivo utile successivo (Cass. 20 giugno 2006, n. 14131; Cass. 30 ottobre 1998, n. 9826; Cass. 16 settembre 2002, n. 13543; Cass. 15 marzo 2005, n. 5610; Cass. 20 giugno 2006, n. 14115).

Ne consegue che, anche sul punto riguardante l’aliunde perceptum, la sentenza impugnata è esente dalle censure formulate nel terzo motivo perchè, in applicazione dei suddetti principi, dopo aver precisato che la relativa richiesta non da luogo ad una eccezione in senso stretto, ha però escluso che vi fosse stata la precisa allegazione che ne rappresenta il presupposto.

La Corte territoriale ha infatti sottolineato che la società GESTOR – come risulta confermato anche dal ricorso – si è limitata a chiedere l’esibizione della dichiarazione dei redditi del lavoratore per l’anno 2006, senza dedurre nulla circa il supposto reperimento di altra attività lavorativa, neppure nell’atto di appello o nella discussione orale (come le sarebbe stato consentito, se della circostanza fosse venuta a conoscenza dopo la sentenza di primo grado).

Tanto basta per respingere anche l’ultimo motivo di ricorso.

4 – Conclusioni.

7.- Per le suesposte ragioni, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento del spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 8 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *