Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-08-2012, n. 14518

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 5 gennaio 1994 R. G. evocava, dinanzi al Tribunale di Roma, A.M. esponendo di avere interamente saldato il corrispettivo per il contratto di appalto intercorso fra le parti avente ad oggetto la ristrutturazione del proprio appartamento sito in (OMISSIS) e di avere accertato subito dopo la consegna dell’immobile che la tinteggiatura e la pavimentazione presentavano vizi, per cui ne chiedeva la condanna al risarcimento dei danni subiti ammontanti a L. 40.000.000.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dell’appaltatore, il quale precisava che il prezzo complessivamente concordato per l’appalto era di L. 41.000.000, con esclusione dei materiali che erano stati direttamente acquistati da parte del committente, per cui i difetti non erano a lui riferibili, spiegata riconvenzionale per L. 13.000.000 a titolo di ritardo nei saldo del corrispettivo, il Tribunale adito, espletata istruttoria (con prova orale e c.t.u.), rigettava la domanda attorea e in accoglimento della riconvenzionale spiegata condannava il R. al pagamento di L. 10.000.000, pari ad Euro 5.164,57 per interessi maturati comprensivi di rivalutazione, dovuti per ritardati pagamenti, oltre ad interessi legali sulla stessa somma dal 10.3.1994, data della domanda.

In virtù di rituale appello interposto dal R., con il quale lamentava che il giudice di prime cure non avesse riconosciuto i danni conseguenti al "palese difetto delle mattonelle" per essere erronea l’affermazione dell’intervenuta prescrizione biennale ex art. 1667 c.c., stante la data di ultimazione dei lavori da individuarsi nell’anno 1993, come da c.t.u., nonchè per erroneo accertamento del difetto di legittimazione passiva dell’ AL., la Corte di appello di Roma, nella resistenza dell’appellato appaltatore, in parziale accoglimento del gravame, rigettava la domanda riconvenzionale.

A sostegno della adottata decisione la corte capitolina evidenziava che la garanzia per la pavimentazione posta in opera non era dovuta in forza della disposizione di cui alla seconda parte dell’art. 1667 c.c., comma 1, letta in combinato disposto dell’art. 1665 c.c., comma 4, per avere il R. ricevuto in consegna l’opera e proceduto al pagamento già in data 21.9.1993, situazione di fatto in cui era operante la presunzione iuris et de iure di cui al citato art. 1665 c.c., con conseguente perdita della garanzia per avvenuta accettazione dell’opera, inefficaci le contestazioni mosse solo il 25.10.1993.

Di converso, la fondatezza della censura relativa all’insufficiente motivazione in punto di riconvenzionale, emergeva dall’avere il giudice di prime cure liquidato l’importo di L. 10.000.000, reputandolo "di giustizia", pure a fronte di una ricevuta "a saldo" del 21.9.1993 avente inequivoca natura di quietanza liberatoria, perciò incompatibile con la pretesa di interessi di mora per non meglio precisati "ritardati pagamenti", nè potevano riferirsi i danni al "blocco" di un assegno di L. 20.000.000, per non essere stato indicato neanche con quale ritardo era avvenuto il pagamento da parte della banca trattarla.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione l’ A., che risulta articolato in quattro motivi, cui ha resistito il R. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1124 c.c., comma 1, artt. 2697 e 1284 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la corte capitolina tenuto conto della funzione risarcitoria degli interessi legali maturati sulla somma di L. 41.000.000, determinati in misura forfettaria dal giudice di prime cure, a norma dell’art. 1224 c.c., comma 1, anche a fronte della non contestazione della controparte, disattese peraltro le prove documentali dalle quali si evincerebbe che il pagamento dell’appaltatore sarebbe avvenuto, per quanto riguarda la prima tranche di L. 20.000.000, solo il 10.9.1993, con ventuno mesi di ritardo, e l’ulteriore tranche di L. 21.000.000, arbitrariamente ridotta dal committente a L. 20.000.000, in data 20.10.1993, dopo ventidue mesi dalla consegna dell’appartamento.

Il primo motivo non può essere accolto in quanto inammissibile prima ancora che privo di pregio.

La corte di merito, nell’impugnata decisione, con riferimento al motivo relativo all’accoglimento della domanda riconvenzionale, dopo aver chiarito che la carenza era prima ancora nelle allegazioni difensive del convenuto-attore, ha affermato che il rilascio della ricevuta "a saldo" del 21.9.1993 da parte dell’ A. rileva quale "…inequivoca quietanza liberatoria, incompatibile con la pretesa di interessi di mora per non meglio precisati ritardati pagamenti" ed ha osservato che "…la domanda non può correttamente riferirsi ai danni per il blocco di un assegno di L.. 20.000.000;… l’appellato non ha neppure indicato con quale ritardo avvenne il pagamento da parte della trattaria". Dunque la corte chiaramente ha posto a base della sua decisione oltre ad altre considerazioni relative alla genericità della richiesta di danno per difetto di difesa, essenzialmente l’incompatibilità della ricevuta a saldo del 21.9.1993 con la pretesa di interessi di mora. Sennonchè tale argomentazione della corte (cosi rettamente interpretata e peraltro immune da vizi) non risulta investita – nei motivo in esame (ma sotto diversi profili, nel secondo e ne terzo motivo di ricorso) – di specifica e rituale doglianza (cfr. Cass. 4 febbraio 2005 n. 2273;

Cass. 27 gennaio 2005 n. 1658; Cass. 23 aprile 2002 n. 5902 ex multis).

