Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-05-2013) 11-06-2013, n. 25643

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Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 24 ottobre 2012 il Tribunale di Catania, adito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., ha respinto la richiesta di riesame proposta da D.R. avverso l’ordinanza del 28 settembre 2012 con la quale il G.I.P. in sede aveva applicato nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere siccome gravemente indiziato, in concorso con altri soggetti già giudicati con sentenza definitiva e precisamente B.M.D. e D. S.S., autoaccusatisi dei medesimi delitti, nonchè G.G. e GU.Gi., del delitto di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti di S.A., oltre che del delitto di tentato omicidio, anch’esso aggravato dai motivi abietti, in danno di C. S., delitti entrambi commessi il (OMISSIS).
2. I delitti anzidetti erano stati commessi nell’ambito di un conflitto che aveva contrapposto il clan mafioso "XXX", del quale l’indagato era intraneo, al clan mafioso "XXX", cui appartenevano le vittime, al fine di assicurare il predominio sul territorio del primo dei due clan in competizione fra di loro.
3.La partecipazione dell’odierno indagato ai delitti anzidetti era stata desunta dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia D.S.S. e B.M.D., i quali, fin dai primi interrogatori e poi più volte nel corso del processo svoltosi nei loro confronti innanzi alla Corte d’assise di Catania per tali delitti, conclusosi con sentenza di condanna del 9 dicembre 1999, confermata in appello con sentenza del 23 novembre 2002, ormai irrevocabile, avevano riferito, con dovizia di particolari, lo svolgimento dei delitti anzidetti, riferendo in particolare, fin dall’inizio delle loro propalazioni, che l’odierno indagato aveva ad essi partecipato quale componente del gruppo di fuoco che, a bordo di una Lancia Thema color oro, aveva speronato la Ford Fiesta, con a bordo il S. ed il C.; che anche l’odierno indagato aveva sparato con la pistola di cui era in possesso nei confronti del primo, rimasto ucciso a bordo dell’auto, a differenza del C., il quale, uscito dall’auto, era fuggito, inseguito dal B. e dall’odierno indagato, i quali, per una serie di incidenti occorsi alle loro armi, inceppatesi ovvero rimaste scariche, erano riusciti solo a ferire ai glutei il fuggiasco, rifugiatosi in un’abitazione di persona vicina al suo clan, sita nei pressi.
Le dichiarazioni rese dai due collaboratori anzìdetti, ritenute particolarmente attendibili, siccome autonome, convergenti e provenienti da soggetti portatori di un patrimonio conoscitivo direttamente acquisito, erano state altresì corroborate da quanto riferito da un terzo collaboratore, D.G., testimone oculare dei fatti, ai quali aveva assistito dal balcone della casa della madre; il D. aveva riferito della presenza di due soggetti, identificati nel B. e nell’odierno indagato, i quali, partecipi del gruppo di fuoco, avevano inseguito e sparato contro il C..
4. Il Tribunale ha poi ritenuto che nella presente sede cautelare non poteva essere presa in esame la questione, pur sollevata dall’indagato, concernente l’applicabilità in suo favore dell’istituto della retrodatazione dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, per essere stato egli sottoposto ad un precedente provvedimento cautelare disposto nei suoi confronti il 19 settembre 1998 per il reato di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, contestatagli a far data dal 28 luglio 1990 con condotta permanente, sulla base delle propalazioni dei medesimi collaboratori D.S. e B.; invero l’ordinanza custodiale impugnata non aveva fatto alcun riferimento a quella precedente risalente al 1998, si che mancavano nella specie i presupposti che avrebbero consentito al giudice del riesame di affrontare in modo organico e compiuto l’anzidetta questione di contestazione a catena.
5. Il Tribunale ha infine ritenuto la sussistenza di valide esigenze cautelari, idonee a giustificare la misura cautelare inframuraria impugnata, con riferimento alla gravità dei fatti addebitati, commessi in concorso con altri e con l’uso di plurime e micidiali armi da fuoco; alla negativa personalità dell’indagato, già condannato in via definitiva per partecipazione ad associazione di stampo mafioso; alla concreta possibilità che l’indagato potesse riannodare i pregressi vincoli con circuiti di criminalità organizzata, ritenuta sussistente nonostante il lungo tempo trascorso dalla commissione dei delitti per i quali si procedeva.
