Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 10-08-2012, n. 14366

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Svolgimento del processo

M.A. ha convenuto dinanzi al Tribunale di Roma il Ministero degli Affari Esteri chiedendo, ai sensi del D.Lgs. n. 103 del 2000, artt. 154 e segg., per le mansioni esecutive svolte presso l’Ambasciata Italiana a Teheran dal primo settembre 1991 con contratto a tempo indeterminato, regolato dalla legge locale, e successivamente con contratto con decorrenza primo maggio 2001, i medesimo trattamento retributivo e la medesima qualifica dei dipendenti dell’Ambasciata d’Italia a Teheran che svolgevano le stesse mansioni ed erano stati assunti con contratto disciplinato dalla legge italiana; in via subordinata il riconoscimento del diritto a percepire la retribuzione annua di lire 49.400.000.

Il Tribunale ha declinato la giurisdizione e la Corte di appello ha respinto il gravame con sentenza del 10 dicembre 2009 sulle seguenti considerazioni: 1) la L. n. 218 del 1995, artt. 3 e 4, invocati dalla M. per la giurisdizione del giudice italiano, erano derogati dalla successiva legge speciale L. 7 aprile 2000, n. 103, art. 154 secondo cui "Per quanto non espressamente disciplinato dal presente titolo i contratti sono regolati dalla legge locale. Fermo quanto disposto in materia dalle norme di diritto internazionale generale e convenzionale, competente a risolvere le eventuali controversie che possono insorgere dall’applicazione del presente decreto è il foro locale", norma da interpretare nel senso che il diritto internazionale e convenzionale è da intendere riferito alle norme sostanziali, diversamente essendo superflua la norma che attribuisce la competenza al giudice locale; 2) l’art. 6 della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 secondo cui: "in deroga all’art. 3 nei contratti di lavoro la scelta della legge applicabile ad opera delle parti non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta" è anch’esso riferibile alla disciplina sostanziale del rapporto.

Ricorre per cassazione M.A. cui resiste il Ministero degli Affari Esteri.

Motivi della decisione

1.- Con un unico motivo la ricorrente deduce: "Violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 3 e 4, del D.P.R. n. 18 del 1967, art. 154 nel testo modificato dal D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 per motivi attinenti alla giurisdizione".

Assume la ricorrente che la prima parte del precitato art. 154, sia letteralmente che per la ratio sottesa, si riferisce alla legge sostanziale, mentre la seconda parte alla giurisdizione. Peraltro la L. n. 218 del 1995, art. 4 consente la deroga alla giurisdizione interna purchè la clausola sia approvata per iscritto e non abbia ad oggetto diritti indisponibili, come il diritto alla retribuzione non inferiore al minimo sindacale ed il divieto di reformatio in peius.

La L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 2 in materia di lavoro ha rinviato alla Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla competenza giurisdizionale, il cui art. 5, comma 1, prevede la disciplina applicabile per le controversie derivanti dai contratti individuali di lavoro, fermo il criterio generale del foro del convenuto di cui all’art. 2 della convenzione, sostituito dal Regolamento comunitario n. 44 del 2001. Nella specie il Ministero convenuto è domiciliato in Italia, e quindi su territorio di uno Stato contraente, ed è stato citato dinanzi all’autorità giudiziaria del medesimo Stato, come previsto dal suddetto art. 2, e del resto anche la Corte di Giustizia ha stabilito che quando l’obbligazione di lavoro deve esser adempiuta fuori del territorio dello Stato è da escludere l’applicabilità dell’art. 5 e opera il criterio generale del foro del domicilio del convenuto. La convenzione del 1968, in sede di revisione nel 1989, aveva introdotto la clausola secondo cui la deroga della competenza giurisdizionale doveva esser approvata per iscritto dopo l’insorgere della controversia tra lavoratore e datore di lavoro e tale principio è stato ribadito dall’art. 21, Sezione 5 del Regolamento n. 44 del 2001, secondo cui il lavoratore può scegliere tra il foro del convenuto e quello a lui più vicino e questa regola può esser derogata soltanto da una convenzione successiva alla controversia o da una norma che consenta al lavoratore di adire un giudice diverso o comunque se è più favorevole al lavoratore. Perciò la clausola intercorsa tra M.A., cittadina italiana, ed il datore di lavoro, nel contratto del maggio 2001, che non risponde a nessuno di detti requisiti, è invalida, anche alla luce del D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 154 che fa salva la disciplina convenzionale internazionale e quindi prevale il Regolamento comunitario, direttamente applicabile nell’ordinamento interno. Un’interpretazione diversa del precitato articolo inoltre non potrebbe neppure esser sindacata dalla Corte Costituzionale perchè non rimettibile dal giudice straniero, in tal modo sottraendo al relativo controllo i rapporti di lavoro di dipendenti dello Stato. Peraltro una pronuncia del giudice iraniano sarebbe virtuale perchè ineseguibile stante l’immunità diplomatica.

Il motivo è fondato.

La disciplina di riferimento è la seguente.

La L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 3 recita: "La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto … è domiciliato in Italia".

Il D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, art. 152, vigente all’atto dell’assunzione nel 1991 di M.A. prevedeva:

"L’amministrazione degli Affari Esteri può assumere .. personale a contratto per le esigenze delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari di prima categoria. Gli impiegati a contratto svolgono mansioni di concetto, esecutive e ausiliarie. Essi sono assunti tra i cittadini italiani … oppure tra stranieri".

