Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-08-2012, n. 14392

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con atto notificato il 12 aprile 2006 il sig. S.D. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di XXX la XXX – XXX s.p.a. (in prosieguo indicata solo come XXX) e la XXXs.p.a. (in prosieguo Fonsai), risultante della fusione della XXX Assicurazioni s.p.a. (in prosieguo XXX) con la XXX- XXX s.p.a. (in prosieguo Sai). L’attore riferì di come, nel giugno del 2001, la XXX s.p.a., controllata da XXX, si fosse accordata con la XXXper l’acquisto di un rilevante pacchetto di azioni della XXX, società quotata in borsa ed anch’essa controllata da XXX; di come si fosse profilata l’eventualità che dalla futura esecuzione di tale accordo potesse derivare un obbligo di offerta pubblica d’acquisto sulla totalità del capitale della medesima XXX, eventualità apparentemente scongiurata quando, dopo il diniego di autorizzazione opposto dall’XXX, l’operazione era stata altrimenti configurata, mediante l’intervento di acquirenti diversi, salvo però a ripresentarsi allorchè la XXX, avendo ravvisato in questi acquirenti dei soggetti interposti, aveva diffuso un comunicato nel quale affermava essersi verificato l’acquisto di una partecipazione superiore al 30% del capitale della XXX ad opera, di concerto, di XXX, della XXXe della controllante di quest’ultima, XXX s.p.a.; di come, pertanto, dette società avrebbero dovuto lanciare sin dal 18 febbraio 2002 un’offerta pubblica di acquisto del restante capitale, ma non lo avevano fatto, mentre solo a distanza di tempo e dopo l’intervenuta fusione tra le stesse XXXe XXX si era provveduto a rivendere le azioni della FonXXXche eccedevano il 30% della partecipazione di controllo della società. Ciò premesso, l’attore, che al tempo dei fatti narrati era titolare di azioni della XXX e sarebbe stato perciò tra i destinatari dell’offerta pubblica, se questa fosse stata promossa, chiese la condanna in solido delle società convenute a risarcire i danni da lui subiti per il mancato adempimento dell’obbligo di offerta.
Il tribunale accolse la domanda e condannò XXX e FonXXXa corrispondere al sig. S. l’importo di Euro 614.380,00, pari alla differenza tra il prezzo al quale egli avrebbe potuto cedere le proprie azioni, se vi fosse stata l’offerta pubblica di acquisto, e la quotazione di borsa delle medesime azioni alla data in cui era scaduto l’obbligo di offerta pubblica rimasto inadempiuto.
Ma siffatta decisione, impugnata dalle due società convenute, fu totalmente riformata dalla Corte d’appello di XXX, con sentenza emessa l’8 settembre 2010, poichè detta corte ritenne che le disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998, (c.d. testo unico della finanza, in prosieguo indicato con la sigla tuf), nel prevedere la sterilizzazione del voto e la rivendita entro l’anno delle azioni acquisite in violazione di un obbligo di offerta pubblica d’acquisto, non lascino spazio al risarcimento del danno in favore dell’azionista terzo, non avendo egli titolo per far valere la responsabilità contrattuale della controparte per il mancato adempimento di un contratto mai in realtà stipulato. Osservò inoltre la corte d’appello che il tribunale, nel configurare la responsabilità delle società convenute anche per il non corretto adempimento dell’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni eccedenti la soglia oltre la quale il precedente acquisto aveva fatto scattare l’obbligo di offerta pubblico rimasto inadempiuto (poichè la sopravvenuta fusione tra XXXe XXX aveva reso impossibile la rivendita di azioni di quest’ultima società), era incorso in un vizio di extrapetizione, giacchè una tale causa petendi mai era stata dedotta nell’atto di citazione.
Avverso questa sentenza il sig. S. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.
Le società XXX e FonXXXhanno replicato con due distinti controricorsi.
Tutte le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Entrambi i motivi di ricorso denunciano la violazione di norme di diritto: sia norme contenute nel codice civile sia norme contenute nel tuf.
