Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-08-2012, n. 14488

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Il Tribunale di Firenze dichiarava la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro stipulato tra P.M. e la società Poste Italiane in data 27 dicembre 1999 ex art. 8 del c.c.n.l. 1994 e successivi accordi sindacali;

l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data, condannando la società Poste al pagamento delle retribuzioni dalla costituzione in mora. La Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 17 gennaio 2007, respingeva il gravame proposto dalla società Poste. Quest’ultima propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

Resiste il P. con controricorso.

Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la società Poste denuncia la violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonchè omessa o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Si duole in sostanza la società della mancata valutazione dell’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, valutato l’apprezzabile lasso di tempo tra la risoluzione del rapporto e la manifestazione di una volontà oppositoria da parte del lavoratore.

Il motivo è inammissibile, per la sua genericità, non avendo la ricorrente, neppure nel quesito di diritto formulato ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., chiarito il tempo trascorso dalla risoluzione dei rapporti e l’offerta della prestazione lavorativa.

Converrà al riguardo comunque rammentare il pacifico orientamento di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. 11 marzo 2011 n. 5887) secondo cui ai fini della configurabilità della risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (costituente una eccezione in senso stretto, Cass. 7 maggio 2009 n. 10526, il cui onere della prova grava evidentemente sull’eccepiente, Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279), non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio dei suoi diritti, essendo piuttosto necessario che sia fornita la prova di altre significative circostanze denotanti una chiara e certa volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (Cass. 15 novembre 2010 n. 23057).

2. Con il secondo, terzo e quarto motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 c.c. e segg. nonchè omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che la corte di merito, in contrasto con le norme richiamate, non considerò adeguatamente che con la delega contenuta nel citato art. 23, le parti sociali erano libere di individuare nuove e diverse ipotesi di assunzione a tempo determinato, senza altri limiti se non quello dell’osservanza di un limite percentuale dei lavoratori da assumere, sicchè le pattuizioni collettive erano sottratte dal sindacato giurisdizionale, e segnatamente in ordine all’esistenza di un nesso causale tra le ragioni di assunzione e la singola stipula del contratto a tempo determinato.

Lamenta inoltre che i giudici di merito non avevano adeguatamente considerato che nessun limite temporale, sino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, poteva essere imposto alle pattuizioni sindacali delegate.

Si duole ancora che la Corte di merito, nel valutare l’esistenza di un nesso causale tra le assunzioni disposte e le esigenze di cui all’art. 8 c.c.n.l. 1994 e successivi accordi sindacali, richiamate in contratto, ritenne irrilevanti le prove articolate sul punto dalla società Poste, senza comunque far uso dei poteri ufficiosi previsti dagli artt. 421 e 437 c.p.c..

3. I motivi, che stante la loro connessione possono essere congiuntamente trattati, risultano infondati.

La sentenza impugnata, infatti, non ha ritenuto le pattuizioni collettive, in tema di individuazione di nuove ipotesi di contratto a tempo determinato L. n. 56 del 1987, ex art. 23 soggette ai requisiti di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 ma solo che esse avessero inteso prevedere un limite temporale alle specifiche esigenze organizzative legittimanti le assunzioni a termine di cui al c.c.n.l.

26 novembre 1994 e successivi accordi integrativi.

L’assunto risulta assolutamente rispettoso dell’autonomia negoziale collettiva, che, pur delegata alla individuazione di nuove ipotesi di assunzione a tempo determinato, non si sottrae ai principi generali dell’ordinamento in materia di sindacato giurisdizionale e di onere della prova.

E’infatti evidente che, pur libere le parti sociali di stabilire nuove ipotesi di assunzione a termine, resta onere di chi per tale causale assume a tempo determinato di dimostrare che l’assunzione è avvenuta e trova titolo nella pattuizione sindacale, restando l’esistenza di tale nesso causale soggetto al sindacato giurisdizionale.

Quanto alla ritenuta limitata efficacia temporale degli accordi intervenuti all’interno della società Poste, anche tale assunto risulta assolutamente rispettoso dell’autonomia negoziale collettiva ed in linea col consolidato orientamento di questa Corte (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006 n. 13458, Cass. 20 gennaio 2006 n. 1074, Cass. 3 febbraio 2006 n. 2345, Cass. 2 marzo 2006 n. 4603), secondo cui dall’esame dei vari accordi in materia si evince che le parti sociali autorizzarono la stipula di contratti a tempo determinato per le causali di cui all’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, sino al 30 aprile 1998.

Le altre censure restano pertanto assorbite dalle precedenti considerazioni.

3.- Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto; omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Lamenta la società Poste che ai fini della condanna al risarcimento dei danni in tesi patiti dal lavoratore, è necessario che questi provi il danno subito e che abbia offerto formalmente la sua prestazione lavorativa e che il datore di lavoro l’abbia illegittimamente rifiutata.

Ad illustrazione del motivo formulava il seguente quesito di diritto:

"Dica la Corte se in caso di domanda proposta dal lavoratore a seguito dell’intervenuto scioglimento del rapporto di lavoro determinatosi per effetto dell’iniziativa del datore fondata su clausola risolutiva contrattuale nulla, rimane a carico dello stesso lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da "scioglimento del rapporto di lavoro fondato su clausola risolutiva contrattuale nulla" e tale danno può equivalere alle retribuzioni perdute detratto l’aliunde perceptum a causa della mancata esecuzione delle prestazioni lavorative; ma presuppone che queste siano state offerte dal lavoratore e che il datore le abbia illegittimamente rifiutate. Dica la Corte se il risarcimento è da escludersi ove si accerti che il danno del lavoratore (derivante dalla perdita della retribuzione) si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti (cd. aliunde perceptum) per prestazioni lavorative svolte nel periodo considerato presso altri datori di lavoro".

Il quesito, e con esso il motivo (Cass. sez.un. 9 marzo 2009 n. 5624), è inammissibile, non contenendo alcuno specifico riferimento la caso di specie, e neppure alcuna indicazione delle norme di diritto in tesi violate.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, "Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge", Cass. 17 luglio 2008 n. 19769. In termini: Cass. ord. n. 19892 del 25 settembre 2007, secondo cui "E’ inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il ricorso per cassazione nel quale il quesito di diritto si risolva in una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo".

Non specifica inoltre se nella specie vi sia stato un aliunde perceptum, quale il suo ammontare e se la relativa eccezione sia stata formulata in appello.

4. Considerato che la censura inerente l’aliunde perceptum è risultata inammissibile, è inammissibile anche la richiesta, contenuta nella memoria ex art. 378 c.p.c., di applicazione dello ius superveniens costituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, dichiarato costituzionalmente legittimo da C. Cost. n. 303/11.

Ed invero va evidenziato che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici e rituali motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

5. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2012

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