Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-08-2012, n. 14459

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 16.3.07 la Corte d’appello di Salerno, in riforma della pronuncia di prime cure emessa il 5.5.05 dal Tribunale di Vallo della Lucania, ritenuta illegittima l’apposizione del termine al contratto di lavoro intercorso dal 12.4.2000 fra V. C. e la Comunità Montana Gelbison e Cervati per la realizzazione di alcune specifiche opere e per servizi particolari come quello antincendio boschivo, dichiarava l’esistenza dalla predetta data d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fra le parti, con le relative conseguenze economiche a decorrere dalla notifica del ricorso di primo grado.

Statuivano i giudici d’appello la nullità dell’apposizione del termine in quanto non adottata con la dovuta forma scritta, a tal fine non potendo valere quella relativa al precedente contratto a termine dell’8.6.99.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la Comunità Montana Gelbison e Cervati affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso il C..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 18 Stat., L. n. 230 del 1962, art. 1, art. 1362 c.c. e segg, artt. 1322 e 1341 c.c. e art. 112 c.p.c. laddove la gravata pronuncia, nell’interpretare il contratto stipulato l’8.6.99, non ha tenuto conto della comune intenzione dei contraenti, nonchè vizio di motivazione per avere la Corte territoriale ritenuto che le parti, nel precedente contratto a termine pattuito per iscritto, avessero previsto solo un futuro diritto di prelazione anzichè inteso perfezionare sin da allora idoneo accordo scritto per la successiva assunzione a termine, poi verificatasi il 12.4.2000.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1 e L. n. 56 del 1987, art. 23 per non avere la gravata pronuncia sancito l’inapplicabilità della prima legge ai rapporti di lavoro agricolo come quello svoltosi inter partes, dovendosi intendere la L. n. 230 del 1962, art. 6 come esteso anche ai rapporti di cui al CCNL 1999-01 per gli addetti alle attività di rimboschimento e prevenzione incendi riservate alle Regioni e da queste delegate alle Comunità Montane.

Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione relativamente alla nullità parziale del patto di durata temporanea del contratto in oggetto, con sostituzione automatica con la norma imperativa di durata a tempo indeterminato.

Con il quarto ed ultimo motivo di censura si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. e segg., art. 2941 c.c., art. 2697 c.c. e L. n. 230 del 1962, art. 1 nonchè vizio di motivazione, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto in mora accipiendi la Comunità Montana per effetto della notifica del ricorso introduttivo del giudizio da parte del C., per altro senza considerare l’aliquid retentum per le retribuzioni percepite negli anni successivi e per indennità di disoccupazione.

2- Premesso che nel caso di specie non si pone questione di esatta natura giuridica del rapporto perchè non investita dai temi oggetto di ricorso, osserva la Corte che il primo motivo è inammissibile per incongruità del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis al caso di specie) rispetto sia alla ratio decidendi dell’impugnata sentenza sia alle argomentazioni svolte nel corpo del motivo medesimo.

Per la precisione, il primo quesito formulato in ordine alla pretesa violazione dell’art. 18 Stat. concerne l’inapplicabilità delle norme limitative dei licenziamenti di cui alle L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970, inapplicabilità confermata dalla stessa Corte territoriale.

Quanto alla violazione della L. n. 230 del 1962 e dei canoni di ermeneutica previsti dal c.c. e al vizio di motivazione, sostanzialmente la doglianza chiede una nuova lettura nel merito del tenore del contratto stipulato inter partes l’8.6.99 per ravvisarvi una pattuizione del termine relativo al successivo contratto (quello del 12.4.2000) che, invece, l’impugnata sentenza ha negato con motivazione immune da vizi logico-giuridici; in essa ha valorizzato non solo il dato testuale contenuto nel precedente contratto a termine (quello del 1999), ma soprattutto l’indiscutibile rilievo che in esso mancava qualsiasi aggancio – esplicito od implicito – per individuare la scadenza del futuro nuovo rapporto a tempo indeterminato.

Il secondo motivo è manifestamente infondato per l’assorbente rilievo che l’esenzione dall’applicabilità delle norme di cui alla L. n. 230 del 1962 prevista dal relativo art. 6 concerne soltanto le imprese definibili come agricole ai sensi dell’art. 2135 c.c. (cfr., da ultimo, Cass. 14.7.11 n. 15494; conf. Cass. 27.10.2000 n. 14232) e tali non sono le Comunità Montane.

