Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-08-2012, n. 14400

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con atto notificato il 15 aprile 2008 i sigg.ri M.S. ed A., unitamente alla sig.ra M.B.P., citarono in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la XXX – XXX s.p.a. (in prosieguo indicata solo come XXX) e la XXX s.p.a. (in prosieguo XXX), risultante della fusione della XXX Assicurazioni s.p.a. (in prosieguo XXX) con la XXX – XXX s.p.a. (in prosieguo XXX). Gli attori riferirono di come, nel giugno del 2001, la XXXs.p.a., controllata da XXX, si fosse accordata con la XXX per l’acquisto di un rilevante pacchetto di azioni della XXX, società quotata in borsa ed anch’essa controllata da XXX; di come si fosse profilata l’eventualità che dalla futura esecuzione di tale accordo potesse derivare un obbligo di offerta pubblica d’acquisto sulla totalità del capitale della medesima XXX, eventualità apparentemente scongiurata quando, dopo il diniego di autorizzazione opposto dall’XXX, l’operazione era stata altrimenti configurata, mediante l’intervento di acquirenti diversi, salvo però a ripresentarsì allorchè la XXX, avendo ravvisato in questi acquirenti dei soggetti interposti, aveva diffuso un comunicato nel quale affermava essersi verificato l’acquisto di una partecipazione superiore al 30% del capitale della XXX ad opera, di concerto, di XXX, della XXX e della controllante di quest’ultima, XXX s.p.a.; di come, pertanto, dette società avrebbero dovuto lanciare sin dal 18 febbraio 2002 un’offerta pubblica di acquisto del restante capitale, ma non lo avevano fatto, mentre solo a distanza di tempo e dopo l’intervenuta fusione tra le stesse XXX e XXX si era provveduto a rivendere le azioni della XXX che eccedevano il 30% della partecipazione di controllo della società. Ciò premesso, gli attori, che al tempo dei fatti narrati erano titolari di azioni della XXX e sarebbero stati perciò tra i destinatari dell’offerta pubblica, se questa fosse stata promossa, chiesero la condanna in solido delle società convenute a risarcire i danni da loro subiti per il mancato adempimento dell’obbligo di offerta.
Il tribunale accolse le domande e condannò XXX e XXX a corrispondere a ciascuno degli attori l’importo pari alla differenza tra il prezzo al quale essi avrebbero potuto cedere le proprie azioni, se vi fosse stata l’offerta pubblica di acquisto, e la quotazione di borsa delle medesime azioni alla data in cui era scaduto l’obbligo di offerta pubblica rimasto inadempiuto.
La decisione, impugnata da XXX e XXX, fu riformata dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza emessa il 20 dicembre 2007, poichè detta corte ritenne che le disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998 (c.d. testo unico della finanza, in prosieguo indicato con la sigla tuf), nel prevedere la sterilizzazione del voto e l’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni acquistate in violazione di un obbligo di offerta pubblica d’acquisto, non lascino spazio al risarcimento del danno in favore dell’azionista terzo, non avendo egli titolo per far valere la responsabilità contrattuale della controparte per il mancato adempimento di un contratto mai in realtà stipulato. La medesima corte aggiunse anche che, avendo a suo tempo l’XXX negato la prescritta autorizzazione al progettato acquisto delle azioni della XXX da parte della XXX, non poteva dirsi neppure compiutamente realizzato il presupposto per il sorgere dell’obbligo di offerta pubblica del quale era stato lamentato l’inadempimento; e che un tale obbligo non poteva esser derivato nemmeno dagli eventuali patti intercorsi tra le società interessate in vista della fusione, poi realizzata, tra le medesime XXX e XXX.
Avverso questa sentenza i sigg.ri M. e M. B. hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo sette motivi di censura.
Le società XXX e XXX hanno replicato con distinti controricorsi.
Sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
1. E’ stata preliminarmente eccepita l’inammissibilità del ricorso:
perchè non vi sarebbe corrispondenza tra l’indicazione delle disposizioni che si assumono violate e le questioni di diritto in concreto sollevate, perchè le surriferite disposizioni non sarebbero state trascritte nè lo sarebbero i documenti cui il ricorso fa riferimento, e perchè i quesiti di diritto posti a corredo dei motivi risulterebbero formulati in modo astratto ed incongruo.