6.Avverso detto provvedimento del Tribunale del riesame di Catania propone ricorso per cassazione D.R. per il tramite del suo difensore, che ha dedotto:
1)- erronea applicazione della legge penale e processuale, nonchè violazione art. 407 c.p.p., comma 3, in quanto le dichiarazioni rese dai pentiti B.M.D. e D.S.S., unici elementi di prova a suo carico, erano state acquisite dopo la scadenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari, atteso che, esaminata la sequenza degli atti, era da ritenere che tutta l’attività d’indagine svolta dal P.M. nei suoi confronti per i reati in esame era stata compiuta in data successiva alla sua iscrizione nel registro degli indagati (avvenuta nel febbraio 2004), in quanto il materiale probatorio per i delitti in esame era stato acquisito nei suoi confronti solo nel settembre 2011. Erroneamente il Tribunale del riesame aveva respinto l’eccezione, avendo sostenuto che l’acquisizione dei verbali resi dai collaboranti B. e D. S. per l’odierno procedimento non costituiva un ulteriore atto d’indagine del P.M., ma era da qualificare come autonoma allegazione degli esiti di un’attività processuale, espletata in epoca anteriore all’iscrizione del presente procedimento nel registro degli indagati, si da non potervi ravvisare il divieto normativo innanzi riferito; ed invero dire che, nella specie, si fosse trattato di mera allegazione di attività processuale era un mero artificio linguistico, in quanto era evidente che l’acquisizione di quei verbali coincideva con l’unica attività investigativa svolta nei suoi confronti.
In via subordinata il ricorrente ha sollevato eccezione d’illegittimità costituzionale dell’art. 407 c.p.p., comma 3, art. 405 c.p.p., comma 2 e art. 335 c.p.p., comma 1 per violazione degli artt. 3, 76 e 112 della Costituzione nella interpretazione che ne è stata data dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza A/9/09, Lattanzi.
2)- motivazione carente, per avere il Tribunale ritenuta legittima la misura cautelare impugnata, riferita ad un omicidio e tentato omicidio commessi 22 anni prima, con un ritardo ingiustificabile, siccome ascrivibile solo alla colpevole inerzia del P.M., che avrebbe potuto esercitare già 20 anni prima i suoi poteri e fare le stesse richieste; l’applicazione della misura carceraria nei suoi confronti era da ritenere illegittima, per avere i giudici ritenuto di aver dovuto prevenire il pericolo di reiterazione di condotte criminose dello stesso tipo senza avere valutato le significative circostanze a lui favorevoli, non avendo esaminato la concretezza ed attualità delle esigenze cautelari alla luce del lungo tempo trascorso dai fatti, risalenti al 1990.
Invero dai documenti prodotti era emerso che egli aveva nel frattempo tenuto una condotta tale da escludere che potesse reiterare analoghe condotte, avendo tenuto un comportamento conforme alle prescrizioni sia durante il periodo in cui era stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s., sia durante il periodo in cui era stato sottoposto alla libertà vigilata; non avendo alcun carico pendente ed essendo ormai inserito nella società, anche per avergli il Ministero della giustizia revocato il regime di alta sorveglianza. Qualora fosse stata confermata la misura custodiale in atto, sarebbe stata operato uno stravolgimento della custodia cautelare, che da strumento di cautela, sarebbe divenuta un’anticipazione di pena, non sussistendo nella specie elementi concreti dai quali potersi evincere che egli potesse attualmente commettere reati della stessa specie;
3)- erronea applicazione della legge penale e motivazione illogica e contraddittoria per essersi il Tribunale del riesame dichiarato incompetente a decidere l’eccezione di inefficacia della misura cautelare, da lui sollevata ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3.
