Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 23-05-2013) 18-06-2013, n. 26440

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 24/5/2011, dichiarava M.F.A. responsabile del reato di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1, n. 2, commesso in danno di D.N.P. e S.M.E., e lo condannava alla pena di anni 6 di reclusione, con applicazione delle pene accessorie, nonchè alla rifusione in favore della costituita p.c. D.N., i danni liquidati equitativamente in Euro 5.000,00.

La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sull’appello interposto nell’interesse del prevenuto, con sentenza del 25/5/2012, considerati i fatti contestati nella sola previsione di cui all’art. 609 bis c.p., comma 1, in parziale riforma del decisum di prime cure, concesse le attenuanti generiche, ha ridotto la pena ad anni 4 e mesi 6 di reclusione, con conferma nel resto.

Propone ricorso per cassazione la difesa dell’imputato, con i seguenti motivi:

-violazione di legge ed erronea applicazione dell’art. 609 bis c.p., comma 1, nonchè erronea interpretazione degli atti insidiosi e repentini, in quanto nessuna delle circostanze indicate dal giudice di merito può essere ricondotta nella nozione di violenza, neppure intesa in senso lato, nè alla coartazione. Peraltro, non sono stati ravvisati nella ricostruzione delle vicende atti repentini ed insidiosi;

-vizio di motivazione in ordine alle ragioni poste a supporto della ritenuta concretizzazione del reato e del giudizio di colpevolezza dell’imputato;

-le deposizioni delle presunte vittime sono state totalmente travisate dalla Corte territoriale: da esse si desume il consenso delle donne, in particolare, al rapporto intrattenuto con il prevenuto, per quanto attiene alla D.N., e ai toccamenti per quanto attiene alla S.. Nessuna azione repentina da parte del M. è dato rilevare, conseguentemente, è insussistente il reato contestato;

-ha errato la Corte territoriale nel non concedere la attenuante di cui all’art. 609 bis cod. pen., comma 3;

-va rilevata in ogni caso la improcedibilità ex art. 129 c.p.p., comma 1; per entrambi i fatti contestati non è stata mai sporta querela e la procedibilità di ufficio deriva dalla connessione, ex art. 609 septies c.p., comma 4, n. 4, con i reati oggetto di imputazione a carico del M. nel procedimento penale pendente davanti al Tribunale Bari, definitosi in data 16/7/12, con sentenza assolutoria in relazione ai reati ex artt. 613 e 640 cod. pen..

Con memoria inoltrata in atti la difesa del prevenuto ha allegato la motivazione della predetta pronuncia, ribadendo la eccezione sollevata con l’ultimo motivo di ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

Il vaglio di legittimità, a cui è stata sottoposta l’impugnata pronuncia, in correlato al contestuale esame dei primi due motivi di annullamento, formulati in ricorso, permette di rilevare il vizio motivazionale in cui è incorso il giudice di merito in ordine alla ricostruzione dei fatti e all’inquadramento di essi nella fattispecie del reato di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis cod. pen., comma 1.

Ad avviso della Corte territoriale deve ritenersi che gli atti sessuali, posti in essere dal M. ai danni della D.N. e della S., siano stati compiuti con violenza.

Sul punto il decidente, richiamandosi ad una pronuncia di questa Corte (sent. 6643/2010), evidenzia che il concetto di violenza non va inteso nel senso ristretto di esplicazione di una vis fisica o coazione materiale diretta alla persona quale strumento di compressione dell’altrui volere: la nozione, calata nella ipotesi del reato di cui trattasi, ha un’ampia accezione tecnico-giuridica e ricomprende non solo l’energia fisica ma qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che abbia come ricaduta la limitazione della libertà del soggetto passivo, costretto, contro la sua volontà, a subire atti sessuali.

Conseguentemente, ad avviso del giudicante, nel caso in esame sussiste violenza perchè si è trattato di atti insidiosi, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo, ponendolo nella impossibilità di difendersi, in quanto compiuti con l’inganno: il M., nel caso della D.N., ha prospettato alla donna un "seminario" per convincere la stessa a sottoporsi a toccamenti, per poi, repentinamente, tramutare i toccamenti in atti sessuali, tant’è che la parte offesa ha significativamente riferito di non sapere spiegare come fosse giunta a praticare un coito orale all’imputato;

nel caso della S., il prevenuto, ponendo in essere la identica condotta, ha tramutato gli iniziali toccamenti in atti sessuali, consistiti nel mettere la propria mano sul pube della donna.

Il principio generale in ordine alla sussistenza del reato ex art. 609 bis c.p., comma 1, richiamato dalla Corte di merito è del tutto esatto.

Va osservato; infatti, che in assenza di definizione legislativa della espressione "atti sessuali" la giurisprudenza di legittimità ha individuato una serie di criteri validi per una adeguata determinazione della fattispecie legale, riassumibili nella indifferenza penale della natura delle manifestazioni della libertà sessuale quando queste non tocchino la libertà altrui, e della riconducibilità alla nuova espressione, oltre che del coito di qualsiasi natura, anche di ogni atto diretto e idoneo a compromettere la libertà della persona attraverso l’eccitazione o il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente; sicchè essa viene a comprendere tutti gli atti che, secondo il senso comune e la elaborazione giurisprudenziale, esprimono l’impulso sessuale dell’agente con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo.

Ne consegue che la configurabilità del reato non dipende dalla interpretazione soggettiva del giudicante, ma è legata alla contestuale presenza di un requisito soggettivo (il fine di concupiscenza, ravvisabile anche nel caso non si ottenga il soddisfacimento sessuale) e di un requisito oggettivo, consistente nella concreta idoneità della condotta a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e a suscitare o a soddisfare la brama sessuale dell’agente; sicchè rientrano tra gli atti sessuali anche i toccamenti, i palpeggiamenti e gli sfregamenti sulle parti intime delle vittime, posti in essere dall’agente in maniera subdola e repentina (Cass. 28/1/2011, n. 3074;

Cass. 9/3/2011, n. 16706; Cass. 27/1/04, n. 6945; Cass. n. 44246/2005, Borselli).

Orbene, va rilevato, però, che nel caso in esame la ricostruzione dei fatti, come rappresentata dalle vittime, e ritenuta attendibile dalla Corte distrettuale, contrasta con la concretizzazione della fattispecie delittuosa, ut supra esaminata, in quanto, sia nell’episodio attinente alla D.N., sia in quello riguardante la S., non è dato ravvisare alcun elemento che possa permettere di ritenere che l’imputato abbia compiuto atti subdoli o repentini, viste le circostanze di tempo e di luogo in cui i fatti si sono verificati. Il decidente omette ogni ragionevole giustificazione sul punto: le donne, infatti, si sono interattenute a pranzare in appartamento con l’imputato, fermandosi per diverse ore, non rifiutando di farsi toccare e palpeggiare dallo stesso; peraltro, nel caso della D.N. fu consumato un rapporto orale, mentre nel caso della S., allorchè costei si rifiutò di praticare al M. identico coito, quest’ultimo desistette dal proposito manifestato.

In dipendenza delle superiori considerazioni risulta, dunque, illogica la conclusione a cui è pervenuto il giudice di seconde cure, col ritenere concretizzato il reato ex art. 609 bis c.p., comma 1.

Pertanto, questa Corte ritiene di dovere annullare con rinvio la impugnata sentenza, affinchè il giudice ad quem proceda ad un nuovo esame, tenendo conto di quanto osservato e dei richiamati principi, in materia affermati, dalla giurisprudenza di legittimità.

Gli ulteriori motivi si ritengono assorbiti.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Milano, altra sezione.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 18 giugno 2013

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