1.1. La corte non condivide tali rilievi – prospettati peraltro in termini alquanto generici – o quanto meno non al punto da farne discendere l’inammissibilità dell’impugnazione proposta.
Dall’esposizione dei motivi enunciati nel ricorso è infatti del tutto agevole individuare quali sono le norme di legge della cui violazione o falsa applicazione i ricorrenti si dolgono, nè l’eventuale non perfetta coincidenza di tali norme con quelle indicate nell’epigrafe di ciascun motivo è causa d’inammissibilità.
Non occorre certo che il ricorso riporti per esteso il tenore delle disposizioni normative delle quali si discute e, quanto ai documenti, si capirà dal prosieguo come non vi siano questioni la cui risoluzione dipenda dal loro tenore letterale che perciò non possano essere delibate in difetto di una lettura integrale di quei documenti.
I quesiti di diritto con cui i motivi del ricorso si completano, infine, appaiono del tutto adeguati ad individuare i punti sui quali si manifesta il dissenso giuridico della difesa dei ricorrenti rispetto a quanto affermato nella sentenza impugnata ed in ordine ai quali questa corte è perciò chiamata ad enunciare un principio di diritto.
2. Passando, allora, ad esaminare il contenuto del ricorso, appare opportuno dare la precedenza al secondo, al terzo ed al quinto motivo, perchè vi sì fa questione di alcune affermazioni dell’impugnata sentenza le quali – sull’esplicito presupposto che trattasi di rationes decidendi autonome rispetto a quelle volte ad escludere il diritto al risarcimento del danno per violazione dell’obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni XXX di cui si dirà poi – sembrerebbero voler escludere che sia mai sorto in capo alla XXX ed a XXX, nel caso di specie, un siffatto obbligo di offerta.
E’ evidente che, ove sì dovesse pervenire ad una simile conclusione, sarebbe superfluo discutere delle conseguenze, in termini risarcitori, della violazione di un obbligo in realtà mai sorto.
2.1. La prima di tali affermazioni si trova alle pagg. 40 e 41 dell’impugnata sentenza, ove si fa riferimento al fatto che l’originario accordo, in base al quale era previsto che la XXX avrebbe acquistato una partecipazione azionaria idonea a far scattare l’obbligo di offerta pubblica totalitaria enunciato dall’art. 106 del tuf, richiedeva, per l’acquisizione di una seconda tranches di azioni della XXX, la necessaria autorizzazione dell’XXX, la quale invece, in un primo tempo, la negò; donde la conclusione che il presupposto previsto dal citato art. 106 per il sorgere del predetto obbligo di offerta non si sarebbe mai realizzato.
2.2. A tale conclusione i ricorrenti, lamentando sia vizi di motivazione (secondo motivo) sia violazione e falsa applicazione di norme di legge (terzo motivo), fondatamente però obiettano che – come in altra parte della stessa impugnata sentenza non si manca di dare atto – ad una prima fase in cui l’operazione concertata da XXX e XXX sembrò effettivamente destinata a non perfezionarsi (anche, tra l’altro, per il diniego di autorizzazione opposto dall’XXX) ne seguì un’altra, caratterizzata dall’intervento di acquirenti diversi, identificati dalla XXX come soggetti interposti, i quali procedettero all’acquisto delle azioni XXX realizzando così in altra guisa quella medesima operazione. Il che condusse la medesima XXX ad accertare che si era in realtà verificato l’acquisto di una partecipazione superiore al 30% del capitale della XXX, di concerto, ad opera di XXX e di soggetti riconducibili alla XXX ed alla sua controllante XXX. Se si ha riguardo a questa ricostruzione dei fatti, sui quali la corte d’appello non prende espressamente posizione, ma che neppure dichiara di non condividere (o spiega la ragione per cui eventualmente non la condivida), appare effettivamente illogica e priva di adeguato supporto giuridico l’affermazione secondo cui la mancata autorizzazione dell’XXX all’originario acquisto azionario progettato dalla XXX basterebbe a far escludere la sussistenza dei presupposti per il sorgere dell’obbligo di offerta pubblica obbligatoria. E’ ben possibile, infatti, che il modo in cui l’operazione è stata in concreto attuata abbia avuto lo scopo e l’effetto proprio di consentire alla XXX ed agli altri soggetti agenti di concerto con essa di acquisire quella partecipazione superiore al 30% del capitale di XXX che il diniego dell’XXX aveva in un primo tempo impedito. Ma il fatto che l’acquisto azionario, rilevante ai fini dell’applicazione del citato art. 106 del tuf, abbia avuto luogo attraverso l’interposizione di terzi, così eludendo anche il precedente divieto dell’autorità di vigilanza, non esclude, evidentemente, che esso sia comunque avvenuto. E tanto basta per far sì che il presupposto per il sorgere dell’obbligo di offerta possa essersi realizzato.