Pur se dall’ordinanza custodiale impugnata non fossero emersi spunti tali da consentire al giudice adito di affrontare la questione della decorrenza dei termini della custodia cautelare da lui sofferta, in quanto ciò avrebbe comportato l’acquisizione di ulteriori atti di indagine, era pur sempre vero che detti elementi facevano parte integrante del materiale trasmesso dal G.I.P. al Tribunale e prodotto dalla difesa, si che la motivazione dell’ordinanza impugnata si era tradotta in un ingiustificato diniego di valutare incidentalmente la prima ordinanza applicativa nei suoi confronti della custodia cautelare in carcere per il delitto di associazione mafiosa, onde accertare se, nella specie, fossero ravvisabili gli estremi per ritenere violata la regola di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, concernente il divieto delle c.d. contestazioni a catena.
Motivi della decisione
1. E’ infondato il primo motivo di ricorso proposto da D. R..
2.Con esso il ricorrente lamenta violazione dell’art. 407 c.p.p., comma 3, per avere il P.M. acquisito le dichiarazioni rese dai collaboratori B.M.D. e D.S.S. dopo la scadenza dei termini di durata massima delle indagini preliminari, essendo avvenuta la sua iscrizione nel febbraio 2004, mentre il materiale probatorio anzidetto era stato acquisito solo nel settembre 2011.
3. Questa Corte ha invero già avuto occasione di affermare (cfr.
Cass. Sez. 1 n. 24905 del 19/5/2009, Abbruzzese, Rv. 243814) che ben possono essere acquisiti ed utilizzati, ai fini dell’emissione di un provvedimento di natura cautelare personale, atti d’indagine, in particolare verbali di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, provenienti da altro procedimento conclusosi con sentenza di condanna ed in epoca precedente al decreto di riapertura delle indagini, atteso che trattasi di atti che hanno avuto la loro genesi ed il loro sviluppo in un autonomo e definito contesto processuale, si da non poter essere equiparati a nuove attività di indagini svolte dal P.M., principio questo che il Collegio condivide e rende infondata l’eccezione.
Va conseguentemente ritenuta la irrilevanza nel caso di specie della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente avente ad oggetto l’art. 407 c.p.p., comma 3, art. 405 c.p.p., comma 2 e art. 335 c.p.p., comma 1 per violazione degli artt. 3, 76 e 112 Cost., attesa la rilevata distinzione che occorre operare fra atti di indagine del P.M. e materiale probatorio autonomamente sviluppato e reso indiziariamente rilevante in un separato contesto processuale, il che peraltro nel caso di specie è avvenuto in data anteriore rispetto all’iscrizione o iscrivibilità della relativa notizia di reato nel registro degli indagati.
4. E’ altresì infondato il secondo motivo di ricorso.
Va premesso che non è dato valutare nella presente sede di legittimità l’anomala sequenza dei fatti rappresentata dal ricorrente, il quale ha vivamente contestato che la misura cautelare inframuraria sia stata adottata dal P.M. nei suoi confronti solo 22 anni dopo il delitto di omicidio cui essa si riferiva.
Nella presente sede è dato unicamente valutare la congruità della motivazione addotta dal Tribunale del riesame per ritenere sussistente nella specie le esigenze cautelari sotto la specie del pericolo di reiterazione di analoghe condotte criminose, ai sensi dell’art. 274 c.p.p., lett. c). E’ noto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il parametro della concretezza del pericolo di reiterazione di reati della stessa indole non può essere affidato ad elementi meramente congetturali ed astratti, dovendosi viceversa far riferimento a dati di fatto oggettivi ed indicativi di inclinazioni comportamentali e della personalità dell’indagato, tali da consentire di affermare che quest’ultimo possa facilmente, verificandosene l’occasione, commettere altri reati della stessa specie (cfr. Cass. Sez. 6 n. 38763 dell’8/3/2012, Miccoli, Rv.
