Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-08-2012, n. 14525

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 15 ottobre 1992 B.E. evocava, dinanzi al Tribunale di Castrovillari, B.P. esponendo di essere proprietario di un vasto appezzamento di terreno in agro di (OMISSIS), limitrofo a fondo di proprietà del convenuto ed aggiungeva che il predetto convenuto si era impadronito di una vasta zona di terreno – di rilevantissimo valore – di sua proprietà ricadente nella particella catastale n. 27 foglio 87 (Catasto terreni del Comune di Cerchiara di Calabria); tanto premesso, chiedeva il rilascio in suo favore di quelle pozioni di terreno comprese nella particella n. 27 a lui usurpate, oltre al risarcimento dei danni.

Instauratosi il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, il quale assumeva che la demarcazione della linea dei confini era stata realizzata dallo stesso attore, ove lui, peraltro, aveva elevato un frangivento costituito da alberi di ulivo, risultando, altresì, il confine naturale da termini lapidei, il Tribunale adito, espletata istruttoria, anche con c.t.u., rigettava la domanda attorea.

In virtù di rituale appello interposto da B.E., con il quale deduceva la nullità della sentenza perchè priva di ogni elemento costitutivo essenziale, oltre ad essere errata per non avere il c.t.u. nominato provveduto alla doverosa misurazione dei fondi, la Corte di appello di Catanzaro, nella resistenza dell’appellato, con sentenza non definitiva n. 185/2006 del 22.3/6.4.2006, dichiarava la nullità della decisione impugnate, provvedendo con separata ordinanza all’ulteriore istruttoria della causa, in particolare disponendo la rinnovazione delle indagini tecniche e l’assunzione dell’interrogatorio formale deferito a B.P., riservandosi sull’ammissione delle prove testimoniali. Espletata dal giudice istruttore l’attività delegata, la corte distrettuale, nuovamente investita della controversia, rigettava la domanda attorea.

A sostegno della decisione la corte di Catanzaro evidenziava – preliminarmente qualificata l’azione esperita dall’appellante a difesa del possesso di regolamento dei confini – che l’originario attore non aveva dedotto in maniera precisa quale fosse il quoziente di terreno usurpato, essendosi limitato a contestare l’usurpazione e fondando la stessa sul diverso presupposto, questo si di natura petitoria, rappresentato dall’ammanco di una determinata estensione rispetto al titolo di proprietà. In altri termini, l’azione sarebbe stata sostenuta sul diverso presupposto della non rispondenza del titolo di proprietà all’effettiva estensione dell’area.

Aggiungeva che sulla scorta delle osservazioni dirette effettuate dal c.t.u. – rinvenuta sul lato ovest in contestazione una situazione mutata rispetto a quella denunciata in domanda – non vi era alcun riscontro alla prospettazione in fatto operata dall’appellante, giacchè la denunciata usurpazione non si era tradotta in alcun comportamento materiale. Infatti lungo la linea di confine catastale e di fatto entrambi i fondi confinanti non venivano lavorati dai rispettivi proprietari, tanto che risultavano lasciati incolti: con crescita spontanea e a dismisura di vegetazione in loco. Concludeva che le rimanenti questioni rappresentate dal dato matematico di una minore estensione del fondo dell’appellante rispetto al titolo di proprietà – e ciò ben oltre i limiti di tolleranza dell’imprecisione del segno catastale – avrebbero dovuto essere risolte diversamente dall’azione proposta, in particolare con quella di rivendica.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Catanzaro ha proposto ricorso per cassazione B.E., articolato su tre motivi, al quale ha resistito B.P. con controricorso.

Il ricorrente ha depositato anche memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo viene dal ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, con riferimento all’art. 112 c.p.c.. La corte di merito avrebbe errato nel non qualificare l’azione esercitata da ricorrente quale rivendicazione, giacchè come emergerebbe dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio e ad avviso del ricorrente, egli avrebbe affermato il diritto di proprietà sulla zona di cui aveva denunciato la usurpazione, con conseguente restituzione della stessa; il convenuto – resistente nel contestare la domanda proposta dall’attore avrebbe, poi, concorso a determinare quel conflitto tra i titoli di proprietà posti in discussione. Il giudice del gravame non avrebbero tenuto conto delle tesi difensive prospettate dalle parti ai fine della esatta interpretazione delle istanze e di conseguenza non sarebbe rimasto nell’ambito del petitum e della causa petendi, non attendendosi al thema decidendum comprendente l’azione di revindicazione. Errate sarebbero, così, anche le valutazioni sull’onere della prova.

Il motivo non merita accoglimento.

