Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-08-2012, n. 14537

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato che:
1. La Corte d’appello di Palermo, per quanto ancora rileva in questo giudizio di legittimità, in riforma della sentenza di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 14 giugno 2000 stipulato da xxx s.p.a. con P.L..
2. Per la cassazione di tale sentenza xxx s.p.a. ha proposto ricorso illustrato da memoria; la lavoratrice ha resistito con controricorso.
3. Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.
4. Con i primi due motivi la società ricorrente censura (denunciando violazione dell’art. 1372 cod. civ., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 cod. civ.; degli artt. 116, 420 e 437 cod. proc civ. e vizio di motivazione) la statuizione della sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.
5. Le censure sono infondate; secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte (cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto non fosse sufficiente, stante la sua durata, e in mancanza di ulteriori significativi elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso; è da sottolineare che nel percorso motivazionale adottato dalla Corte di merito l’argomento concernente la Circolare INPS del 1999 ha carattere assolutamente marginale, costituendo solo un ulteriore elemento di valutazione richiamato per rafforzare una motivazione già di per sè completa e sufficiente; le censure basate sulla non utilizzabilità del suddetto documento ovvero sulla sua interpretazione sono pertanto inammissibili in quanto concernenti profili non decisivi della sentenza impugnata.
6. Quanto alla statuizione concernente l’illegittimità del termine osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo ai fini della statuizione sull’illegittimità del termine, tra l’altro, alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.
7. Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che l’attribuzione alia contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato (cfr. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063; cfr. altresì Cass. 20 aprile 2006 n. 9245, Cass. 7 marzo 2005 n. 4862, Cass. 26 luglio 2004 n. 14011). Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati all’individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (cfr., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378); in tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23 agosto 2006 n. 18383, Cass. 14 aprile 2005 n. 7745, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866); in particolare, quindi, come questa Corte ha univocamente affermato e come va anche qui ribadito, in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l’ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti in contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608;
Cass. 28 novembre 2008 n. 28450; Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; Cass. 27 marzo 2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
8. Devono essere pertanto respinti il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso con i quali si denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2, della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dell’art. 1362 cod. civ., e segg., in relazione all’accordo sindacale del 25 settembre 1997 e ai successivi accordi collettivi intervenuti fra le parti, nonchè vizio di motivazione.
9. Col sesto e settimo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1218, 1219, 1223, 2094, 2099 e 2697 cod. civ., con riferimento alla statuizione con cui la Corte di merito ha condannato la società al risarcimento del danno derivante dalla declaratoria di illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro; l’ammontare di tale danno è stato determinato dalla Corte territoriale con riferimento alle retribuzioni maturate dalla data di costituzione in mora (individuata con quella della notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado) fino alla effettiva riammissione al lavoro; la stessa sentenza ha dichiarato inammissibile l’eccezione relativa all’aliunde perceptum in quanto formulata in termini del tutto ipotetici.
10. Il sesto motivo si conclude con i seguenti quesiti di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ.: 1) per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.; 2) se in applicazione del principio di sinallagmaticità che disciplina il rapporto a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro subordinato, l’accertamento della nullità dell’apposizione del termine comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni per l’intervallo in cui non ha reso la prestazione e se dalie somme dovute a titolo risarcitorio ed in applicazione delle previsioni di cui all’art. 1218 cod. civ., e segg. e dell’art. 2043 cod. civ., e segg., in quanto dai primi richiamati, devono detrarsi i ricavi percepiti o percepibili facendo uso dell’ordinaria diligenza (rientrando detti ultimi tra le ipotesi di danno riconducibile a fatto e colpa del soggetto che si assume danneggiato) dal lavoratore (sul quale graverebbe conseguentemente l’onere di provare di aver posto in essere ogni attività utile ad eliminare o limitare il danno) che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa.
11. Osserva il Collegio che i suddetti quesiti risultano del tutto generici e sostanzialmente non pertinenti rispetto alla fattispecie, in quanto si risolvono nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (cfr. Cass. 4 gennaio 2011 n. 80; Cass., 29 aprile 2011 n. 9583); ciò in contrasto con i principi enunciati da questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36) secondo cui il principio di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio, dovendosi ritenere inesistente un quesito generico e non pertinente, con conseguente inammissibilità del relativo motivo, come nel caso di specie (per una analoga fattispecie cfr. Cass. 1 settembre 2011 n. 17674).
12. L’inammissibilità si applica anche al settimo motivo col quale viene denunciato il vizio di motivazione atteso che manca il "momento di sintesi" che la giurisprudenza di questa Corte (cfr., in particolare, Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556) ha individuato come una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.
13. Sempre con riferimento alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, si pone il problema dell’applicabilità al caso di specie dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010; il problema è stato esplicitamente sollevato da xxx s.p.a. con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
14. Con riguardo alla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti (ai quali fa riferimento il comma 7 dell’art. 32 sopra citato) anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; ne consegue che, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine e che essi siano ammissibili; in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile.
15. La suddetta condizione non sussiste nel caso di specie per le ragioni sopra esplicitate.
16. Il ricorso va pertanto respinto.
17. In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 50,00 per esborsi, Euro 3000 (tremila) per onorari e oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2012

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