Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-08-2012, n. 14530

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata (depositata il 30 novembre 2007) – riformando la sentenza del Tribunale di Catania n. 2252/2003 del 28 ottobre 2003 – dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato dalla xxx s.p.a. a D.F.S. in data 27 giugno 2000 e, per l’effetto, condanna la suddetta società a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro e a corrisponderle l’importo delle retribuzioni dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, oltre agli accessori di legge e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
La Corte d’appello di Catania, per quel che qui interessa, precisa che:
a) dall’esame della documentazione in atti e dalle risultanze della prova testimoniale espletata non si evince, nei termini argomentati dal Tribunale, l’effettiva contrazione dell’attività della società xxx, nel senso da questa prospettato nella memoria di costituzione, ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento;
b) va, infatti, ricordato che, in linea generale, il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3), a differenza del licenziamento collettivo, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il lavoratore interessato, il quale ha diritto di ottenere dal datore di lavoro la dimostrazione della concreta riferibilità del licenziamento ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, comportanti la definitiva soppressione del proprio posto di lavoro e delle relative mansioni nonchè la riorganizzazione aziendale cui consegua una riduzione dei costi di gestione;
c) il datore di lavoro ha anche l’onere di dimostrare l’impossibilità di utilizzare in altro modo il lavoratore licenziato, ricorrendo, fuori da rigidi schemi, a fatti positivi corrispondenti, come la stabile occupazione, da parte di altri lavoratori, dei residui posti riguardanti mansioni equivalenti rispetto a quelle affidate al lavoratore licenziato, ovvero la mancata effettuazione di nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato, successivamente al licenziamento e per un congruo periodo di tempo;
d) nella specie, essendo pacifica l’adibizione della D.F. a mansioni di impiegata di ordine come operatrice meccanografica di 4^ livello, non risultano sufficientemente provate le ragioni tecnico- produttive poste a fondamento del licenziamento;
e) invero, a tal fine, risultano inconferenti gli atti prodotti in giudizio dalla società, riguardanti solo perdite di esercizio (dovute alla risoluzione di contratti di mandato da parte di diverse case farmaceutiche, peraltro verificatesi molto prima o dopo l’intimato licenziamento), ma non il volume d’affari della società stessa, dato sicuramente più significativo;
f) d’altra parte, non risulta essere stata attestata e dimostrata l’effettività della riorganizzazione aziendale, la quale non può in concreto consistere nella sola soppressione di posti di lavoro;
g) è anzi emerso che, contemporaneamente al licenziamento in oggetto e nel periodo immediatamente seguente, la società xxx ha effettuato numerose nuove assunzioni sia nell’area tecnica sia in quella amministrativa, utilizzando a tal fine sia contratti a termine, sia contratti a tempo indeterminato, sia contratti di lavoro parasubordinato;
h) ne risulta negata in concreto la consequenzialità tra la scelta operata e le dedotte ragioni del deciso atto risolutivo nonchè la effettiva "convenienza" delle scelte organizzative poste in essere rispetto agli obiettivi dichiaratamente perseguiti;
i) nè assumono valore in contrario le argomentazioni della società che, al fine di provare la correttezza e legittimità del licenziamento, tendono a svilire il dato incontrovertibile delle nuove assunzioni effettuate, sottolineando la natura temporanea di alcune di esse e l’intervenuta successiva risoluzione di molte delle assunzioni avvenute con contratti a tempo indeterminato;
l) è, infatti, evidente la necessità di cristallizzare la valutazione della correttezza dell’operato aziendale alla data della disposta risoluzione, contestata nella presente controversia;
m) da ultimo, non risulta neanche provato che, al fine di consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro della D.F., non fosse possibile ricorrere ad una dequalificazione concordata della lavoratrice, mentre deve ribadirsi quanto statuito dal Tribunale – e non specificamente contestato o sconfessato dalla società xxx in merito alla mancanza di una effettiva prova da parte della società dell’offerta effettuata alla lavoratrice di trasferimento a (OMISSIS), per consentirle il mantenimento del posto di lavoro.
1 – Il ricorso di xxx s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, D. F.S..
Motivi della decisione
1 – Sintesi dei motivi di ricorso.
1.- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dei canoni interpretativi di cui all’art. 1362 cod. civ., commi 2 e 3 (con particolare riferimento all’intenzione delle parti e al comportamento complessivo di queste ultime, anche posteriore alla manifestazione negoziale), nonchè dell’art. 112 cod. proc. civ..
Si sostiene che la Corte d’appello ha considerato come unica e fondamentale ragione tecnico-produttiva – posta dalla datrice di lavoro a giustificazione del licenziamento in oggetto – l’avvenuta risoluzione dei rapporti di mandato con la società stessa da parte di diverse case farmaceutiche, peraltro risalente ad epoca di molto precedente l’intervenuto recesso o addirittura ad esso successiva.