Il primo motivo pone la questione della configurabilità del diritto al risarcimento del danno in capo al socio di società quotata in borsa che non si sia visto proporre un’offerta pubblica d’acquisto delle proprie azioni in una situazione nella quale, viceversa, per il disposto dell’art. 106 tuf, quell’offerta era obbligatoria.
Il secondo motivo, formulato in via subordinata, è volto invece a contestare che, riferendosi anche al non puntuale rispetto da parte di XXX e FonXXXdelle disposizioni dettate dal successivo art. 110 per il caso d’inadempimento dell’obbligo di offerta pubblica sopra richiamato, il tribunale sia andato oltre i limiti consentitigli dalla domanda.
2. L’ammissibilità del primo motivo è messa in discussione dalla difesa delle controricorrenti, le quali obiettano che la questione del diritto al risarcimento del danno conseguente al mancato lancio dell’offerta pubblica obbligatoria d’acquisto ormai non si potrebbe più porre, in quanto non sull’inadempimento di quel primo obbligo il tribunale aveva fondato la propria pronuncia di condanna, bensì sul non corretto adempimento dell’obbligo successivo di rivendita delle azioni, contemplato dal citato art. 110 tuf. Non avendo il sig. S. proposto a suo tempo appello incidentale, la questione da lui sollevata col primo motivo di ricorso sarebbe ormai preclusa.
L’eccezione non persuade.
La sentenza di primo grado non appare invero tale da veicolare un’autonoma decisione negativa in ordine alla spettanza del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto, e quindi da implicare una preclusione all’esame di questa questione nel grado successivo, in difetto di specifica impugnazione dell’interessato. Il tribunale ha confermato la dannosità del suaccennato inadempimento, aggiungendo tuttavia – in risposta anche ad eccezioni al riguardo sollevate da parte convenuta – che il danno avrebbe potuto eventualmente essere eliso dall’adempimento del successivo obbligo di rivendita delle azioni eccedenti, a norma del citato art. 110, ma che, in concreto, ciò non si era verificato giacchè anche tale ulteriore obbligo non era stato adempiuto correttamente.
Che una tale statuizione, in quanto non impugnata in via incidentale dall’attore vittorioso, non fosse tale da metter fine alla discussione sulle conseguenze dell’inadempimento dell’originario obbligo di offerta appare, del resto, confermato dal fatto che questo profilo ha formato oggetto dell’esplicito appello proposto dalle odierne controricorrenti ed è stato quello più ampiamente trattato dalla corte territoriale, che non si è certo astenuta dal pronunciarsi a propria volta sul punto. Se davvero detta questione fosse stata coperta dal un giudicato interno, avrebbero dovuto allora essere proprio le controricorrenti a dolersi, con un mezzo di ricorso incidentale condizionato, del fatto che il giudice d’appello si sia invece pronunciato su di essa.
3. Si può dunque senz’altro procedere all’esame nel merito della questione sollevata con i primi quattro motivi di ricorso.
3.1. Giova anzitutto ricordare che l’art. 106 tuf, nel caso in cui taluno a seguito di acquisti a titolo oneroso venga a detenere una partecipazione superiore al 30% delle azioni di una società quotata, prevede che (fatte salve alcune situazioni di esenzione che qui non rilevano), egli debba promuovere un’offerta pubblica di acquisto avente ad oggetto la totalità delle restanti azioni della medesima società. Se l’acquisto di azioni oltre detta soglia sia stato operato da più soggetti, che abbiano agito di concerto, il successivo art. 109 pone l’obbligo di offerta pubblica solidalmente a carico di tutti costoro. E’ poi lo stesso legislatore a stabilire il prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria, che, in base alla disposizione vigente al tempo dei fatti di causa, era misurato sulla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato degli ultimi dodici mesi e quello più elevato pagato dall’offerente per acquistare azioni nel medesimo periodo (il vigente secondo comma del citato art. 106 prevede ora, invece, che il prezzo dell’offerta non sia inferiore a quello più elevato pagato dall’offerente e da persone che agiscono di concerto con lui nei dodici mesi anteriori).