2.3. In un diverso passaggio motivazionale (pagg. 60 e segg.), anch’esso enunciato come espressione di un’autonoma ratio decidendi, l’impugnata sentenza, riferendosi alla conclusiva fusione intervenuta tra XXX e XXX, afferma che, se anche si volesse ipotizzare che le condizioni di tale fusione erano state preventivamente concordate tra la stessa XXX e XXX, da un simile accordo, appunto in quanto preordinato all’operazione di fusione, non deriverebbe il sorgere di un obbligo di offerta pubblica in capo alle due menzionate società.
2.4. A ciò i ricorrenti con ragione oppongono, denunciando la violazione di norme di settore primarie e secondarie (quinto motivo), che essi hanno fatto discendere la loro pretesa al risarcimento dei danni dalla violazione dell’obbligo di offerta pubblica derivante dal surriferito acquisto azionario di concerto, e non dal fatto che vi sia poi stata una fusione che ha interessato la società acquirente e quella le cui azioni erano state acquistate. Ed aggiungono che la previsione dell’art. 49, comma 1, n. 3, lett. g), del regolamento XXX n. 11971 del 1997, nell’escludere (a certe condizioni) l’obbligo di offerta pubblica quando l’acquisto azionario è conseguente ad operazioni di fusione o scissione approvate con delibera assembleare della società i cui titoli dovrebbero altrimenti essere oggetto di offerta, si riferisce all’ipotesi in cui l’acquisizione della partecipazione superiore alla soglia del 30% dipenda proprio dall’operazione di fusione o scissione, e non certo a quella in cui – come nella specie – la fusione sia intervenuta ad acquisto già perfezionato e magari proprio per consolidarne gli effetti.
In realtà la fusione, sopravvenuta dopo che era stato realizzato l’acquisto azionario dal quale si assume sia derivato l’obbligo di offerta pubblica totalitaria di cui si sta discutendo, non è idonea ad influire sull’esistenza di tale obbligo, il quale, come si è detto e come ulteriormente si dovrà poi precisare, sorge per effetto del predetto acquisto azionario (se superiore alla soglia indicata dal citato art. 106 del tuf) a prescindere dalle vicende societarie successive.
E’ vero che la citata disposizione dell’art. 49 del regolamento emanato dalla XXX in attuazione del penultimo comma dell’art. 106 del tuf contempla, tra le esenzioni dall’obbligo di offerta, anche il caso di acquisto azionario conseguente ad operazioni di fusione, ma deve, appunto, trattarsi di acquisti che nella fusione trovano la loro origine e la loro giustificazione. L’acquisto, cioè, come anche il tenore letterale del citato penultimo comma dell’art. 106 (lett. e) chiaramente indica, deve essere "determinato" dall’operazione di fusione; e ben lo sì comprende, giacchè la ragione della norma esonerativa risiede nell’esigenza di evitare che una tale operazione, giustificata da ragioni economico-aziendali, possa trovare ostacolo nell’eventualità che la reciproca compenetrazione delle rispettive compagini societarie comporti per taluno il superamento della soglia di partecipazione prevista dalla normativa sulle offerte pubbliche di acquisto. Situazione, questa, che appare però evidentemente ben diversa da quella in cui l’acquisto della partecipazione eccedente la soglia sia intervenuta prima dell’operazione di fusione e, per ciò stesso, non possa esser configurata come una conseguenza di questa o comunque non possa esserne logicamente fatta dipendere.
