Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 23-05-2013) 20-06-2013, n. 26849

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Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 03/03/2010, il Tribunale di Milano condannava S.G.B. e G.C. per il reato di truffa aggravata ex art. 61 c.p., n. 7, art. 81 c.p., comma 2, artt. 110 e 640 cod. pen. per avere, in concorso tra loro e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con artifici e raggiri – consistiti nel prospettare falsamente e proporre quale vantaggioso investimento immobiliare, l’acquisto di un immobile in Milano ed in seguito di un grattacielo in Piacenza; nel sottoscrivere, al fine di dare apparente veridicità alle operazioni immobiliari, scritture private riguardanti l’acquisto dei suddetti immobili; nel fare transitare dalla società XXX s.r.l. gran parte delle somme di denaro ricevute dalla parte lesa; nel giustificare la mancata attuazione delle operazioni immobiliari e la conseguente mancata restituzione del denaro alla parte lesa quale frutto di un raggiro a loro volta subito da parte dell’amministratore della società XXX s.r.l. – indotto in errore E.P., ingenerando nello stesso la convinzione di poter partecipare alle vantaggiose operazioni di compravendita immobiliare sopra specificate, così procurandosi l’ingiusto profitto con pari danno per la parte lesa pari a circa Euro 300.000,00.
La condanna, tuttavia, era limitata alla dazione di Euro 150.000,00 effettuata dal gennaio all’aprile 2004 dalla parte offesa ai due imputati, in quanto, relativamente alla precedente consegna di L. 300.000.000 in data 20/12/2001, il giudice di primo grado aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per essersi il reato estinto per prescrizione.
Il Tribunale condannava altresì gli imputati al risarcimento dei danni a favore della costituita parte civile, liquidato equitativamente in Euro 185.000,00.
2. Con sentenza del 11/05/2012, la Corte di Appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Milano, dichiarava non doversi procedere nei confronti di S. e della G. in ordine al reato loro ascritto anche relativamente all’episodio dell’aprile 2004, essendo il reato estinto per prescrizione, e confermava nel resto la decisione impugnata.
3. Avverso la suddetta sentenza gli imputati, a mezzo del proprio comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi:
3.1. Omessa motivazione per non avere la Corte di Appello valutato nè in fatto nè in diritto le doglianze prospettate dalla difesa nell’atto di gravame, essendosi limitata alla pedissequa riproposizione della sentenza di primo grado.
3.2. Omessa, contraddittoria ed illogica motivazione ed erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. per non avere la Corte territoriale tenuto in considerazione le censure sollevate in appello concernenti le dichiarazioni della parte civile e quelle della teste M.M., dipendente della XXX s.r.l. Quanto alle prime dichiarazioni, i ricorrenti lamentano che esse non sarebbero state sottoposte ad un rigoroso vaglio di attendibilità, il cui esito negativo sarebbe evidente se solo la Corte territoriale avesse considerato le falsità dette da E. riguardo sia alla propria condizione economica ed al proprio stile di vita sia ai sospetti legami intrecciati con A.S.H., datore di lavoro della G. nonchè unico beneficiario delle somme versate dalla parte offesa. La difesa poi evidenzia l’omessa valutazione delle dichiarazioni della teste M., la quale: aveva screditato quanto affermato da A.S.H., chiarendo che la G. era solo una dipendente della XXX s.r.l.; aveva indicato in A.S.H. e nella di lui moglie gli unici gestori dei conti correnti e delle operazioni della suddetta società, escludendo il conferimento di deleghe o procure ad altri soggetti; aveva confermato l’esistenza dei cantieri di Milano e di Piacenza; aveva riferito di dissidi tra l’imputata e A.S. H., culminati nella denuncia sporta da quest’ultima nei confronti della G..