Ma il legislatore si è fatto anche carico di sanzionare l’eventuale violazione di siffatto obbligo, stabilendo che, ove l’offerta pubblica non sia promossa, il diritto di voto inerente all’intera partecipazione detenuta da colui che vi avrebbe dovuto provvedere non può essere esercitato e che i titoli eccedenti l’indicata percentuale del 30% devono essere alienati entro dodici mesi (art. 110 tuf). Sono poi altresì previste altre possibili sanzioni amministrative e penali.
La giustificazione logica di tale disciplina è discussa in dottrina, con argomenti tesi talvolta anche a mettere in dubbio l’efficienza economica ed il fondamento etico – sociale dell’istituto, peraltro ormai diffuso su tutti i più importanti mercati internazionali. Non compete al giudice prendere posizione su un simile dibattito, ma è impossibile non registrare che la normativa in esame muove palesemente dal rilievo per cui chi acquista una partecipazione superiore alla soglia sopra menzionata si pone, di regola, nella condizione di controllare la società quotata e che tale vantaggio – il cosiddetto premio di maggioranza – è normalmente rispecchiato nel prezzo di acquisto, per ciò stesso superiore a quello corrente di mercato. L’obbligo di offerta pubblica totalitaria, che ne consegue, fa sì che del plusvalore lucrato dal venditore del pacchetto azionario di maggioranza siano posti in condizione di beneficiare (almeno in parte, nel regime normativo vigente al tempo dei fatti di causa) anche gli altri soci, i quali, pur essendo titolari soltanto di partecipazioni minoritarie, hanno pur sempre contribuito col loro investimento alle sorti della società quotata. Non si tratta di fare applicazione del principio di parità di trattamento dei soci da parte della società, enunciato dall’art. 92 tuf, che ha un ambito di applicazione diverso, bensì di cogliere il fondamento logico insito nella stessa disciplina dell’offerta pubblica obbligatoria di cui si sta parlando: quello, appunto, in forza del quale il legislatore vuole che, in caso di monetizzazione dei benefici inerenti ad una partecipazione che normalmente consente di detenere il controllo sulla società, del plusvalore così realizzato dal socio o dai soci alienanti possano in tutto o in parte beneficiare anche i rimanenti soci. Nè varrebbe obiettare che la lettera del citato art. 106 sembra imporre l’obbligo di offerta totalitaria a carico di chi acquisisce la partecipazione superiore alla soglia del 30% indipendentemente dall’avere egli o meno davvero pagato, per tale acquisizione, un sovraprezzo corrispondente al premio di controllo.
Ove non vi sia stata alcuna remunerazione del prezzo di controllo da parte dell’acquirente, com’è evidente, il promuovimento di un’offerta pubblica di acquisto non avrebbe alcun significato, perchè il prezzo d’offerta non sarebbe superiore a quello corrente di mercato, ed a quel pezzo gli azionisti di minoranza potrebbero comunque già vendere le loro azioni in borsa senza che l’offerta pubblica ne modifichi in alcun modo le condizioni.
Ciò premesso, appare innegabile che il descritto meccanismo legale, pur se concepito anche per la realizzazione di finalità pubblicistiche inerenti al buon funzionamento del mercato finanziario (che giustificano il regime sanzionatorio dal quale la disciplina in esame è corredata), nell’immediato è destinato a realizzare il soddisfacimento di un interesse facente capo ai soci di minoranza, cui il legislatore vuole che l’offerta d’acquisto sia rivolta affinchè essi possano scegliere se conservare la titolarità delle loro azioni, confidando in un futuro aumento del valore e della redditività delle stesse, o se monetizzarle per beneficiare anch’essi in qualche misura del premio di maggioranza.
3.2. Stando così le cose, due considerazioni preliminari s’impongono.
3.2.1. La prima è che la proposizione dell’offerta pubblica d’acquisto, nei casi sopra ricordati, non configura un mero onere per l’acquirente del pacchetto azionario che superi la soglia del 30%, ma integra invece un vero e proprio obbligo. Ne fa fede non solo la terminologia adoperata dallo stesso legislatore, ma anche il carattere manifestamente sanzionatorio (sia pure in termini di sanzioni civili) della previsione contenuta nel citato art. 110 tuf, per non dire delle ulteriori sanzioni amministrative e penali previste, rispettivamente, dai successivi artt. 192 e 173.