3. Si può allora passare all’esame del primo, del quarto e del sesto motivo del ricorso, che denunciano la violazione di norme di diritto contenute sia nel codice civile sia nel tuf e riguardano il cuore della vicenda controversa, onde appare opportuno prenderli in considerazione congiuntamente.
3.1. I ricorrenti pongono la questione della configurabilità del diritto al risarcimento del danno in capo al socio di società quotata in borsa che non si sia visto proporre un’offerta pubblica d’acquisto delle proprie azioni in una situazione nella quale, viceversa, per il disposto dell’art. 106 del tuf, quell’offerta era obbligatoria.
A tal riguardo giova anzitutto ricordare che l’art. 106 del tuf, nel caso in cui taluno a seguito di acquisti a titolo oneroso venga a detenere una partecipazione superiore al 30% delle azioni di una società quotata, prevede che (fatte salve alcune situazioni di esenzione che qui non rilevano), egli debba promuovere un’offerta pubblica di acquisto avente ad oggetto la totalità delle restanti azioni della medesima società. Se l’acquisto di azioni oltre detta soglia sia stato operato da più soggetti, che abbiano agito di concerto, il successivo art. 109 pone l’obbligo di offerta pubblica solidalmente a carico di tutti costoro. E’ poi lo stesso legislatore a stabilire il prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria, che, in base alla disposizione vigente al tempo dei fatti di causa, era misurato sulla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pagato dall’offerente per acquistare azioni nel medesimo periodo (il vigente secondo comma del citato art. 106 prevede ora, invece, che il prezzo dell’offerta non sia inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da persone che agiscono di concerto con lui nei dodici mesi anteriori). Ma il legislatore si è fatto anche carico di sanzionare l’eventuale violazione di siffatto obbligo, stabilendo che, ove l’offerta pubblica non sia promossa, il diritto di voto inerente all’intera partecipazione detenuta da colui che vi avrebbe dovuto provvedere non può essere esercitato e che i titoli eccedenti l’indicata percentuale del 30% devono essere alienati entro dodici mesi (art. 110 del tuf). Sono poi altresì previste altre possibili sanzioni amministrative e penali.
La giustificazione logica di tale disciplina è discussa in dottrina, con argomenti tesi talvolta anche a mettere in dubbio l’efficienza economica ed il fondamento etico-sociale dell’istituto, peraltro ormai diffuso su tutti i più importanti mercati internazionali. Non compete al giudice prendere posizione su un simile dibattito, ma è impossibile non registrare che la normativa in esame muove palesemente dal rilievo per cui chi acquista una partecipazione superiore alla soglia sopra menzionata si pone, di regola, nella condizione di controllare la società quotata e che tale vantaggio – il cosiddetto premio di maggioranza – è normalmente rispecchiato nel prezzo di acquisto, per ciò stesso superiore a quello corrente di mercato. L’obbligo di offerta pubblica totalitaria, che ne consegue, fa sì che del plusvalore lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza siano posti in condizione di beneficiare (almeno in parte, nel regime normativo vigente al tempo dei fatti di causa) anche gli altri soci, i quali, pur essendo titolari soltanto di partecipazioni minoritarie, hanno pur sempre contribuito col loro investimento alle sorti della società quotata. Non si tratta di fare applicazione del principio di parità di trattamento dei soci da parte della società, enunciato dall’art. 92 del tuf, che ha un ambito di applicazione diverso, bensì di cogliere il fondamento logico insito nella stessa disciplina dell’offerta pubblica obbligatoria di cui si sta parlando: quello, appunto, in forza del quale il legislatore vuole che, in caso di monetizzazione dei benefici inerenti ad una partecipazione che normalmente consente di detenere il controllo sulla società, del plusvalore così realizzato dal socio o dai soci alienanti possano in tutto o in parte beneficiare anche i rimanenti soci. Nè varrebbe obiettare che la lettera del citato art. 106 sembra imporre l’obbligo di offerta totalitaria a carico di chi acquisisce la partecipazione superiore alla soglia del 30% indipendentemente dall’avere egli o meno davvero pagato, per tale acquisizione, un sovraprezzo corrispondente al premio di controllo. Ove non vi sia stata alcuna remunerazione del prezzo di controllo da parte dell’acquirente, com’è evidente, il promuovimento di un’offerta pubblica di acquisto non avrebbe alcun significato, perchè il prezzo d’offerta non sarebbe superiore a quello corrente di mercato, ed a quel pezzo gli azionisti di minoranza potrebbero comunque già vendere le loro azioni in borsa senza che l’offerta pubblica ne modifichi in alcun modo le condizioni.