In tal modo la Corte catanese non si sarebbe pronunciata su tutta la domanda (in contrasto con l’art. 112 cod. proc. civ.), visto che la società aveva specificato ritualmente quali fossero le reali ragioni tecnico-produttive poste a fondamento del licenziamento e non avrebbe rispettato l’art. 1362 cod. civ., nella parte in cui impone di indagare, per ogni manifestazione negoziale, sulla reale intenzione del soggetto attivo del negozio, anche con riferimento al comportamento da questi tenuto dopo la manifestazione negoziale stessa.
2- Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 41 Cost., comma 1, in riferimento alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3 e alla L. n. 108 del 1990, art. 18 (applicati in maniera erronea e falsa), nonchè dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alle effettive ragioni del recesso.
Si ribadisce che la Corte catanese non ha esaminato, nè ha considerato nella motivazione della sentenza impugnata, le reali ragioni tecnico-produttive poste a fondamento del recesso e le prove documentali prodotte al riguardo dalla società (rilevanti perdite riscontratesi, per gli eccessivi costi di gestione, nella esecuzione dei mandati di distribuzione relativi ai prodotti xxx e xxx, risultanti dalle allegate relazioni sulla gestione finanziaria effettuate dal Collegio sindacale della società per gli anni 1999 e 2000), pur avendone dato conto nella parte relativa allo "svolgimento del processo".
Tale errore avrebbe determinato evidenti contraddizioni in tutta la motivazione anche sulla valutazione dell’assolvimento, da parte della società, dell’onere probatorio a suo carico e comunque si sarebbe tradotto in un improprio sindacato, da parte della Corte d’appello, del merito della convenienza della scelta operata dall’imprenditore, in contrasto con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità in materia di verifica della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
3.- Con il terzo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 2697 cod. civ. nonchè degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., con riguardo al travisamento delle ragioni del recesso; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o comunque insufficiente motivazione sulle effettive ragioni del recesso.
Sempre in riferimento al medesimo fatto controverso – rappresentato dalle effettive ragioni del licenziamento – si sostiene che la motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alle nuove assunzioni effettuate dalla società, sarebbe fondata su una valutazione del libro matricola in atti palesemente erronea, soprattutto con riguardo alle assunzioni effettuate dopo il licenziamento della D.F., visto che si è trattato solo di stipulazioni di contratti di lavoro parasubordinato o a tempo determinato (ma per posizioni lavorative di livello inferiore rispetto a quella della D.F.).
La Corte catanese sulla base di detto errore, senza fare distinzioni tra assunzioni precedenti e successive al licenziamento in oggetto e senza considerare le diversità esistenti tra le varie assunzioni, esclude che l’azienda stesse attraversando un periodo di crisi – mentre tale circostanza era stata pienamente provata dalla società – e finisce per considerare apoditticamente le assunzioni come fonte di illegittimità del licenziamento in oggetto.
Inoltre, si sostiene che la Corte d’appello non ha valutato adeguatamente le vicende successive al recesso perchè si è spinta a sindacarne l’opportunità e la convenienza e non le ha invece considerate come elementi confermativi della non pretestuosità della scelta datoriale di intimare il licenziamento, in vista di un futuro riassetto aziendale.
4.- Con il quarto motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, falsa applicazione del dovere di correttezza di cui all’art. 1175 cod. civ., nonchè violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., con riguardo alle prove testimoniali raccolte in giudizio; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa e contraddittoria motivazione sul punto del repechage comunque garantito dalla società alla D.F..
Si contesta la motivazione adottata dalla Corte catanese a proposito del repechage della lavoratrice, in particolare, per i seguenti due aspetti: a) aver ritenuto doverosa l’offerta, da parte della datrice di lavoro, di una dequalificazione concordata della lavoratrice; b) aver considerato ininfluenti gli esiti della prova testimoniale raccolta in giudizio sulla offerta effettuata alla D.F. della possibilità di un trasferimento a (OMISSIS), in alternativa al licenziamento.
2 – Esame delle censure.
5.1 motivi di ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere per molteplici ragioni.
5.1.- In linea generale, si deve rilevare che i quesiti di diritto posti a corredo dei motivi di ricorso non risultano conformi a quanto stabilito dall’art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile nella specie ratione temporis, perchè sono assolutamente generici e inadeguati.
Inoltre tutti i motivi – nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nelle relative intestazioni – prospettano censure che si risolvono in realtà nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti.
Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante Cass. 18 ottobre 2001, n. 21486; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394;
Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).
Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
5.2.- In particolare, per quel che riguarda il primo motivo, va precisato che non solo risulta generico il relativo quesito, ma lo stesso difetto riguarda anche le censure con esso prospettate, che si limitano a tratteggiare ma non specificano quali sarebbero le questioni sulle quali la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi nè quale sia il negozio giuridico al quale la ricorrente intende riferirsi.