Deve altresì escludersi che la sterilizzazione del diritto di voto e l’obbligo di rivendita azionaria contemplati dal citato art. 110 a carico di chi non abbia promosso un’offerta pubblica di acquisto cui era tenuto assumano i connotati di un’obblìgazione alternativa, rispetto a quella avente ad oggetto il precedente obbligo di promuovere l’offerta. L’alternatività presupporrebbe trattarsi di due obblighi posti sul medesimo piano, tra i quali il destinatario del precetto possa optare, ed invece il dettato normativo è chiarissimo nel prescrivere inderogabilmente l’obbligo di offerta pubblica, quando ne ricorrano le condizioni indicate dal legislatore.
Le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di tale obbligo (conseguenze rilevanti, come accennato, anche sul piano amministrativo e penale) costituiscono la reazione sanzionatoria dell’ordinamento, non già un’alternativa rimessa alla facoltà di scelta dell’obbligato. Di alternatività, semmai, può parlarsi a proposito dell’offerta pubblica tardiva, che il novellato art. 107 tuf (peraltro non applicabile, ratione temporis, nella presente causa) consente ora alla XXX d’imporre al trasgressore in luogo dell’obbligo di rivendita azionaria sopra ricordato, quando le condizioni del mercato lo consiglino; ma si tratta dell’alternativa tra due sanzioni, tra le quali è l’autorità di vigilanza a dover scegliere, non certo l’obbligato.
3.2.2. La seconda considerazione è che l’obbligo di cui si tratta, pur non sembrandone possibile l’esecuzione in forma specifica ope iudicis perchè difficilmente conciliabile con il meccanismo sanzionatorio legale sopra descritto, non sorge genericamente nei riguardi dell’ordinamento o verso soggetti indeterminati, bensì nei confronti di coloro i quali siano, in quel momento, titolari di azioni emesse dalla società quotata del cui capitale l’obbligato ha acquistato la partecipazione superiore al 30%.
Lungi dall’essere incompatibile con la configurazione di situazioni soggettive individuali, tutelate in quanto tali dall’ordinamento, il perseguimento da parte del legislatore dell’interesse pubblico ad un più efficiente funzionamento delle dinamiche del mercato sovente si realizza proprio attraverso la salvaguardia di quelle specifiche situazioni soggettive. E’ sempre più evidente come, in settori come questo, vi sia una costante interazione tra interessi individuali e l’interesse generale del mercato, l’integrità ed il buon funzionamento del quale sono inscindibilmente connessi con l’adeguata tutela delle posizioni soggettive che in esso si confrontano. La presenza di strumenti di salvaguardia del mercato non implica perciò, di per sè sola, che dalla relativa sfera di tutela siano esclusi gli interessi individuali eventualmente coinvolti nella vicenda. Al contrario, come ben dimostra anche l’evoluzione del diritto della concorrenza e l’ormai acquisito principio della tutelabilità delle posizioni soggettive "a valle" delle intese anticoncorrenziali vietate, (cfr. per tutte Cass., sez. un., 4 febbraio 2005, n. 2207), è da considerare ormai normale che la normativa del mercato ospiti forme di private enforcement, cioè che il perseguimento di interessi pubblici possa realizzarsi anche mediante l’effetto deterrente di strumenti di tutela azionati dai privati nel loro personale interesse.
In siffatto quadro non può ignorarsi, d’altronde, che la Direttiva 2004/25/Ce (successiva ai fatti di causa, ma evidentemente ispirata da principi preesistenti) fa espressamente riferimento alle offerte pubbliche d’acquisto come a "misure necessaria per tutelare i possessori di titoli, in particolare quelli con partecipazioni di minoranza (così il nono considerando). Ed anche in campo nazionale la più attenta dottrina non ha mancato di osservare come, sul piano sistematico, l’espresso riconoscimento legislativo dell’idoneità dell’offerta pubblica di acquisto a surrogare il diritto di recesso del socio, nelle ipotesi contemplate dall’art. 2497-quater c.c., lett. c), sia retrospettivamente significativo del fatto che, quando ricorrono le condizioni cui la legge ricollega l’obbligo di simili offerte pubbliche, la posizione giuridica dei destinatari dell’offerta si configura quale diritto soggettivo, non diversamente da come lo è il diritto di recesso.