Ciò premesso, appare innegabile che il descritto meccanismo legale, pur se concepito anche per la realizzazione di finalità pubblicistiche inerenti al buon funzionamento del mercato finanziario (che giustificano il regime sanzionatorio dal quale la disciplina in esame è corredata), nell’immediato è destinato a realizzare il soddisfacimento di un interesse facente capo ai soci di minoranza, cui il legislatore vuole che l’offerta d’acquisto sia rivolta affinchè essi possano scegliere se conservare la titolarità delle loro azioni, confidando in un futuro aumento del valore e della redditività delle stesse, o se monetizzarle per beneficiare anch’essi in qualche misura del premio di maggioranza.
3.2. Stando così le cose, due considerazioni preliminari s’impongono.
3.2.1. La prima è che la proposizione dell’offerta pubblica d’acquisto, nei casi sopra ricordati, non configura un mero onere per l’acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30%, ma integra invece un vero e proprio obbligo. Ne fa fede non solo la terminologia adoperata dallo stesso legislatore, ma anche il carattere manifestamente sanzionatorio (sia pure in termini di sanzioni civili) della previsione contenuta nel citato art. 110 del tuf, per non dire delle ulteriori sanzioni amministrative e penali previste, rispettivamente, dai successivi artt. 192 e 173.
Deve altresì escludersi che la sterilizzazione del diritto di voto e l’obbligo di rivendita azionaria contemplati dal citato art. 110 a carico di chi non abbia promosso un’offerta pubblica di acquisto cui era tenuto assumano i connotati di un’obbligazione alternativa, rispetto a quella avente ad oggetto il precedente obbligo di promuovere l’offerta. L’alternatività presupporrebbe trattarsi di due obblighi posti sul medesimo piano, tra i quali il destinatario del precetto possa optare, ed invece il dettato normativo è chiarissimo nel prescrivere inderogabilmente l’obbligo di offerta pubblica, quando ne ricorrano le condizioni indicate dal legislatore.
Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di tale obbligo (conseguenze rilevanti, come accennato, anche sul piano amministrativo e penale) costituiscono la reazione sanzionatoria dell’ordinamento, non già un’alternativa rimessa alla facoltà di scelta dell’obbligato. Di alternatività, semmai, può parlarsi a proposito dell’offerta pubblica tardiva, che il novellato art. 107 del tuf (peraltro non applicabile, ratione temporis, nella presente causa) consente ora alla XXX d’imporre al trasgressore in luogo dell’obbligo di rivendita azionaria sopra ricordato, quando le condizioni del mercato lo consiglino; ma si tratta dell’alternativa tra due sanzioni, tra le quali è l’autorità di vigilanza a dover scegliere, non certo l’obbligato.
3.2.2. La seconda considerazione è che l’obbligo di cui si tratta, pur non sembrandone possibile l’esecuzione in forma specifica ope iudicis perchè difficilmente conciliabile con il meccanismo sanzionatorio legale sopra descritto, non sorge genericamente nei riguardi dell’ordinamento o verso soggetti indeterminati, bensì nei confronti di coloro i quali siano, in quel momento, titolari di azioni emesse dalla società quotata del cui capitale l’obbligato ha acquistato la partecipazione superiore al 30%.
Lungi dall’essere incompatibile con la configurazione di situazioni soggettive individuali, tutelate in quanto tali dall’ordinamento, il perseguimento da parte del legislatore dell’interesse pubblico ad un più efficiente funzionamento delle dinamiche del mercato sovente si realizza proprio attraverso la salvaguardia di quelle specifiche situazioni soggettive. E’ sempre più evidente come, in settori come questo, vi sia una costante interazione tra interessi individuali e l’interesse generale del mercato, l’integrità ed il buon funzionamento del quale sono inscindibilmente connessi con l’adeguata tutela delle posizioni soggettive che in esso si confrontano. La presenza di strumenti di salvaguardia del mercato non implica perciò, di per sè sola, che dalla relativa sfera di tutela siano esclusi gli interessi individuali eventualmente coinvolti nella vicenda. Al contrario, come ben dimostra anche l’evoluzione del diritto della concorrenza e l’ormai acquisito principio della tutelabilità delle posizioni soggettive "a valle" delle intese anticoncorrenziali vietate, (cfr. per tutte Cass., sez, un., 4 febbraio 2005, n. 2207), è da considerare ormai normale che la normativa del mercato ospiti forme di private enforcement, cioè che il perseguimento di interessi pubblici possa realizzarsi anche mediante l’effetto deterrente di strumenti di tutela azionati dai privati nel loro personale interesse.
