Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-08-2012, n. 14458

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con sentenza pubblicata il 17.7.06 la Corte d’appello di Torino rigettava il gravame interposto dall’INPDAP – Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica – contro la sentenza n. 4846/04 con cui il Tribunale della stessa sede aveva riconosciuto il diritto di M.E. all’inquadramento contrattuale nell’Area B, posizione funzionale B1, profilo professionale di operatore amministrativo ai sensi del CCNL enti pubblici economici del 16.2.99, in luogo dell’inquadramento in area A, livello A2, profilo professionale di archivista, applicatole dall’INPDAP a seguito del passaggio alle proprie dipendenze per effetto di mobilità esterna volontaria L. n. 449 del 1997, ex art. 53, comma 10 (passaggio preceduto da un periodo di comando) della suddetta lavoratrice (proveniente da Poste Italiane).

Ritenevano i giudici di merito la non corrispondenza tra l’inquadramento contrattuale di provenienza e quello di destinazione e ciò nonostante quanto statuito dal D.P.C.M. 18 ottobre 1999, da disapplicarsi perchè illegittimo.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’INPDAP affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso la M..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 1321 c.c. e segg. – anche con riferimento al D.P.C.M. 18 ottobre 1999 -, del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 1, 6 e 8 e della L. n. 449 del 1997, art. 53, comma 10 nonchè vizio di motivazione, nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto di sottoporre a verifica l’equivalenza tra l’inquadramento applicato dall’INPDAP alla M. e quello da lei goduto presso l’ente di provenienza, nonostante che tale equivalenza fosse stata già affermata con il cit. D.P.C.M. di trasferimento.

Il motivo è inammissibile per inidoneità del quesito ex art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis nel caso di specie (vista la data di deposito della pronuncia impugnata).

Si premetta che il quesito di diritto non deve essere formulato in termini tali da richiedere una previa attività, interpretativa ed integrativa del quesito medesimo, la cui formulazione imponga alla Corte di sostituirsi al ricorrente mediante integrazione con le censure illustrate nel motivo. In proposito il ricorrente deve necessariamente procedere all’enunciazione di un principio di diritto diverso da quello posto a base della decisione impugnata, sicchè il quesito non può risolversi in una generica istanza di decisione sull’esistenza della denunciata violazione di legge o nell’interpello della Corte Suprema in ordine alla fondatezza della censura illustrata, ma deve porre i giudici di legittimità in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris, in quanto tale suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello esaminato (cfr., e pluribus, Cass. S.U. n. 25117/2008).

Orbene, non soddisfa la predetta prescrizione il quesito di diritto elaborato a corredo dell’illustrazione del motivo il cui tenore ("Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se, nell’ipotesi di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 53, comma 10 e di successivo trasferimento ed inquadramento, la corretta applicazione dei canoni di ermeneutica contrattuale contenuta nell’art. 1362 c.c. e segg.

nell’interprelazione di un bando di selezione indetto da un Ente Pubblico non Economico – ove è attribuito punteggio alla esperienza professionale posseduta nell’Amministrazione di provenienza – limiti tale riferimento alle Amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2 e successive modificazioni"), perchè non censura la ratio decidendi nè propone una regula iuris, ma richiede un’inammissibile interpretazione del testo del bando da parte di questa Corte Suprema.

Quanto al dedotto vizio di motivazione, premesso che, in realtà, la doglianza non riguarda la ricostruzione di "fatti" (intesi nella loro accezione fenomenica) controversi, ma mere valutazioni, alla stregua delle norme di diritto applicabili, di un fatto in sè pacifico (il tenore letterale del bando di selezione), si tenga presente che il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 619 c.p.p., comma 1), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire (cfr. Cass. Sez. 4 n. R.G. n. 6243 del 7.3.88, dep. 24.5.88, rv. 178442, resa sotto l’imperio del previgente c.p.p., ma pur sempre valida e confermata, anche di recente, da Cass. Sez. 2 n. 3706 del 21.1.2009, dep. 27.1.2009, rv.

242634).

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

Ma nel caso in oggetto si è già evidenziato che la questione di diritto è rimasta inibita dall’inidonea formulazione del quesito ex art. 366 bis c.p.c..

2- Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63 nonchè vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale ha disapplicato il D.P.C.M. 18 ottobre 1999 nonostante la natura discrezionale della valutazione di equivalenza tra l’inquadramento contrattuale di provenienza e quello di destinazione, valutazione – dunque – di merito, in quanto tale sottratta al sindacato giurisdizionale e, comunque, non suscettibile di disapplicazione senza espressa e specifica menzione del ritenuto vizio di legittimità.

Il motivo è infondato.

In ordine al supposto vizio di motivazione, valgano le stesse considerazioni sopra svolte.

Circa, poi, la dedotta violazione o falsa applicazione di legge, essa è ormai smentita dalla giurisprudenza espressa dalle S.U. di questa S.C. – cui va data continuità anche nella presente sede – secondo la quale in tema di mobilità del personale, con riferimento al trasferimento del lavoratore dipendente di Poste Italiane all’INPDAP, presso il quale si trovava già in posizione di comando, effettuato ai sensi del D.L. 12 magio 1995, n. 163, art. 4, comma 2 convertito in L. 11 luglio 1995, n. 273, verificandosi solo un fenomeno di modificazione soggettiva del rapporto medesimo assimilabile alla cessione del contratto, compete all’ente di destinazione l’esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, senza che su tali profili possa operare autoritativamente la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il cui D.P.C.M. 7 novembre 2000 – atto avente natura amministrativa, in quanto proveniente da una autorità esterna al rapporto di lavoro – non assolve alla funzione di determinare la concreta disciplina del rapporto di lavoro, mancando un fondamento normativo all’esercizio di un siffatto potere, ma solamente a quella di dare attuazione alla mobilità (volontaria) tra pubbliche amministrazioni. Ne consegue che le equiparazioni contenute nel citato D.P.C.M. non hanno efficacia vincolante, dovendosi ritenere giuridicamente giustificata la verifica compiuta dal giudice di merito sulla correttezza dell’inquadramento spettante al lavoratore, sulla base dell’individuazione, nel quadro della disciplina legale e contrattuale applicabile nell’amministrazione di destinazione, della qualifica maggiormente corrispondente a quelle di inquadramento prima del trasferimento.

Dunque, correttamente i giudici di merito hanno verificato la correttezza dell’inquadramento spettante alla M. alla luce della qualifica maggiormente corrispondente a quelle di inquadramento prima del suo passaggio, in via di mobilità esterna, all’INPDAP. 3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 30,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA, con distrazione in favore dell’avv. Carapelle, antistatario.

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2012
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