Premesso che la qualificazione della domanda in giudizio spetta al giudice di merito e che il relativo apprezzamento è censurabile dinanzi al giudice di legittimità solo per vizio di motivazione (cfr. Cass. 17 novembre 2006 n. 24495; Cass. 9 marzo 2004 n. 4754), si osserva che, secondo la costante giurisprudenza di questa corte, l’azione di regolamento dei confini ex art. 950 c.c., presuppone che l’incertezza, oggettiva o soggettiva, cada sul confine tra i due fondi, non sul diritto di proprietà degli stessi, anche se oggetto della controversia è la determinazione quantitativa delle rispettive proprietà. Essa, pertanto, non muta natura, trasformandosi in azione di rivendica, nel caso in cui l’attore sostenga che il confine di fatto non sia quello esatto per essere stato parte del suo fondo usurpato dal vicino (in tal senso, v. Cass. 5 luglio 2006 n. 15304;

analogamente e tra le altre, Cass. 16 febbraio 2005 n. 3101; Cass. 6 dicembre 2000 n. 15507). Al contrario, è azione di rivendica della proprietà ex art. 948 c.c. quella fondata e contrastata in base ai rispettivi titoli di acquisto (v. Cass. 6 febbraio 1998 n. 1204;

Cass. 1 dicembre 1997 n. 12139; Cass. 19 settembre 1995 n. 9900;

Cass. 11 marzo 1995 n. 2857), per cui vi è conflitto fra titoli quando – a livello di allegazione – un medesimo bene, o una sua porzione, risulti in due atti traslativi della proprietà attribuito a soggetti diversi, di talchè l’un acquisto non possa coesistere con l’altro perchè in rapporto di contraddizione giuridica.

Nella specie la questione dell’avere il ricorrente fatto riferimento per l’individuazione della estensione del suo fondo alla particella 27 non comporta di per sè un contrasto tra titoli di proprietà, per essere stata richiesta dallo stesso la verifica della esatta linea di confine tra i terreni in contestazione, ragione per la quale i giudici di merito – con motivazione logica ed adeguata – hanno qualificato l’azione esperita quale richiesta di demarcazione tra fondi per rimuovere la relativa incertezza.

Con il secondo motivo viene dedotta l’erronea ed omessa valutazione di circostanze e di elementi probatori in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in particolare con riferimento alle risultanze della espletata consulenza tecnica d’ufficio, nonchè error in procedendo per la mancata ammissione di elementi probatori, quale la prova testimoniale articolata. Ritiene il ricorrente che la corte distrettuale sia pervenuta alla conclusioni predette attraverso argomentazioni incomplete ed insufficienti, mancando il riferimento a specifici e concreti elementi probatori che diano fondamento razionale alla decisione, giacchè dall’esito dell’accertamento svolto dallo stesso ausiliario del giudice è emerso che la particella di proprietà dell’odierno ricorrente avrebbe una superficie inferiore di ben 766,00 mq rispetto al titolo e ciò corrisponderebbe alla appropriazione realizzata dal resistente in suo danno. Al mancato accoglimento della domanda principale sarebbe poi seguita anche la reiezione di quella risarcitoria.

Ulteriore circostanza di incongruenza motivazionale emergerebbe, dal rigetto di ammissione delle prove testimoniali articolate dal ricorrente con l’atto di appello, nella vigenza del vecchio rito, richiesta ribadita nei successivi scritti difensivi, per poi concludere con la reiezione della domanda proposta dall’attore ritenendo non raggiunta a prova del presupposto di fatto, ossia l’accaparramento di pozione di fondo da parte de resistente ed in danno dei ricorrente.

Il motivo è infondato nella parte in cui prospetta una erronea valutazione di circostanze ed elementi probatori, inammissibile nelle ulteriori articolazioni.

In materia di regolamento dei confini è ammesso ogni mezzo di prova, per cui il giudice ben può fondare il suo convincimento sugli elementi offerti dalle parti e dalle altre risultanze acquisite al processo, purchè le argomentazioni diano conto delle ragioni per le quali si sia determinato nel senso esposto nell’ordito motivazionale (v. Cass. 30 maggio 2003 n. 8814; Cass. 16 febbraio 2005 n. 3101;

Cass. 13 febbraio 2006 n. 3082; Cass. 31 maggio 2006 n. 12891; Cass. 29 dicembre 2009 n. 27521).

Nella specie il giudice di merito ha affermato che l’attore si era limitato ad affermare l’usurpazione di parte (peraltro indeterminata) di terreno, fondandola sul presupposto (di natura petitoria) dell’ammanco di una determinata estensione rispetto al titolo di proprietà ed ha concluso che non vi era riscontro alla prospettazione dell’attore di un’appropriazione, giacchè la stessa non si era tradotta in alcun comportamento materiale, reso esteriore o con imposizione di segni di confine all’interno della proprietà dell’attore o con la lavorazione del fondo da parte del convenuto all’interno della proprietà dell’attore, avendo il confinante mantenuto la coltivazione distante dal confine catastale e da quello di fatto individuato dal cippo lapideo. Ha, inoltre, aggiunto che lungo la linea di confine entrambi i fondi risultavano lasciati incolti da diversi anni, come emergeva dalla fitta vegetazione spontanea esistente in loco e cresciuta a dismisura.

