Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-08-2012, n. 14451

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Svolgimento del processo
1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Roma O.S., impugnava il licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 1.10.01 da XXX s.p.a., società finanziaria di cui era stato dipendente con mansioni di capo area per il Centro-Sud, sostenendo l’insussistenza dei comportamenti ascritti e chiedendo la reintegrazione ed il risarcimento del danno. Nello stesso contesto citava in giudizio personalmente C.R., rappresentante legale di una società collegata a XXX, chiedendo che anch’egli fosse condannato a risarcire i danni dell’illegittimo licenziamento, in quanto con dichiarazioni non veritiere aveva ad esso dato causa.
2.- Rigettata la domanda, O. proponeva appello lamentando la tardività e la genericità delle contestazioni disciplinari, la nullità del recesso perchè motivato da motivo illecito, ribadendo altresì la responsabilità del C.. Costituiti gli appellati, la Corte d’appello di Roma con sentenza 17.04.07 rigettava l’impugnazione.
La Corte evidenziava che il licenziamento era stato preceduto da sospensione cautelare ed era basato su tre contestazioni, imputandosi ad O.: a) di avere indotto con intimidazioni e pressioni di vario genere il C., amministratore di società collegata su cui egli esercitava la sorveglianza, a procurargli a sue spese beni di arredamento e di utilità domestica per un ingente valore complessivo; b) di essere entrato nei locali della Banca nonostante la sospensione cautelare e di essersi attivato per mantenere l’accesso alla posta elettronica aziendale; c) di aver richiesto il pagamento di importi spettanti a titolo di diaria per gli spostamenti di servizio indicando orari di partenza e di arrivo non veritieri.
Sulla base della documentazione e delle testimonianze acquisite in istruttoria la Corte, ritenuta la tempestività e la analiticità delle contestazioni, accertava che le condotte contestate erano state provate, costituivano fondamento della cessazione del rapporto fiduciario e giustificavano l’irrogazione del licenziamento. La prima condotta (atteggiamento tenuto verso il C.) non era compatibile con l’elevato livello di affidamento che l’azienda aveva riposto nell’ O., in ragione della sua elevata posizione lavorativa; la seconda e la terza condotta contestate (accesso nei locali aziendali durante la sospensione cautelare e dichiarazioni non veritiere) erano, invece, sintomo di condotta sleale nei confronti del datore di lavoro.
Ritenuta, infine, non provata la pretesa illiceità del motivo determinante il recesso e insussistente ogni responsabilità del C., la Corte rigettava l’impugnazione.
3.- Contro questa sentenza ricorre per cassazione O.. Si difendono con controricorso XXX spa (succeduta a XXX spa) e C.. Tutte le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
4.- Parte ricorrente deduce i seguenti motivi di ricorso.
4.1.- Primo motivo: insufficiente e contraddittoria motivazione a proposito della genericità dell’addebito relativo al comportamento tenuto nei confronti del C., descritto nella lettera di contestazione da una asserita "azione continua di condizionamenti, intimidazioni e pressioni varie", che mai era stata specificata in concreti comportamenti e che, pure, nonostante le censure mosse nell’atto di appello, il giudice ha ritenuto sufficiente a descrivere il comportamento ascritto ed a consentire al ricorrente una valida difesa;
4.2.- Secondo motivo: violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, in quanto la formulazione dell’incolpazione disciplinare non può essere formulata in termini generici che non consentono l’individuazione del fatto contestato ed impediscono lo spiegamento della difesa dell’incolpato;
4.3.- Terzo motivo: omessa e/o insufficiente motivazione, in quanto il giudice non avrebbe dato valida risposta alla censura dell’appellante che la genericità della contestazione e della lettera di licenziamento sarebbe rimasta tale anche dopo la comunicazione dei motivi del licenziamento, richiesti dal lavoratore e comunicati dal datore ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2, comma 2;
4.4.- Quarto motivo: insufficiente e/o contraddittoria motivazione in quanto il giudice di appello avrebbe illogicamente e contraddittoriamente ravvisato la giusta causa di licenziamento nelle condotte materiali riguardanti la posizione C., mediante un mero rinvio alle motivazioni del primo giudice ed alle risultanze testimoniali, che avevano abbracciato solo alcune delle condotte materiali contestate (4 su 13, pari al numero degli oggetti che si assumono acquistati), mentre solo all’esito della valutazione complessiva del comportamento avrebbe potuto essere espresso il giudizio di colpevolezza;