L’obbligo che vi corrisponde – si badi – non consiste però nel pagare ai soci minoritari il prezzo delle azioni, determinato secondo la previsione legale già ricordata, giacchè un obbligo siffatto potrà eventualmente sorgere solo dopo che l’offerta sia stata promossa e nei confronti di coloro che avranno deciso di accettarla;
si tratta, invece, di un obbligo che viene prima e che in null’altro consiste se non, appunto, nel formulare l’offerta pubblica d’acquisto nei termini e con le modalità prescritte dalla legge.
3.3. Muovendo da tali premesse, appare difficile, in via di principio, negare che l’inadempimento dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto sia idoneo a determinare la responsabilità dell’inadempiente nei confronti di coloro cui l’inadempimento abbia recato danno.
La circostanza che l’ordinamento, come s’è visto, abbia predisposto anche un sistema di sanzioni civili, consistente nella sterilizzazione del voto e nell’obbligo di rivendita entro l’anno delle azioni eccedenti la soglia del 30% del capitale, non basta di per sè sola ad escludere l’applicazione dei principi generali vigenti in tema di inadempimento e risarcimento del danno. Quelle sanzioni hanno, in primo luogo, una valenza deterrente, giacchè unitamente alle sanzioni penali ed amministrative cui pure dianzi s’è fatto cenno mirano a scoraggiare l’acquisizione di un controllo azionario che, ove l’obbligo di offerta pubblica non sia rispettato, rischierebbe di rivelarsi per l’acquirente inutile ed addirittura svantaggioso. Ma è evidente che il diritto al risarcimento del danno spettante a chi abbia visto illegittimamente pregiudicato un interesse soggettivo tutelato dalla normativa, pur se di fatto può anch’esso concorrere ad esercitare una funzione deterrente, si pone su un piano diverso: perchè è nel risarcimento e non nelle sanzioni che la lesione di quell’interesse trova riparo.
Se taluno, incurante del rischio d’incorrere nelle sanzioni sopra menzionate, o confidando nella possibilità di eluderle in qualche modo, viola l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica, pur versando in una situazione che glie lo imporrebbe, non v’è dunque ragione per negare il diritto al risarcimento in favore di coloro nei confronti dei quali la prestazione inadempiuta avrebbe dovuto essere resa. Nè la circostanza che, come prima accennato, quell’obbligo possa non esser suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica basta a precludere l’esistenza del diritto al risarcimento del danno.
Questo, naturalmente, non impedisce che, in determinate situazioni, l’applicazione delle sanzioni cui s’è fatto cenno, ed in particolare l’obbligo di alienazione azionaria previsto dal citato art. 110, possa in concreto avere dei riflessi anche sulla posizione soggettiva degli azionisti che si sono visti in precedenza negare l’offerta di acquisto cui avrebbero avuto diritto, e che, per le conseguenti vicende del mercato, il pregiudizio da essi sofferto ne possa magari risultare ridotto o eliso. Ma è questione di fatto, da affrontare e risolvere in base all’andamento di ciascuna singola vicenda, senza che se ne possa ricavare un’incompatibilità di ordine logico tra la pretesa risarcitoria degli azionisti orbati dell’offerta e l’attuazione delle misure previste dal menzionato art. 110.
3.4. Si osserva però nell’impugnata sentenza, e lo ribadiscono con ampie argomentazioni le controricorrenti, che la sterilizzazione del diritto di voto e la necessità di rivendere entro l’anno le azioni acquistate oltre la soglia del 30% comportano (o dovrebbero di regola comportare) l’impossibilità per l’acquirente di conseguire l’effettivo controllo della società quotata; il che farebbe venir meno la ragione per la quale il legislatore ha voluto, attraverso la prescrizione dell’obbligo di offerta pubblica rivolta agli altri azionisti, assicurare anche a costoro una qualche partecipazione al premio di maggioranza cui dianzi s’è fatto cenno. Richiedere un risarcimento per il mancato conseguimento di tale premio, in una siffatta situazione, si tradurrebbe perciò nella pretesa di un indebito arricchimento.