Il terzo motivo è inammissibile, collocandosi all’esterno dell’area dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; infatti, il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v.

art. 384 c.p.c., u.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

Nel caso di specie non ci si duole di immotivata, illogica o contraddittoria ricostruzione d’un fatto, inteso nella sua accezione fenomenica, bensì delle conseguenze in punto di diritto desunte dalla Corte territoriale da fatti che la stessa ricorrente definisce come "pacifici" (v. pag. 19 del ricorso).

Nè alla ricorrente gioverebbe interpretare il motivo come sostanziale deduzione di una violazione di norme di diritto, in tale evenienza risultando il motivo stesso inammissibile per difetto del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c..

In ordine al quarto motivo, sull’aliquid retentum osserva questa S.C. che si tratta di nuova allegazione in fatto, in quanto tale inammissibile.

Relativamente, poi, alla mora accipiendi, la doglianza della ricorrente è comunque superata dall’applicazione d’ufficio, come sollecitato nelle conclusioni del PG, dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 che prevede una tutela risarcitoria quantificata secondo parametri diversi in caso di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.

Invero, nelle more della trattazione del ricorso è intervenuto la L. n. 183 del 2010, art. 32 che al comma 5 così dispone: "Nei casi di conversione del contralto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento dei lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8".

Il successivo comma 7 stabilisce che "Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per lutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.".

Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n. 16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purchè pertinente rispetto alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne deriva che – ove siano contestate le conseguenze economiche della nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro – è necessario che i motivi del ricorso, purchè ammissibili, investano specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine medesimo.

Nel caso di specie, il sopra ricordato motivo concernente la mora accipiendi del datore di lavoro si ripercuote direttamente sulle conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato il 12.4.2000 fra le odierne parti, di guisa che il cit. ius superveniens va applicato anche al presente giudizio di legittimità.

Nel particolare dell’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 e 7 anche ai giudizi di legittimità, questa S.C. si è già pronunciata con ordinanza n. 2112 del 28.1.2011 e, proprio sulla scorta di tale assunto, Corte cost. n. 303/2011 ha poi ammesso la rilevanza – anche se non la fondatezza – della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Pur essendo la citata sentenza della Corte cost. vincolante solo nel giudizio a qua (trattandosi di pronuncia di rigetto), restano tuttavia insuperate le considerazioni svolte dalla summenzionata ordinanza n. 2112/2011 di questa Corte Suprema, che qui vanno sviluppate mediante un’interpretazione costituzionalmente conforme.

Orbene, per quanto il tenore testuale del co. 5 del cit. art. 32 – riferendosi alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado oppure innanzi a questa S.C..

E poichè una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava del D.Lgs. 6 settembre 2001 n. 368, art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 21, comma 1 bis, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133), a fortiori lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3 Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della legittimità.

Nè la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.

In proposito si muova dal rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del comma 7, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5 e 6 a tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens sancita nel primo periodo del comma.

In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa applicazione in sede di legittimità dell’art. 32, comma 5 cit.) che il giudice del rinvio può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, secondo periodo.

Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato che il divieto di nova in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. comma 2 dell’art. 437 c.p.c. poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda ancora in tale fase.

Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437 c.p.c. o come divieto di applicazione del comma 5 dell’art. 32 ai giudizi pendenti in appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto), è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che, invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo) valorizzando l’inciso "ove necessario" e il valore disgiuntivo/inclusivo (di operatore logico booleano "Or") della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma 7 del cit. art. 32 ("ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.").

L’inciso "ove necessario" dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice dell’interprete.

Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, mentre in appello – proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno consentiti solo questi ultimi.

In breve, il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. art. 32 è applicabile anche in sede di legittimità.

Di conseguenza, deve accogliersi nei termini sopra chiariti il quarto motivo di ricorso.

5- In conclusione, si accoglie il quarto motivo di ricorso, si rigettano gli altri e si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio – anche per le spese – alla Corte d’appello di Napoli, che provvedere soltanto sulle conseguenze economiche, ai sensi dell’art. 32 cit., della riconosciuta sussistenza del rapporto a tempo indeterminato inter partes e sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2012

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