Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-05-2013) 12-06-2013, n. 25863

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con l’ordinanza sopra indicata il Tribunale di Perugia, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., confermava il provvedimento del 21/01/2013 con il quale il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto nei riguardi di R.P. l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai reati di peculato (capi A) ed F) dell’imputazione) e di formazione ed utilizzazione di atti pubblici falsi, aventi fede privilegiata (capi C) e D).
Rilevava il Tribunale come le acquisite emergenze procedimentali avessero dimostrato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del R. in ordine ai delitti a lui ascritti, e come i dati informativi a disposizione avessero provato che i fatti accertati erano stati correttamente qualificati, con le imputazioni provvisorie, in termini di peculato e di falso. In particolare, il Collegio osservava come le condotte accertate – concretizzatesi nel compimento, nell’ambito di due distinte procedure riguardante il fallimento "XXX" ed il fallimento "XXX", di una serie di atti concordati tra giudici della sezione fallimentare del Tribunale di Roma, curatori fallimentari, dottori commercialisti, avvocati ed un perito, soggetti coinvolti a vario titolo in quelle procedure, atti consistiti nella creazione di documentazione idonea a creare l’apparenza di crediti pecuniari in realtà inesistenti, nel promuovere l’inserimento di tali creditori (in alcuni casi persone fisiche inesistenti, in altri soggetti esistenti ma titolari di fittizi diritti di credito) nel passivo fallimentare delle due procedure, e nell’incassare e dividere il profitto, conseguito con la liquidazione di cospicue somme di denaro ai finti creditori, oltre che con la liquidazione dei compensi al difensore che aveva assistito uno di quei falsi creditori, somme pari ad Euro 2.066.304,73 nel primo degli indicati fallimenti, e ad Euro 770.000,00 nel secondo (somme in gran parte accreditate su conti correnti bancari aperti all’estero), in tal modo sottratte alle masse fallimentari delle due procedure – fossero qualificabili come altrettante fattispecie di peculato, tenuto conto che gli innanzi descritti artifici erano serviti per "mascherare le indebite appropriazioni di denaro in danno dei citati fallimenti per far sì che tutte le procedure di ammissione dei crediti apparissero regolarmente eseguite e non per ottenere disposizioni patrimoniali da parte di soggetti (…) tratti in inganno" (v. pag. 45 ord. impugn.). Quanto alle ipotesi di falso in atti pubblici con fede privilegiata, consistenti in false procure notarili, il Tribunale rilevava come le carte del procedimento avessero dimostrato in via logica come anche la formazione e l’utilizzazione di quegli atti fossero ascrivibili ai medesimi soggetti che delle procure si erano serviti per acquisire materialmente le rilevanti somme di denaro oggetto di appropriazione.
2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il R., con atto sottoscritto personalmente, il quale, ha dedotto i seguenti due motivi.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione per avere il Tribunale umbro erroneamente qualificato i fatti addebitati ai capi A) ed F), in termini di peculato, laddove gli stessi integrerebbero, al più, gli elementi costitutivi dell’abuso di ufficio ovvero della truffa aggravata ai sensi dell’art. 61 cp., n. 9, per essere stati i fatti commessi da un pubblico ufficiale (il giudice) o da un incaricato di pubblico servizio (il curatore fallimentare). In dettaglio, il ricorrente si è doluto del fatto che il Collegio umbro avesse confermato il provvedimento genetico della misura cautelare, senza tenere conto che la condotta asseritamente da lui commessa non poteva essere qualificata come peculato, atteso che gli artifici posti in essere erano serviti per acquisire il possesso del denaro di cui si erano poi, in ipotesi, appropriati, e non anche a mascherare precedenti indebite appropriazioni di denaro in danno delle procedure fallimentari.
2.2, Violazione di legge e vizio di motivazione per avere il Tribunale umbro erroneamente qualificato i fatti addebitati ai capi C) e D), in termini di falso materiale commesso da privato, laddove gli stessi fatti avrebbero, al più, potuto integrare gli estremi del falso in atto pubblico commesso da pubblico ufficiale indotto in errore ex art. 48 cod. pen., cosa che non è avvenuta anche per la mancata identificazione del pubblico ufficiale autore dell’atto.
3. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
4. Il primo motivo del ricorso è infondato, in quanto priva di pregio è la doglianza concernente la dedotta violazione di legge (nella quale resta assorbita il lamentato vizio di motivazione.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale la distinzione tra peculato e truffa non va ravvisata nella precedenza cronologica dell’appropriazione rispetto al falso o viceversa, ma nel modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del danaro del quale si appropria: per cui sussiste peculato quando l’agente fa proprio il danaro della pubblica amministrazione del quale abbia già il possesso per ragione del suo ufficio o servizio, mentre vi è truffa qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, non avendo tale possesso, si sia procurato fraudolentemente, con artifici e raggiri, la disponibilità del bene oggetto della sua illecita condotta. Più in particolare, ricorre il peculato quando l’artificio od il raggiro (anche mediante la creazione di falsa documentazione) siano stati posti in essere non per entrare in possesso del pubblico danaro, ma per occultare la commissione dell’illecito; al contrario, nella truffa il momento consumativo del reato coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso (Sez. 6, n. 11902 del 11/05/1994, Capponi ed altro, Rv. 200200; in senso conforme, in seguito, Sez. 6, n. 32863 del 25/05/2011, P.G. in proc. XXX, Rv. 250901; Sez. 1, Sentenza n. 26705 del 13/05/2009, XXX, Rv. 244710; Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, XXX, Rv.