Pur se indubbiamente suggestiva, tale obiezione non persuade.
Non è l’effettivo conseguimento del controllo della società a costituire il presupposto perchè sorgano l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica ed il correlativo diritto degli interessati a vedersela proporre, bensì il mero fatto che taluno abbia acquistato azioni in misura superiore all’anzidetta soglia del 30%, in presenza delle condizioni indicate nel citato art. 106, ed abbia pagato per tali azioni un prezzo superiore a quello corrente di mercato. Come s’è già ricordato, nella sua discrezionalità il legislatore ha ritenuto che di questo maggior prezzo anche gli altri azionisti debbano potere (almeno in qualche misura) beneficiare, e ciò si realizza appunto dando loro l’opportunità di vendere le azioni di cui sono titolari a condizioni migliori di quelle che il mercato altrimenti consentirebbe. Non vi è corrispettività tra acquisizione del controllo azionario, da parte dell’acquirente delle azioni tenuto all’offerta pubblica, e diritto di exit per i soci di minoranza, perchè in una società quotata la possibilità di dismettere (come anche di riacquisire) la qualità di socio comperando o vendendo azioni sul mercato in qualsiasi momento è da considerare normale.
Quel che rileva è il prezzo al quale l’azionista può vendere le proprie azioni: la maggiorazione di tale prezzo, per effetto dell’offerta pubblica obbligatoria, è, come detto, conseguenza unicamente del surplus pagato dall’offerente per acquistare un pacchetto azionario che, al momento in cui l’acquisto avviene, il legislatore presume idoneo al conseguimento del controllo. Le circostanze sopravvenute che possano eventualmente aver frustrato lo scopo di un tale acquisto – salvo eventualmente per i profili di quantificazione del danno di cui si parlerà dopo – non hanno perciò alcun rilievo.
3.5. S’è già osservato che quello previsto dal citato art. 106 tuf non è un obbligo che discenda da un contratto intercorso tra l’acquirente della partecipazione sociale e gli azionisti di minoranza della società, bensì un obbligo a contrarre con loro, a determinate condizioni, se lo vorranno.
Sarebbe però errato dedurne che dal relativo inadempimento derivi una responsabilità di tipo precontrattuale, che secondo la tradizionale (benchè controversa) impostazione della giurisprudenza avrebbe natura aquilìana; e sarebbe arbitrario ricondurre tale responsabilità alla previsione dell’art. 1337 c.c., non foss’altro perchè, in una fattispecie di questo tipo, non si danno nè le trattative nè la formazione del contratto cui detta norma allude.
Come è stato già affermato altre volte da questa corte (si veda, in particolare, la pronuncia di Cass., sez. un., 26 giugno 2007, n. 14712), la responsabilità nella quale incorre "il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta" (art. 1218 c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto, nell’accezione che ne da il successivo art. 1321 c.c., ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte. In tale contesto la qualificazione "contrattuale" non vale a circoscriverne la portata entro i limiti che il significato letterale di detta espressione potrebbe altrimenti suggerire, ma, in un quadro sistematico peraltro connotato da un graduale avvicinamento dei due tradizionali tipi di responsabilità, essa può discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (anche non di contratto, bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento.
Ne deriva che la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegue dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto o di una determinata cerchia di soggetti. In quest’ottica deve esser letta anche la disposizione dell’art. 1173 c.c., che classifica le obbligazioni in base alla loro fonte ed espressamente distingue le obbligazioni da contratto (da intendersi nella più ampia accezione sopra indicata) da quelle da fatto illecito. Si potrebbe in verità anche sostenere – ed è stato sostenuto – che la nozione di obbligazione contrattuale contenuta in detto articolo ha una valenza più ristretta, e che le obbligazioni derivanti dalla violazione di specifiche norme o principi giuridici preesistenti ricadono nell’ulteriore categoria degli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, cui pure la medesima norma allude. Piuttosto che obbligazioni di natura contrattuale le si dovrebbe insomma definire obbligazioni ex lege, ma la questione sembra avere un valore essenzialmente terminologico, giacchè in linea generale il regime cui sono soggette le obbligazioni ex lege non si discosta da quello delle obbligazioni contrattuali in senso stretto.