Successivamente questa norma è stata sostituita dal D.Lgs. 7 aprile 2000, n. 103, art. 1 secondo cui: "Le rappresentanze diplomatiche, gli uffici consolari di prima categoria e gli istituti italiani di cultura possono assumere personale a contratto per le proprie esigenze di servizio, previa autorizzazione dell’Amministrazione centrale…. Gli impiegati a contratto svolgono le mansioni previste nei contratti individuali, tenuto conto dell’organizzazione del lavoro esistente negli uffici all’estero. Il contratto di assunzione è stipulato a tempo indeterminato, con un periodo di prova di nove mesi, alla scadenza del quale, sulla base di una relazione del capo dell’ufficio, si provvede a disporre la conferma o la risoluzione del contratto".

Il D.Lgs. 7 aprile 2000, n. 103, art. 2, comma 1 ha stabilito che: "I contratti in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del presente decreto, fatto salvo quanto disposto dal comma 2, continueranno ad applicarsi finchè gli uffici all’estero non provvederanno a stipulare, previa autorizzazione ministeriale e comunque non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto, nuovi contratti che recepiscano le disposizioni di cui al decreto stesso" e perciò la ricorrente nel 2001 ha stipulato un nuovo contratto.

A questo si applica il D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, art. 154, come sostituito dal D.Lgs. 7 aprile 2000, n. 103, art. 1 (Regime dei contratti), in base al quale: "- Per quanto non espressamente disciplinato dal presente titolo, i contratti sono regolati dalla legge locale. Fermo restando quanto disposto in materia dalle norme di diritto internazionale generale e convenzionale, competente a risolvere le eventuali controversie che possano insorgere dall’applicazione de presente decreto è il foro locale".

E poichè questa norma fa salva la disciplina comunitaria, per stabilire la giurisdizione si applica il Regolamento del 2001 n. 44 adottato dal Consiglio CEE in data 22 dicembre 2000, il cui art. 18, comma 2, stabilisce: "Qualora un lavoratore concluda un contratto individuale di lavoro con un datore di lavoro che non sia domiciliato in uno Stato membro, ma possieda una succursale, un’agenzia o qualsiasi altra sede di attività in uno Stato membro, il datore di lavoro è considerato, per le controversie relative al loro esercizio, come avente domicilio nel territorio di quest’ultimo Stato".

L’art. 19 prosegue: "Il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno Stato membro può essere convenuto: 1) davanti ai giudici dello Stato membro in cui è domiciliato o 2) in un altro Stato membro: a) davanti al giudice del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente, o b) qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese, davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede d’attività presso la quale è stato assunto.

L’art. 21 statuisce: "Le disposizioni della presente sezione possono essere derogate solo da una convenzione: 1) posteriore al sorgere della controversia, o 2) che consenta al lavoratore di adire un giudice diverso da quelli indicati nella presente sezione".

In base all’art. 23, seconda parte: "La clausola attributiva di competenza deve essere conclusa: a) per iscritto o oralmente con conferma scritta". L’art. 60 specifica:" Ai fini dell’applicazione del presente regolamento una società o altra persona giuridica è domiciliata nel luogo in cui si trova: a) la sua sede statutaria, o b) la sua amministrazione centrale, oppure c) il suo centro d’attività principale".

Pertanto dalla suesposta disciplina M.A. aveva la facoltà di scegliere, indifferentemente, il foro locale contrattuale o quello del domicilio del convenuto Ministero degli Affari Esteri – con cui si era costituito il rapporto di lavoro – non potendo alla clausola di deroga alla competenza giurisdizionale convenuta nel contratto essere riconosciuta l’efficacia di vincolare il prestatore di lavoro, perchè si tratta di clausola anteriore al sorgere della controversia, come evidenziato in narrativa, e perchè avrebbe non l’effetto di consentire, ma di imporre al lavoratore di rivolgersi ad un giudice diverso da quello che gli consente l’art. 19, comma 1.

Perciò, e anche perchè secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, assume rilevanza, quale criterio generale di radicamento della competenza giurisdizionale del giudice italiano, il dato oggettivo del domicilio o della residenza in Italia del convenuto, anche a prescindere dalla nazionalità dello stesso: "Nel vigente sistema di diritto internazionale privato (legge 31 maggio 1995, n. 218) – essendo venuto meno, a seguito dell’abrogazione dell’art. 4 cod. proc. civ., ogni riferimento allo straniero ai fini della determinazione dell’ambito della giurisdizione del giudice italiano – assume rilevanza, quale criterio generale di radicamento della competenza giurisdizionale del giudice italiano, solo il dato obiettivo del domicilio o della residenza del convenuto in Italia, senza che possa più farsi distinzione tra convenuto italiano o straniero" (S.U. 12907 del 2011), ha legittimamente adito l’autorità giudiziaria italiana.

Il ricorso va quindi accolto, va dichiarata la giurisdizione del giudice italiano e la sentenza impugnata va cassata.

La causa va rimessa al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ai sensi dell’art. 382 cod. proc. civ..

Il Tribunale si pronuncerà altresì sulle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice italiano, cassa la sentenza impugnata e rimette la causa al Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, anche per le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2012

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