3.3. Omessa, contraddittoria ed illogica motivazione ed erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. per non avere la Corte distrettuale esteso il proprio giudizio all’eventuale sussistenza del risarcimento del danno ed alla sua quantificazione. La difesa rileva che nell’affrontare tali questioni la Corte avrebbe dovuto considerare che il denaro oggetto della pretesa truffa era confluito sui conti correnti della società XXX s.r.l. di cui era titolare A.S.H. e che nessuno degli imputati aveva la possibilità di effettuare operazioni sui suddetti conti, come provato dalla copia degli assegni provenienti dall’ E. e dalla dichiarazioni della teste M..
Motivi della decisione
1. illogicità della motivazione: con i primi tre motivi, i ricorrenti sostengono che la Corte territoriale si sarebbe limitata alla pedissequa riproposizione della sentenza di primo grado, omettendo di motivare sui motivi di gravame ed, in particolare, sull’inattendibilità delle dichiarazioni della parte offesa, sulla mancata valutazione delle dichiarazioni della teste M.M..
La doglianza, nei termini in cui è stata dedotta, è manifestamente infondata.
Non è vero, innanzitutto che la Corte abbia pedissequamente riproposto la motivazione della sentenza di primo grado: la Corte, in realtà, dopo avere illustrato i motivi di appello – identici a quelli dedotti in questa sede: cfr pag. 6-7 della sentenza impugnata – li ha puntualmente disattesi a pag. 8 ss spiegandone le ragioni.
Quanto alla pretesa inattendibilità della parte offesa, va solo osservato che i ricorrenti non hanno speso una sola parola per confutarne le dichiarazioni essendosi solo limitati ad attaccarla sotto il profilo personale non considerando che il riscontro alle dichiarazioni del teste va effettuato su quello che il medesimo dichiara e non sulle sue qualità personali perchè, se così fosse, tutta un’ampia categoria di soggetti (ad es. i collaboratori di giustizia, colpevoli di gravissimi reati) non dovrebbero mai neppure essere sentiti come testi.
In realtà, nel nostro ordinamento non esistono persone che, per il loro status, di per sè solo non possono essere sentiti come testi, in quanto, l’unico limite che il giudice incontra è quello che sussiste per ogni teste e cioè quello di vagliarne l’attendibilità:
e, nel caso di specie, la lettura combinata delle due sentenze di merito, unita all’assoluta genericità ed specificità della doglianza, indica che il suddetto vaglio è stato correttamente e congruamente effettuato da entrambi i giudici di merito.
Ugualmente dicasi per le dichiarazioni rese dalla teste M. in relazione alle quali la Corte ha chiarito che si tratta di dichiarazioni ininfluenti in quanto la teste si era "limitata a ridimensionare il ruolo svolto dalla G. nell’ambito della società XXX": ridimensionare, non escludere.
D’altra parte, la tesi difensiva diretta a far ricadere su tale A.S.E., la responsabilità della truffa è stata confutata con l’ovvia ed ineccepibile considerazione secondo la quale la sua eventuale partecipazione non produce "gli effetti di scagionare gli imputati stessi" il cui ruolo è stato ampiamente illustrato da entrambi i giudici di merito con motivazione ampia, congrua, logica ed aderente agli evidenziati elementi fattuali, sicchè la medesima si sottrae ad ogni censura di legittimità.
In altri termini, le censure, riproposte con il presente ricorso, vanno ritenute null’altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale, con motivazione logica, priva di parole e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva.
Pertanto, non essendo evidenziabile alcuna delle pretese incongruità, carenze o contraddittorietà motivazionali dedotte dal ricorrente, le censure, essendo incentrata tutte su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, vanno dichiarate inammissibili.
2. Anche l’ultima doglianza in ordine al risarcimento del danno ed alla sua quantificazione, è manifestamente infondata in quanto si fonda pur sempre su un motivo di puro merito e cioè sulla tesi difensiva secondo la quale il denaro oggetto della pretesa truffa era confluito sui conti correnti della società XXX s.r.l. di cui era titolare A.S.H., ossia quella stessa tesi ampiamente disattesa da entrambi i giudici di merito.
3. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00 ciascuno.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2013

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