Se si aderisce a tale impostazione – e non si ha qui motivo per non farlo -, è agevole intendere come la, responsabilità per inadempimento dell’obbligo di promuovere l’offerta pubblica d’acquisto, di cui si sta discutendo, sia da ricondurre non già al generale principio del neminem laedere, bensì nell’alveo della responsabilità da contratto (o eventualmente ex lege), nell’ampia accezione dianzi richiamata: perchè essa deriva dalla violazione di un obbligo preesistente, che la legge fa scaturire da un comportamento volontario (l’acquisto di azioni di società quotata che porta a detenere una partecipazione superiore alla soglia prevista dalle legge) con cui taluno entra in contatto con una cerchia ben definita di soggetti (gli azionisti di minoranza) nell’interesse specifico dei quali la prestazione rimasta inadempiuta (consistente nel promuovere l’offerta) era dovuta.
3.6. L’azionista di minoranza che si sia visto illegittimamente privato della possibilità di aderire ad un’offerta di acquisto delle sue azioni – offerta in realtà non proposta – ha quindi il diritto di ottenere il risarcimento del danno subito. Danno che, peraltro, pare arbitrario far coincidere in modo necessario ed automatico con il risultato economico della vendita azionaria che si sarebbe verificata se l’offerta vi fosse stata e fosse stata accettata, perchè un conto è la possibilità di stipulare un contratto altro conto è l’averlo effettivamente stipulato.
La lesione subita, in simili casi, consiste nell’aver perso una possibilità (o, come potrebbe anche dirsi con terminologia forse più vicina al mondo dei mercati finanziari, un’opzione d’acquisto) che l’offerta pubblica avrebbe dovuto assicurare e che, proprio in quanto l’offerta non v’è stata, non è mai invece venuta ad esistenza. Si tratta, per le ragioni già ampiamente illustrate, non di una mera aspettativa di fatto, ma di un interesse giuridicamente protetto che ha ad oggetto un’entità patrimoniale a sè stante, suscettibile di autonoma valutazione economica , fermo restando che grava sul danneggiato l’onere di provare gli elementi in base ai quali possa riconoscersi a quell’opzione un valore economico effettivo, in relazione ai diversi fattori che possono aver influenzato l’andamento della quotazione di borsa delle azioni di cui si discute nel periodo considerato, tenendo conto dei criteri di determinazione del prezzo dell’offerta pubblica obbligatoria che avrebbe dovuto esser promossa.
Giova solo ribadire, anche richiamando quanto già sopra osservato, che poichè le sanzioni civili di cui s’è detto ed in particolare l’obbligo di rivendita azionaria stabilito dal citato art. 110 hanno la medesima radice causale del diritto al risarcimento del danno spettante agli azionisti di minoranza, defraudati dell’offerta pubblica di acquisto dei loro titoli, è almeno astrattamente possibile ipotizzare un’incidenza di quegli eventi successivi sul valore di borsa dei titoli rimasti nel portafoglio di detti azionisti, in termini di compensatio lucri cum danno ove se ne diano le condizioni.
La valutazione della sufficienza delle prove offerte e la concreta individuazione del danno risarcibile competono, ovviamente, al giudice di merito.
3.7. Sulla base delle considerazioni svolte è allora possibile enunciare il seguente principio di diritto: "In caso di violazione dell’obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al 30% del capitale sociale, compete agli azionisti cui l’offerta avrebbe dovuto esser rivolta il diritto di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da essi sofferto, ove dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione di detta offerta".
4. L’impugnata sentenza della corte d’appello, che non si è attenuta al principio sopra enunciato, deve essere cassata, in accoglimento del primo motivo di ricorso, che assorbe l’esame del secondo.
Alla stessa corte d’appello, ma in diversa composizione, la causa deve perciò esser rinviata perchè la riesamini nel merito e provveda anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte accoglie il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa alla Corte d’appello di XXX, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2012

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