4.5.- Quinto, sesto, settimo e ottavo motivo: pur ritenendo provati gli acquisti di merce da parte del C. in favore del ricorrente, sulla base delle dichiarazioni testimoniali, il giudice avrebbe illogicamente e contraddittoriamente valutato le risultanze processuali e, in particolare, le dichiarazioni di alcuni testi (tali D.B. e N. per l’acquisto di un armadio a tre ante, tale G. per l’acquisto di un climatizzatore, tale S. per l’acquisto di un impianto hi-fi, tale P. per l’acquisto di un letto per il figlio dell’ O.);
4.6.- Nono motivo: violazione degli artt. 184 bis, 416 e 244 c.p.c. ed error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4, avendo il giudice di appello ritenuto ammissibile la sostituzione di un teste indicato dal C. nella lista testimoniale, nonostante questi non avesse indicato circostanze tali da giustificare la non ascrivibilità della necessità di sostituzione alla sua diligenza;
4.7.- Decimo motivo: omessa e/o insufficiente motivazione in ordine agli addebiti concernenti l’abusivo accesso agli uffici aziendali durante la sospensione cautelare, essendosi sul punto limitato a condividere l’opinione del primo giudice senza procedere all’esame delle specifiche censure al riguardo proposte nell’atto di appello;
4.8.- Undicesimo motivo: omessa e/o insufficiente motivazione, avendo il giudice ritenuto esistente la giusta causa di licenziamento sulla base del detto abusivo accesso ai locali aziendali, ritenuto "sintomo di condotta non chiara e sleale nei confronti del datore di lavoro", omettendo di esprimersi a proposito dell’esistenza di una causa che non consentisse la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 2119 c.c.;
4.9.- Dodicesimo motivo: omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione in quanto circa il terzo addebito, concernente le dichiarazioni non veritiere rese all’atto della richiesta di corresponsione della diaria per le trasferte fuori sede, il giudice si è limitato a riportare stralci della sentenza di primo grado, senza tener conto delle censure mosse con l’atto di appello, con cui si deduceva che il primo giudice si era limitato ad un esame a campione della documentazione prodotta al riguardo e che ad un attento esame dai documenti analizzati non emergeva alcuna irregolarità;
4.10.- Tredicesimo ed ultimo motivo: omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, sempre a proposito delle non veritiere dichiarazioni, in quanto, pur avendo affermato che l’ O. non era mosso da spirito fraudolento (avendo allegato regolarmente i titoli di viaggio alle richieste di rimorso) ma solo da intento approfittatorio, il giudice sarebbe giunto alla conclusione della cessazione dell’elemento fiduciario e dell’esistenza di una giusta causa di licenziamento.
5.- Debbono essere trattati in unico contesto i primi tre motivi di ricorso, che censurano sotto diversi profili la sentenza di merito per il carente esame delle obiezioni mosse alle contestazioni disciplinari ed alla motivazione del licenziamento, che secondo parte ricorrente sarebbero affette da genericità tale da non consentire un compiuto esercizio del diritto di difesa.
6.- La giurisprudenza di questa Corte ritiene che, in tema di sanzioni disciplinari, e quindi anche in tema di licenziamento disciplinare, l’esigenza della specificità della contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, nè si ispira ad uno schema precostituito e ad una regola assoluta e astratta, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa (Cass. 30.12.09 n. 27842 e 18.06.02 n. 8853). Sotto diverso punto di vista, ma con lo stesso obiettivo di garantire la pienezza della difesa del lavoratore, la stessa giurisprudenza ha affermato che la contestazione dell’addebito deve rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (Cass. 10.06.04 n. 11045).
Gli accertamenti e le valutazioni sulla specificità della contestazione (al pari di quelli concernenti l’immediatezza) costituiscono giudizi di fatto riservati al giudice di merito e sindacabili in sede di legittimità solo quanto alla verifica della logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (Cass. 3.02.03 n. 1562 e 19.01.98 n. 437).
7. – La Corte di appello si è attenuta a questi principi esaminando le censure mosse dall’ O. in punto di intempestività e genericità delle contestazione alla luce delle risultanze documentali e testimoniali acquisite agli atti, verificando le prime alla luce delle seconde ai fini del riscontro dell’esatto accadimento dei fatti. La sentenza impugnata, inoltre, grazie anche al puntuale riscontro dei passaggi argomentativi della prima sentenza ed alla verifica della loro congruità logica, si rivela particolarmente esaustiva sul punto. Il giudizio di merito espresso al riguardo è, dunque, incensurabile in questa sede, in quanto motivato correttamente. Ne deriva l’infondatezza dei primi tre motivi.
8.- Con il quarto motivo si contesta la sufficienza e la contraddittorietà del giudizio espresso a proposito della giusta causa di licenziamento. La trattazione di questo motivo va associata con l’esame dei motivi decimo ed undicesimo, con cui si contesta l’applicazione del concetto di giusta causa con riferimento ad una delle condotte contestate (l’abusivo accesso ai locali aziendali).