Lo stesso giudice ha ampiamente e logicamente argomentato la non condivisione della soluzione offerta dal c.t.u., secondo la quale dell’ammanco di estensione del fondo di B.E. andava fatto corrispondere a carico del fondo di B.P., giacchè dalla sovrapposizione dei fondi – provenendo i terreni dalla divisione di un originario unico fondo – sulla base del rilievo eseguito, quanto al confine tra la particella 20 e 27 emergerebbe che al vertice dal lato sud ovest sarebbe proprio la particella 27 a sconfinare nella 20, situazione opposta sarebbe rinvenibile al vertice opposto, questione da risolvere con l’esperimento di diversa azione, di natura petitoria. Al rigetto della domanda principale, la corte distrettuale ha correttamente fatto discendere anche la reiezione di quella accessoria di risarcimento del danno "per mancata prova del presupposto di fatto ovvero di una situazione tangibile di accaparramento di fondo di proprietà di E. ad opera di P.".

Quanto alle prove offerte e non ammesse dal giudice di merito, il ricorrente non ne indica specificamente l’oggetto ed i capitoli, come richiesto a pena di ammissibilità della relativa censura, dovendosi, in questa sede, vagliare la decisività dei mezzi istruttori richiesti.

Con il terzo ed ultimo motivo viene lamentata l’errata e falsa applicazione degli artt. 1140 e 948 c.c., nonchè il difetto di motivazione per non avere la corte di merito tenuto conto che la decisione postulava non già la soluzione di un mero conflitto di fondi, bensì l’estensione e la esatta localizzazione della particella 27 appartenente al ricorrente e la determinazione dei confini di essa, con la conseguente condanna al rilascio dell’area asseritamente posseduta dal proprietario del fondo finitimo. In altri termini, il giudice del gravame non avrebbe valorizzato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale fra l’azione di regolamento di confini e la revindica, che hanno strutture ed obiettivi diversi, non sussisterebbe incompatibilità concettuale, tanto da configurare la prima come una vindicatio incertae partis, che può contenere, implicitamente o esplicitamente, le richieste di restituzione della porzione di terreno che, in conseguenza dell’accertamento e della determinazione del confine tra fondi, risulti indebitamente esclusa. Prosegue il ricorrente che anche l’obiezione avanzata in motivazione, secondo la quale l’ammanco accertato dal c.t.u. in danno di B.E. andrebbe localizzato verso un fondo diverso da quello posseduto da B. P. costituirebbe ipotesi astratta, contrastata dai rilievi oggettivi effettuati sul luogo dall’ausiliario del giudice sulla base delle caratteristiche geologiche e colturali della zona in contestazione. Conclude il ricorrente con il richiamo a giurisprudenza secondo la quale nelle controversie sulla proprietà tra condividenti o loro aventi causa, l’atto di divisione nei rapporti interni aventi ad oggetto diritti delle parti risalenti a presupposto di una originaria comunione ha valore attributivo della proprietà dei beni divisi ed autonomamente dimostrativo della loro appartenenza.

Neppure questa censura ha fondamento.

La pretesa violazione dell’art. 948 c.c., formulata dal ricorrente non tiene conto che costituisce comunque requisito dell’azione petitoria il possesso o la detenzione da parte di un terzo dei bene o porzione dello stesso che si assume abusivamente occupata.

Deve ribadirsi l’avviso giurisprudenziale, condiviso, in base al quale (già Cass. 25 maggio 1979 n. 3028), al fine di determinare il confine tra fondi, il giudice di merito deve commisurare l’onere probatorio dell’istante alle concrete particolarità della singola controversia ed in relazione alle linee difensive delle parti.

Poichè la Corte distrettuale ha dato ampiamente conto del suo convincimento, basato sull’affermazione del c.t.u. che la zona di cui era denunciata l’usurpazione non era detenuta ovvero posseduta dal convenuto, ne consegue che ciò avrebbe comportato il rigetto anche dell’eventuale domanda di rivendicazione.

Per ciò che concerne, infine, la questione della rilevanza dell’atto di divisione nei rapporti interni fra i condividendi o loro aventi causa, in ipotesi di originario unico proprietario del bene, a parte l’osservare che la medesima non risulta essere stata proposta dal ricorrente nel pregresso grado di giudizio, non trascritto nel ricorso ove la deduzione sarebbe stata formulata, nè riportata nella sentenza impugnata, la stessa prospettazione appare ultronea alla luce delle considerazioni sopra svolte in ordine all’insussistenza dell’usurpazione lamentata.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato e le spese processuali regolate secondo il principio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 19 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2012

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