In siffatto quadro non può ignorarsi, d’altronde, che la Direttiva 2004/25/Ce (successiva ai fatti di causa, ma evidentemente ispirata da principi preesistenti) fa espressamente riferimento alle offerte pubbliche d’acquisto come a "misure necessarie per tutelare i possessori di titoli, in particolare quelli con partecipazioni di minoranza (così il nono considerando). Ed anche in campo nazionale la più attenta dottrina non ha mancato di osservare come, sul piano sistematico, l’espresso riconoscimento legislativo dell’idoneità dell’offerta pubblica di acquisto a surrogare il diritto di recesso del socio, nelle ipotesi contemplate dall’art. 2491-quater c.c., lett. c), sia retrospettivamente significativo del fatto che, quando ricorrono le condizioni cui la legge ricollega l’obbligo di simili offerte pubbliche, la posizione giuridica dei destinatari dell’offerta si configura quale diritto soggettivo, non diversamente da come lo è il diritto di recesso.
L’obbligo che vi corrisponde – si badi – non consiste però nel pagare ai soci minoritari il prezzo delle azioni, determinato secondo la previsione legale già ricordata, giacchè un obbligo siffatto potrà eventualmente sorgere solo dopo che l’offerta sia stata promossa e nei confronti di coloro che avranno deciso di accettarla;
si tratta, invece, di un obbligo che viene prima e che in null’altro consiste se non, appunto, nel formulare l’offerta pubblica d’acquisto nei termini e con le modalità prescritte dalla legge.
3.3. Muovendo da tali premesse, appare difficile, in via di principio, negare che l’inadempimento dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto sia idoneo a determinare la responsabilità dell’inadempiente nei confronti di coloro cui l’inadempimento abbia recato danno.
La circostanza che l’ordinamento, come s’è visto, abbia predisposto anche un sistema di sanzioni civili, consistente nella sterilizzazione del voto e nell’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni eccedenti la soglia del 30% del capitale, non basta di per sè sola ad escludere l’applicazione dei principi generali vigenti in tema di inadempimento e risarcimento del danno. Quelle sanzioni hanno, in primo luogo, una valenza deterrente, giacchè unitamente alle sanzioni penali ed amministrative cui pure dianzi s’è fatto cenno mirano a scoraggiare l’acquisizione di un controllo azionario che, ove l’obbligo di offerta pubblica non sia rispettato, rischierebbe di rivelarsi per l’acquirente inutile ed addirittura svantaggioso. Ma è evidente che il diritto al risarcimento del danno spettante a chi abbia visto illegittimamente pregiudicato un interesse soggettivo tutelato dalla normativa, pur se di fatto può anch’esso concorrere ad esercitare una funzione deterrente, si pone su un piano diverso: perchè è nel risarcimento e non nelle sanzioni che la lesione di quell’interesse trova riparo.
Se taluno, incurante del rischio d’incorrere nelle sanzioni sopra menzionate, o confidando nella possibilità di eluderle in qualche modo, viola l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica, pur versando in una situazione che glie lo imporrebbe, non v’è dunque ragione per negare il diritto al risarcimento in favore di coloro nei confronti dei quali la prestazione inadempiuta avrebbe dovuto essere resa. Nè la circostanza che, come prima accennato, quell’obbligo possa non esser suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica basta a precludere l’esistenza del diritto al risarcimento del danno.