Al riguardo deve rilevarsi che il concetto di giusta causa di licenziamento è dal legislatore qualificato con la tecnica definitoria delle clausole generali, delineando un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la evidenziazione di fattori esterni relativi alla coscienza generale e di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare le clausole generali come quella di cui all’art. 2119 c.c., che dettano tipiche norme elastiche, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, (Cass. 13.12.10 n. 25144).
Tale giudizio deve essere indirizzato al complesso del comportamento posto in atto dal lavoratore, atteso che in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutare complessivamente la loro incidenza sul rapporto di lavoro (Cass. 27.01.09 n. 1890).
Nel caso di specie esattamente è stata ravvisata la giusta causa di licenziamento nel comportamento di un lavoratore che, abusando delle mansioni affidategli, aveva indotto l’amministratore di una società collegata, su cui egli esercitava la sorveglianza, a procurargli a sue spese beni fondamentali.
Il giudice di merito ha correttamente delineato ed applicato il concetto di giusta causa, rilevando che il comportamento dell’ O. è "intrinsecamente improntato alla violazione delle più elementari regole della correttezza e della buona fede che devono comunque presiedere anche all’esecuzione del rapporto di lavoro" ed ha procurato "la compromissione di quella fiducia che deve permeare di sè al suo interno, il rapporto di lavoro stesso e la cui lesione è tale da non consentire più la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto stesso". La circostanza che sul punto il giudice abbia richiamato anche le analoghe considerazioni argomentative del giudice di primo grado, non rappresenta – come sembra intendere parte ricorrente – una mancanza di approfondimento, ma un arricchimento della motivazione adottata.
Anche il quarto, il decimo e l’undicesimo motivo sono, dunque, infondati.
9.- Analogamente deve ritenersi per i motivi quinto, sesto, settimo ed ottavo (v. n. 4.5). Essi nel contestare la valutazione delle testimonianze acquisite in istruttoria, si limitano inammissibilmente a censurare dinanzi alla Corte di cassazione l’apprezzamento di merito compiuto dal giudice di appello, di cui in questa sede va ribadita la logicità e congruità.
10.- Il nono motivo è, invece, inammissibile, in quanto deduce un vizio in procedendo (l’erronea autorizzazione alla sostituzione di un teste) del tutto irrilevante ai fini del decidere, in quanto la motivazione, anche se privata delle considerazioni compiute a proposito della testimonianza in questione (quella della teste Co.), rimane pienamente coerente nelle sue conclusioni finali.
11.- Con il dodicesimo motivo è censurato l’insufficiente esame del motivo di appello formulato sulle modalità di accertamento del comportamento indicato nel terzo addebito (indebita richiesta di diaria) utilizzate dal primo giudice, sostenendosi che se costui avesse esaminato attentamente tutte le richieste inoltrate e non avesse proceduto ad un generico esame per campione, sarebbe emersa la mancanza di irregolarità. Con il tredicesimo motivo è, inoltre, evidenziata una sorta di contraddittorietà del ragionamento, in quanto il giudice, pur qualificando "approfittatorio" e non fraudolento il comportamento tenuto da O. al riguardo, da tale più lieve qualificazione non avrebbe tratto alcuna conseguenza argomentativa ed avrebbe lo stesso ritenuto cessato l’elemento fiduciario.
Al riguardo deve rilevarsi che il giudice di appello (al pari di quello di primo grado ed in adempimento di un criterio valutativo ritenuto corretto da questa Corte, v. sopra al n. 8) ha formulato il suo giudizio di sussistenza della giusta causa sulla base del "complessivo comportamento messo in atto" (v. pag. 33 della motivazione), senza assegnare carattere esclusivo a singoli aspetti della condotta tenuta dal lavoratore nelle singole circostanze, ma rilevando anzi che si tratta di "tanti diversi e variegati comportamenti ma tutti, sia partitamente valutati che complessivamente apprezzati, decisamente ed ampiamente evocativi dell’intervenuta violazione delle fondamentali regole di correttezza e di buona fede nella prestazione di lavoro e dunque giustificativi del venir meno di quella fiducia su cui può e deve ragionevolmente fare appunto affidamento il datore di lavoro …" (pag. 34).
Conseguentemente, parte ricorrente avrebbe dovuto svolgere adeguate considerazioni circa il carattere scriminante delle circostanze oggetto di (pretesa) scarsa valutazione da parte del giudice di appello, evidenziando in che termini le circostanze stesse, ove ricondotte nella loro (pretesa) giusta portata, avrebbero potuto attenuare il giudizio complessivo sulla illiceità del comportamento complessivo.
Anche questi ultimi due motivi sono, pertanto, da considerare infondati.
12.- Infondati tutti i motivi, il ricorso deve essere rigettato.
13.- Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza nei confronti di entrambi i controricorrenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30,00 per esborsi ed in Euro 2.000 (duemila) per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., in favore di ciascuno dei controricorrenti.
Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2012

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