Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 23-05-2013) 20-06-2013, n. 26847

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 09/12/2011, la Corte di Appello di Bari, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Bari in data 19/04/2010, dichiarava non doversi procedere nei confronti di M. A. in ordine al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex artt. 81, 110 e 640 bis cod. pen., limitatamente alle liquidazioni fino al 16/09/2003, perchè estinto per prescrizione, e la condannava per il predetto reato con riferimento alle liquidazioni del 25/02/2004, conseguentemente rideterminando la pena inflitta in primo grado.

2. Avverso la suddetta sentenza l’imputata, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo l’erronea qualificazione del fatto e l’omessa e contraddittoria motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto integrato il reato di cui all’art. 640 bis cod. pen. invece di quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. La ricorrente sostiene che, per pacifica giurisprudenza, il discrimine tra le due ipotesi delittuose è rappresentato dall’induzione in errore, elemento costitutivo che caratterizza la truffa e che vale a distinguere tale reato da quello di cui all’art. 316 ter cod. pen. Secondo la tesi difensiva, poichè le regole formali del procedimento di concessione del contributo non prevedevano alcun tipo di controllo successivo alla presentazione dell’istanza e le erogazioni sono state effettuate automaticamente sulla base della sola istanza presentata dalla M., nel caso di specie sarebbe stata posta in essere una semplice mendacio o di reticenza, tale da non aver indotto in errore l’ente pubblico.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è manifestamente infondato per le ragioni di seguito indicate.

2. In ordine al rapporto fra l’art. 640 bis c.p. – art. 640 c.p., comma 2, n. 1 – art. 316 ter c.p., questa Corte (ex plurimis Cass. 21609/2009 – Cass. 8613/2009 riv 243313 – Cass. 1162/2008 riv 242717 – Cass. 32849/2007 riv 236966 – Cass. 45422/2008 riv 242302 – Cass. 10231/2006 riv 233449 – Cass. 23623/2006 riv 234996 – SSUU 7357/2010 – Cass. sez. 2, 8/03/2011, Zampagliene), ha avuto modo di affermare che la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p. ha carattere residuale rispetto alla fattispecie della truffa aggravata e non è con essa in rapporto di specialità, sicchè ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni dovute) può concorrere ed integrare gli artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa, ove di questa fattispecie criminosa siano integrati gli altri presupposti.

Al riguardo si è infatti posto in evidenza come la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla tematica de qua, nella ordinanza n. 95 del 2004, dopo aver rammentato la coincidenza della questione con quella in passato sollevata per la previsione punitiva di cui alla L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2, ha rilevato che "il carattere sussidiario e "residuale" dell’art. 316 ter c.p., rispetto all’art. 640 bis c.p., – a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda – costituisce dato normativo assolutamente inequivoco".

Ha in tal modo escluso la automatica sovrapponibilità delle condotte individuate nell’art. 316 ter c.p. (dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere) con quelle di cui all’art. 640 c.p., cioè con gli artifici e raggiri. Ha tuttavia espressamente riservato all’"ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall’art. 316 ter c.p., integri anche la figura descritta dall’art. 640 bis c.p., facendo applicazione in tal caso solo di quest’ultima previsione punitiva". E ciò perchè la stessa Corte ha ritenuto evidente, anche in ragione delle preoccupazioni espresse dal legislatore nel corso dei lavori parlamentari, che l’art. 316 ter c.p. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall’art. 640 bis c.p., "coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento, – per difetto – dal paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese". Ciò sta dunque a significare che nella valutazione della fattispecie concreta è rimesso al giudice stabilire se la condotta che si è risolta in una falsa dichiarazione, per il contesto in cui è stata formulata, ed avuto riguardo allo specifico quadro normativo di riferimento nella cui cornice il fatto si è realizzato, integri l’artificio di cui all’art. 640 c.p. e se da esso sia poi derivata l’induzione in errore di chi è chiamato a provvedere sulla richiesta di erogazione. La condotta descritta dal richiamato art. 316 ter c.p. si distingue, dunque, dalla figura delineata dall’art. 640 bis c.p. per le modalità, giacchè la presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere deve essere "fatto" strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, e si distingue altresì per l’assenza di induzione in errore.

La sussistenza, dunque, della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall’altro, non possono che formare oggetto di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzano la vicenda in concreto: in terminis SSUU le quali con la sentenza n 16568/2007 riv 235962, hanno proprio affermato che "(….) l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. si riduce così a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale".

Il suddetto principio è stato ribadito da ultimo dalle SSUU con la sentenza n. 7357/2010 le quali hanno chiarito che la truffa va ravvisata solo ove l’ente erogante sia stato in concreto "circuito" nella valutazione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi.

3. Orbene, applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie in esame, deve allora concludersi per la manifesta infondatezza del ricorso.

Infatti, la Corte territoriale, ha individuato nella condotta tenuta dalla ricorrente un quid pluris – rispetto alla semplice presentazione di un’autocertificazione inveritiera (comportamento già previsto e sanzionato dall’art. 316 ter c.p.) – che lo ha caratterizzato e qualificato come un comportamento di natura fraudolenta.

La ricorrente, infatti, come risulta pacificamente dall’accertamento in punto di fatto effettuato dalla Corte territoriale, non si limitò alla presentazione di false dichiarazioni sostitutive di notorietà, ma predispose anche "un falso contratto di fitto che aveva lo scopo di documentare e provare, sia pure a posteriori, a seguito della verifica amministrativa a campione, la sussistenza dei presupposti per l’ottenimento dei contributi, sicchè il quid pluris consta nella formazione ed esibizione del falso contratto di affitto e si è quindi realizzato attraverso una condotta di formazione artificiosa di documenti, La prevenuta non si è limitata alla presentazione di mendaci dichiarazioni in ordine alla disponibilità e conduzione dei fondi, così semplicemente attestando fatti non conformi al vero, ma ha fatto predisporre la relativa relazione tecnico agronomica e ha, per di più, costituito un atto falso al fine di documentare la conduzione in fitto dei terreni per i quali chiedeva l’erogazione del contributo".

Si tratta di motivazione ineccepibile in quanto la Corte territoriale ha puntualmente applicato i suddetti principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità: di conseguenza, la censura va ritenuta manifestamente infondata proprio perchè la ricorrente non si è limitò a produrre delle false autocertificazioni ma predispose, al fine di ingannare le autorità preposte al controllo, anche una "relazione tecnico agronomica e ha, per di più, costituito un atto falso al fine di documentare la conduzione in fitto dei terreni per i quali chiedeva l’erogazione del contributo": la circostanza che i controlli furono effettuati successivamente, è una circostanza del tutto irrilevante ai fini della configurabilità del reato.

Alla declaratoria d’inammissibilità consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2013

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