Questo, naturalmente, non impedisce che, in determinate situazioni, l’applicazione delle sanzioni cui s’è fatto cenno, ed in particolare l’obbligo di alienazione azionaria previsto dal citato art. 110, possa in concreto avere dei riflessi anche sulla posizione soggettiva degli azionisti che si sono visti in precedenza negare l’offerta di acquisto cui avrebbero avuto diritto, e che, per le conseguenti vicende del mercato, il pregiudizio da essi sofferto ne possa magari risultare ridotto o eliso. Ma è questione di fatto, da affrontare e risolvere in base all’andamento di ciascuna singola vicenda, senza che se ne possa ricavare un’incompatibilità di ordine logico tra la pretesa risarcitoria degli azionisti orbati dell’offerta e l’attuazione delle misure previste dal menzionato art. 110.
3.4. Si osserva però nell’impugnata sentenza, e lo ribadiscono con ampie argomentazioni le controricorrenti, che la sterilizzazione del diritto di voto e la necessità di rivendere entro l’anno le azioni acquistate oltre la soglia del 30% comportano (o dovrebbero di regola comportare) l’impossibilità per l’acquirente di conseguire l’effettivo controllo della società quotata; il che farebbe venir meno la ragione per la quale il legislatore ha voluto, attraverso la prescrizione dell’obbligo di offerta pubblica rivolta agli altri azionisti, assicurare anche a costoro una qualche partecipazione al premio di maggioranza cui dianzi s’è fatto cenno. Richiedere un risarcimento per il mancato conseguimento di tale premio, in una siffatta situazione, si tradurrebbe perciò nella pretesa di un indebito arricchimento.
Pur se indubbiamente suggestiva, tale obiezione non persuade.
Non è l’effettivo conseguimento del controllo della società a costituire il presupposto perchè sorgano l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica ed il correlativo diritto degli interessati a vedersela proporre, bensì il mero fatto che taluno abbia acquistato azioni in misura superiore all’anzidetta soglia del 30%, in presenza delle condizioni indicate nel citato art. 106, ed abbia pagato per tali azioni un prezzo superiore a quello corrente di mercato. Come s’è già ricordato, nella sua discrezionalità il legislatore ha ritenuto che di questo maggior prezzo anche gli altri azionisti debbano potere (almeno in qualche misura) beneficiare, e ciò si realizza appunto dando loro l’opportunità di vendere le azioni di cui sono titolari a condizioni migliori di quelle che il mercato altrimenti consentirebbe. Non vi è corrispettività tra acquisizione del controllo azionario, da parte dell’acquirente delle azioni tenuto all’offerta pubblica, e diritto di exit per i soci di minoranza, perchè in una società quotata la possibilità di dismettere (come anche di riacquisire) la qualità di socio comperando o vendendo azioni sul mercato in qualsiasi momento è da considerare normale.
Quel che rileva è il prezzo al quale l’azionista può vendere le proprie azioni: la maggiorazione di tale prezzo, per effetto dell’offerta pubblica obbligatoria, è, come detto, conseguenza unicamente del surplus pagato dall’offerente per acquistare un pacchetto azionario che, al momento in cui l’acquisto avviene, il legislatore presume idoneo al conseguimento del controllo. Le circostanze sopravvenute che possano eventualmente aver frustrato lo scopo di un tale acquisto – salvo eventualmente per i profili di quantificazione del danno di cui si parlerà dopo – non hanno perciò alcun rilievo.
3.5. S’è già osservato che quello previsto dal citato art. 106 del tuf non è un obbligo che discenda da un contratto intercorso tra l’acquirente della partecipazione sociale e gli azionisti di minoranza della società, bensì un obbligo a contrarre con loro, a determinate condizioni, se lo vorranno.
Sarebbe però errato dedurne che dal relativo inadempimento derivi una responsabilità di tipo precontrattuale, che secondo la tradizionale (benchè controversa) impostazione della giurisprudenza avrebbe natura aquiliana; e sarebbe arbitrario ricondurre tale responsabilità alla previsione dell’art. 1337 c.c., non foss’altro perchè, in una fattispecie di questo tipo, non si danno nè le trattative nè la formazione del contratto cui detta norma allude.
Come è stato già affermato altre volte da questa corte (si veda, in particolare, la pronuncia di Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712), la responsabilità nella quale incorre "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta" (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell’accezione che ne da il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte. In tale contesto la qualificazione "contrattuale" non vale a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe altrimenti suggerire, ma, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, essa può discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (anche non di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento.
Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto o di una determinata cerchia di soggetti. In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione dell’art. 1173 c.c., che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere – ed è stato sostenuto – che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege, ma la questione sembra avere un valore essenzialmente terminologico, giacchè in linea generale il regime cui sono soggette le obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto.
Se si aderisce a tale impostazione – e non si ha qui motivo per non farlo -, è agevole intendere come la responsabilità per inadempimento dell’obbligo di promuovere l’offerta pubblica d’acquisto, di cui si sta discutendo, sia da ricondurre non già al generale principio del neminem laedere, bensì nell’alveo della responsabilità da contratto (o eventualmente ex lege), nell’ampia accezione dianzi richiamata: perchè essa deriva dalla violazione di un obbligo preesistente, che la legge fa scaturire da un comportamento volontario (l’acquisto di azioni di società quotata che porta a detenere una partecipazione superiore alla soglia prevista dalle legge) con cui taluno entra in contatto con una cerchia ben definita di soggetti (gli azionisti di minoranza) nell’interesse specifico dei quali la prestazione rimasta inadempiuta (consistente nel promuovere l’offerta) era dovuta.
3.6. L’azionista di minoranza che si sia visto illegittimamente privato della possibilità di aderire ad un’offerta di acquisto delle sue azioni – offerta in realtà non proposta – ha quindi il diritto di ottenere il risarcimento del danno subito. Danno che, peraltro, pare arbitrario far coincidere in modo necessario ed automatico con il risultato economico della vendita azionaria che si sarebbe verificata se l’offerta vi fosse stata e fosse stata accettata, perchè un conto è la possibilità di stipulare un contratto altro conto è l’averlo effettivamente stipulato.
La lesione subita, in simili casi, consiste nell’aver perso una possibilità (o, come potrebbe anche dirsi con terminologia forse più vicina al mondo dei mercati finanziari, un’opzione d’acquisto) che l’offerta pubblica avrebbe dovuto assicurare e che, proprio in quanto l’offerta non v’è stata, non è mai invece venuta ad esistenza. Si tratta, per le ragioni già ampiamente illustrate, non di una mera aspettativa di fatto, ma di un interesse giuridicamente protetto che ha ad oggetto un’entità patrimoniale a sè stante, suscettibile di autonoma valutazione economica, fermo restando che grava sul danneggiato l’onere di provare gli elementi in base ai quali possa riconoscersi a quell’opzione un valore economico effettivo, in relazione ai diversi fattori che possono aver influenzato l’andamento della quotazione di borsa delle azioni di cui si discute nel periodo considerato, tenendo conto dei criteri di determinazione del prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria che avrebbe dovuto esser promossa.
Giova solo ribadire, anche richiamando quanto già sopra osservato, che poichè le sanzioni civili di cui s’è detto ed in particolare l’obbligo di rivendita azionaria stabilito dal citato art. 110 hanno la medesima radice causale del diritto al risarcimento del danno spettante agli azionisti di minoranza, defraudati dell’offerta pubblica di acquisto dei loro titoli, è almeno astrattamente possibile ipotizzare un’incidenza di quegli eventi successivi sul valore di borsa dei titoli rimasti nel portafoglio di detti azionisti, in termini di compensatici lucri cum danno ove se ne diano le condizioni.
La valutazione della sufficienza delle prove offerte e la concreta individuazione del danno risarcibile competono, ovviamente, al giudice di merito.
3.7. Sulla base delle considerazioni svolte è allora possibile enunciare il seguente principio di diritto: "In caso di violazione dell’obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, compete agli azionisti cui l’offerta avrebbe dovuto esser rivolta il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto, ove dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta".
4. L’impugnata sentenza della corte d’appello, che non si è attenuta al principio sopra enunciato, deve essere cassata, in accoglimento dei motivi di ricorso dianzi esaminati, restando in ciò assorbito l’esame dell’ultimo motivo, che prospetta un’ipotesi subordinata di risarcimento del danno da violazione d’interesse legittimo.
Alla stessa corte d’appello, ma in diversa composizione, la causa deve perciò esser rinviata perchè la riesamini nel merito e provveda anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, nei termini di cui in motivazione, e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2012

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