241186; Sez. 6, n. 5799 del 21/03/1995, XXX, Rv. 201680;
sostanzialmente in termini anche Sez. 6, n. 16980/08 del 18/12/2007, XXX e altri, Rv. 239842).
A tale regula iuris il Tribunale di Perugia si è correttamente uniformato, evidenziando come gli artifici, descritti nei capi d’imputazione, erano serviti per "mascherare le indebite appropriazioni di denaro in danno dei citati fallimenti per far sì che tutte le procedure di ammissione dei crediti apparissero regolarmente seguite e non per ottenere disposizioni patrimoniali da parte di soggetti tratti in inganno" (v. pag. 45 ord. impugn,). In altri termini, il denaro oggetto di indebita appropriazione già era "in possesso" dei giudici delegati (indicati come concorrenti nella commissione dei reati) e dei curatori delle procedure fallimentari in esame, poichè è pacifico che la nozione di possesso deve essere intesa in senso ampio, comprensiva anche della disponibilità giuridica dei beni in questione, poichè i magistrati titolari di quei procedimenti ben potevano compiere (ed hanno compiuto) atti dispositivi per conseguire il denaro oggetto di appropriazione; e gli atti falsi utilizzati per creare la parvenza di esistenza di crediti pecuniari verso le rispettive masse fallimentari, lungi dal rappresentare lo strumento per trarre in inganno chi avrebbe dovuto compiere quegli atti dispositivi, dunque dal costituire lo strumento per conseguire il possesso ovvero la disponibilità giuridica di quel denaro, fu esclusivamente documentazione falsa creata ed utilizzata per dare una parvenza di regolarità nella procedura e, quindi, per occultare la commissione del peculato.
Nè conduce a differenti conclusioni il richiamo ad altra pronuncia con la quale questa Corte aveva sostenuto che integra il delitto di truffa aggravata dall’abuso di poteri o dalla violazione di doveri inerenti una pubblica funzione, e non quello di peculato, la condotta del curatore fallimentare il quale, falsificando dei mandati di pagamento mediante l’apposizione della firma apocrifa del giudice delegato, si appropria di somme relative all’attivo fallimentare depositate sui conti bancari intestati alla procedura concorsuale (Sez. 6, n. 5447/10 del 04/11/2009, XXX e altri, Rv. 246070). Tale sentenza, infatti, riguardava una fattispecie nella quale la creazione e l’uso dell’atto falso era stato, appunto, lo strumento per appropriarsi di somme di denaro di cui l’agente, curatore fallimentare, non aveva la diretta disponibilità giuridica (disponibilità riconosciuta, nella motivazione di quella sentenza, esclusivamente al giudice delegato al fallimento), possesso conseguito proprio mediante un artificio capace di trarre in inganno:
situazione evidentemente ben differente da quelle oggetto del presente procedimento, nelle quali è stato ipotizzato un concorso anche del giudice o dei giudici della relative procedure fallimentari.
Del pari manifestamente infondato è lo stesso motivo del ricorso nella parte in cui è stata ipotizzata la configurabilità nella fattispecie del meno grave reato di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., trattandosi di disposizione cui il legislatore codicistico attribuisce un ambito di operatività residuale, come si desume chiaramente dall’iniziale clausola di riserva presente nel testo della relativa norma incriminatrice.
5. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile perchè generico.
Nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l’onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato (così, tra le tante, Sez. 3, n. 5020 del 17/12/2009, Valentini, Rv. 245907, Sez. 4, n. 24054 del 01/04/2004, Distante, Rv. 228586; Sez. 2, n. 8803 del 08/07/1999, Albanese, Rv. 214249).
Nel caso di specie il ricorrente si è limitato ad enunciare, in forma molto indeterminata, il dissenso rispetto alle valutazioni compiute dal Tribunale del riesame, lamentando una imprecisata diversa qualificazione giuridica dei fatti in termini di falso commesso da privato ovvero lamentando la mancata identificazione del pubblici ufficiale autori degli atti falsi, senza però specificare gli aspetti di criticità di passaggi giustificativi della decisione, cioè omettendo di confrontarsi realmente con la motivazione del provvedimento gravato: nel quale gli atti falsi, con certezza qualificati come atti pubblici fidefacenti, trattandosi di procure notarili, sono stati indicati nelle imputazioni come formati (implicitamente richiamando il "meccanismo" dell’art. 48 cod. pen.) e, comunque, come utilizzati dagli indagati, con la contestazione di un delitto, quello previsto dall’art. 489 cod. pen., che permette l’applicazione della misura cautelare in corso.
6. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2013

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