253372). Tanto premesso va rilevato che, nella specie, appare corretta ed esaustiva la motivazione addotta dal Tribunale del riesame per ritenere sussistente a carico dell’indagato il pericolo di recidiva, nonostante il lungo tempo trascorso dai fatti, avendo fatto riferimento all’obiettiva gravità del fatto, idoneo a suscitare vivo allarme sociale per le efferate e feroci modalità esecutive, descritte in parte narrativa; al contesto di contrapposizione fra due clan mafiosi, nel quale il duplice delitto era da inserire; al fatto che l’indagato fosse stato già condannato in precedenza per partecipazione ad associazione di stampo mafioso;
all’esperienza giudizialmente acquisita in lunghi anni di contrasto alla criminalità mafiosa circa il permanere intatto nel tempo del potere delle consorterie mafiose, che si erano contrapposte nella faida sopra descritta, nel cui ambito erano avvenuti i delitti in esame, con conseguente attuale e concreta possibilità che l’indagato possa ancora essere ad esse collegato, salvo personali percorsi riabilitativi pur possibili, ma che devono comunque essere accertati con estrema cautela e che, allo stato, non erano stati chiaramente delineati.
5.E’ invece fondato il terzo motivo di ricorso, con cui si lamenta che il Tribunale del riesame si sia dichiarato incompetente a decidere l’eccezione di inefficacia della misura cautelare, sollevata dal ricorrente ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3 con riferimento ad una precedente misura cautelare applicatagli per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa e risalente al 19 settembre 1998.
Non si ritiene invero che il Tribunale del riesame abbia fatto corretta applicazione dei principi di diritto fissati sul punto dalla sentenza delle Sezioni unite di questa Corte 19/7/2012, P.M. in proc. XXX, secondo cui, in tema di contestazione a catena, la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare può essere dedotta anche nel corso di un procedimento di riesame, purchè ricorrano congiuntamente due condizioni e precisamente: -la sussistenza di un termine interamente scaduto per effetto della retrodatazione, al momento dell’emissione del secondo provvedimento cautelare; -la possibilità di desumere dal secondo provvedimento cautelare oggetto dell’impugnazione elementi incontrovertibili, i quali consentano di ritenere sussistenti i presupposti per l’applicazione della norma di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3.
Di tali condizioni, la prima, come lo stesso Tribunale ha riconosciuto, risulta pacificamente verificatasi nel caso in esame, nel quale la prima custodia cautelare da lui subita per il delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso è quasi coeva ai fatti omicidiari cui si riferisce la seconda ordinanza custodiale impugnata nella presente sede.
E, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, deve ritenersi che sussista anche la seconda condizione alla luce della ratio della richiamata sentenza delle Sezioni unite dalla cui motivazione si evince che ciò che non può essere richiesto al giudice del riesame, privo di poteri istruttori e vincolato da ristretto termine per la decisione, è di pronunciarsi sulla questione della retrodatazione ex art. 297 c.p.p., comma 3 quando siano necessari accertamenti al di fuori del materiale a sua disposizione che però, lo si dice chiaramente nella motivazione, non è rappresentato solo dalla ordinanza custodiale ma anche dagli "atti trasmessi dal pubblico ministero" e da "quelli eventualmente addotti dalle parti nel corso dell’udienza".
Orbene, emerge dagli atti che effettivamente, come sostenuto dalla difesa, il Tribunale del riesame era stato messo in grado di esaminare i dati fattuali rilevanti in ordine alla dedotta violazione dell’art. 297 c.p.p., comma 3, essendo tali dati chiaramente evincibili dalla documentazione trasmessa ai sensi dell’art. 309 c.p.p., comma 5 e dall’ordinanza emessa il 19/9/98 per il reato di cui all’art. 416-bis c.p., ordinanza non riportata nel provvedimento impugnato ma che lo stesso Tribunale da atto essere stata prodotta dalla difesa nella parte riguardante il ricorrente; ed il giudice del riesame avrebbe quindi potuto agevolmente pronunciarsi nel merito della questione senza necessità di acquisire alcun’altra documentazione, ovvero di espletare alcuna ulteriore attività istruttoria.
6.Da quanto sopra consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata, limitatamente alla questione avente ad oggetto la richiesta di declaratoria d’inefficacia della misura custodiate in carcere ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, con rinvio per nuovo esame sul punto al Tribunale di Catania.
7.Il ricorso va rigettato nel resto.
8.Si provveda all’adempimento di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente alla richiesta di declaratoria d’inefficacia della misura ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3 e rinvia per nuovo esame al riguardo al Tribunale di Catania; rigetta nel resto il ricorso. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2013
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