Per completezza appare opportuno puntualizzare che lo stesso ricorrente riconosce, nell’illustrare la prima censura, che il compenso pattuito tra le parti per il pagamento dell’opera prestata dall’ A. (v. pag. 20 del ricorso), ossia il corrispettivo dell’appalto, era di L. 41.000.000 e che doveva avvenire al dicembre 1991, data concordata per la consegna dell’opera commissionata; il pagamento era, in realtà, avvenuto in due tranches, la prima corrisposta il 10.9.1993, con ventuno mesi di ritardo, la seconda il 20.10.1993, con ventidue mesi dalla consegna dell’appartamento (con tasso di interesse stabilito di anno in anno dalle leggi finanziarie dello Stato), a fronte dei quali l’appaltatore ha rilasciato quietanza liberatoria. Ne consegue che per ottenere il risultato invocato dal ricorrente, occorrerebbe l’accoglimento sia del primo sia del secondo (o del terzo) motivo di ricorso (che verranno di seguito illustrati), stante la carenza di autonomia di ciascuno di essi, nei termini sopra chianti, il che costituisce una ulteriore autonoma cagione di inammissibilità del motivo.

Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla c.d. ricevuta a saldo del 21.9.1993 per non avere l’appellante-committente domandato in alcun modo l’accertamento di detta ricevuta, per cui la corte capitolina avrebbe provveduto alla valutazione del documento- quietanza senza alcuno specifico gravame dell’appellante sul punto.

Anche il secondo motivo è infondato.

La censura del ricorrente, invero, investe in maniera inadeguata l’apprezzamento della corte di merito riguardo al terzo motivo di appello che, oltre a non essere stato trascritto (per dimostrare che la questione della quietanza a saldo non era stata allegata dall’attore-appellante), non tiene conto che il giudice distrettuale ha dato atto della domanda di rigetto della riconvenzionale proposta dall’ A. riproposta in sede di gravame (di cui alla pagina 3 della sentenza impugnata), nonchè il fatto di avere il committente- appellante confermato nella citazione in appello di avere proceduto al pagamento del saldo, giusta quietanza rilasciatagli in data 21.9.1993 (alla pagina 6 della medesima decisione), con ciò introducendo nel giudizio di appello una prova documentale, concorrente alla valutazione relativa alla dimostrazione dell’assunto di mancanza di responsabilità per ritardo nell’adempimento, che costituisce statuizione assorbente ai fini del rigetto della domanda riconvenzionale di accertamento dei danni in relazione alla pretesa dell’appaltatore di pagamento degli interessi di mora.

E d’altro canto la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la indicazione dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi invece soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza, all’interno della quale i motivi del gravame, dovendo essere idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, avranno la necessità di essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto di quella motivazione (da ultimo v. Cass. 2 dicembre 2011 n. 25872; Cass. 12 settembre 2001 n. 18674; Cass. 18 agosto 2004 n. 16190).

Con il terzo motivo viene censurata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1967 c.c., nonchè degli artt. 1218, 1224 e 1359 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in ordine alla qualificazione della ricevuta a saldo del 21.9.1993, che secondo la corte distrettuale sarebbe "incompatibile con la pretesa di interessi moratori", non presentando l’atto gli estremi di una transazione validamente conclusa. Peraltro l’importo di cui all’assegno a fronte del quale era stata rilasciata la ricevuta risulta essere stato acquisito dal creditore solo dopo ulteriori trenta giorni.

Il motivo non merita accoglimento.

Premesso che la questione della invalidità della transazione, dalla quale sarebbe scaturita la quietanza in questione, non risulta essere stata fatta valere dall’appellato, odierno ricorrente, in sede di appello ex art. 346 c.p.c., in realtà nella dichiarazione de qua, quantificato dalle parti il residuo del corrispettivo dell’appalto (complessivamente determinato in L. 106.000.000) con l’atto del 21.9.1993, anche se l’integrale pagamento avvenne, per effetto della sostituzione dell’assegno bancario, soltanto in data 20.10.1993, ossia dopo ulteriori "trenta giorni", la corte distrettuale ha ravvisato una quietanza liberatoria e ciò in base al tenore letterale della dichiarazione medesima ove il residuo prezzo di L. 26.000.000 risulta riscosso "a saldo". Ed invero l’accettazione della somma, da parte del creditore medesimo, sebbene non possa costituire, di per se stessa, regola per un atto incompatibile con la volontà di costui di far valere, in sede contenziosa, la tutela di un maggiore o diverso diritto in ordine al rapporto da cui dipende la liquidazione della somma (cfr. Cass. 22 marzo 1991 n. 3101), comporta comunque l’osservanza della norma di cui all’art. 1364 c.c. (secondo cui il contratto non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare), applicabile anche agli atti unilaterali tra vivi, per il rinvio disposto dall’art. 1324 c.c., non censurato l’accertamento da ricorrente sotto detto profilo, per quanto sopra esposto al primo motivo del ricorso (ossia la mancata impugnazione delle rationes decidendi del giudice distrettuale quanto alla domanda riconvenzionale di danno per ritardato pagamento).

Con il quarto ed ultimo motivo viene lamentata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa l’applicazione del principio della integrale compensazione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

Anche detto motivo non merita accoglimento.

In proposito, si deve rilevare che la corte di merito ha fatto riferimento, per giustificare la compensazione delle spese dell’intero giudizio, all’esito complessivo della controversia. Una simile formula appare pertinente nel caso di specie a giustificare la decisione del giudice di merito, in quanto, dal complesso delle statuizioni adottate nella sentenza di primo grado e da quella di appello, emerge chiaramente la reciproca soccombenza delle parti, idonea di per sè a giustificare la compensazione delle spese.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

In applicazione del criterio della soccombenza – applicabile in considerazione della integrale reiezione dei motivi proposti – il ricorrente deve essere condannato ai pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1,700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2012

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