Comunque, va ricordato, con particolare riferimento ai primi tre motivi, che è jus receptum che:
a) in tema di interpretazione del contratto o di un atto unilaterale ex art. 1324 cod. civ., il sindacato di legittimità deve essere condotto non sulla ricostruzione della volontà delle parti, o dell’unica parte che costituisce un accertamento di fatto non consentito in sede di legittimità – ma soltanto sulla individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di riscontrare errore di diritto o vizi del ragionamento (Cass. 16 settembre 2002, n. 13543);
b) i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, quelli strettamente interpretativi (artt. 1362 e 1365 cod. civ.) prevalgono su quelli interpretativi- integrativi (artt. 1366 e 1371 cod. civ.) ove la concreta applicazione degli stessi risulti da sola sufficiente a rendere pienamente conto della comune intenzione delle parti (vedi, al riguardo, ex plurimis, Cass. 9 febbraio 2006 n. 9553), nell’ambito dei canoni strettamente interpretativi risulta poi, nella legge, prioritario il criterio fondato sul significato letterale delle parole, di cui all’art. 1362 c.c., comma 1, con la conseguenza che questo può in alcuni casi orientare in maniera conclusiva, da solo, l’operazione ermeneutica (vedi, per tutte: Cass. 31 maggio 2010, n. 13276);
c) l’interpretazione della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità e, pertanto, la Corte di cassazione è abilitata all’espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorchè il giudice del merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda, ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine, essendo il relativo sindacato esercitarle nei limiti del vizio di motivazione (vedi, fra le tante:
Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 5 ottobre 2009, n. 21228; Cass. 9 settembre 2008, n. 22893);
d) ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311;
Cass. 21 luglio 2006, n. 16788; Cass. 10 maggio 2007, n. 10696).
Ne consegue che, sul punto relativo alle esposte ragioni-tecnico produttive poste a base del recesso datoriale, la sentenza impugnata è esente dalle censure prospettate dalla ricorrente avendo giustificato, con motivazione esauriente e logica, quali sono stati i motivi che l’hanno indotta – nel rispetto dei principi affermati da questa Corte al riguardo – a concludere che, dall’esame della documentazione in atti e dalle risultanze della prova testimoniale espletata non si evince, nei termini argomentati dal Tribunale, l’effettiva contrazione dell’attività della società xxx, nel senso da questa prospettato nella memoria di costituzione, ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento.
5.3.- Quanto, poi, alle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale in merito alle effettive ragioni del licenziamento medesimo, va precisato che esse risultano, oltre che dotate di congrua e logica motivazione, anche conformi ai consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte secondo cui:
1) con la sentenza delle Sezioni unite di questa Corte 10 gennaio 2006, n 141, è stato esaustivamente chiarito che, in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre il giustificato motivo del licenziamento, essendo un fatto impeditivo del suddetto diritto soggettivo del lavoratore deve essere provato dal datore di lavoro, il quale con l’assolvimento di quest’ultimo onere probatorio dimostra -ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa (tale principio costituisce ormai diritto vivente, essendosi ad esso uniformata la successiva giurisprudenza vedi, fra le tante: Cass. 16 marzo 2009, n. 6344; Cass. 14 ottobre 2011, n. 21279);
2) in tema di licenziamento, sebbene il giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive sia rimesso alla valutazione del datore di lavoro, come espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., esso deve essere pur sempre contemperato con il rispetto della dignità umana, trattandosi di diritto fondamentale della persona – richiamato dalla stessa norma costituzionale nonchè dalla legislazione del lavoro anche in relazione al diritto alla conservazione del posto di lavoro sul quale si fondano sia l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che sia l’art. 30 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore dal 1 gennaio 2009 (Cass. 27 ottobre 2010, n. 21967).
Ne consegue che la sentenza impugnata è esente da censure sul punto, in quanto con motivazione corretta e logica, ha pienamente rispettato la disciplina vigente sulla ripartizione dell’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento, come interpretata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte.
5.4.- Tutte le rimanenti censure si riferiscono a valutazioni di circostanze di fatto, come tali riservate al giudice del merito e non sindacabili in questa sede ove sorrette da congrua motivazione, come accade nel presente giudizio.
Va, peraltro, ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) è a carico del datore di lavoro l’onere di provare, con riferimento alla organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di effettuare utilmente il repechage del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, anche attraverso l’adibizione in mansioni diverse (anche di livello inferiore, se concordate) da quelle che prima svolgeva, giustificandosi il recesso solo come extrema ratio (Cass. 20 maggio 2009, n. 11720; Cass. 27 marzo 2010, n. 7381; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3040);
b) inoltre, può concorrere a provare la mancata effettuazione di altre assunzioni nel periodo seguente il licenziamento per le medesime mansioni già assegnate al lavoratore licenziato anche l’esibizione da parte del datore di lavoro del libro matricola, se completo e tenuto in conformità con la legge (arg. ex Cass. 8 marzo 2011, n. 5512; Cass. 26 gennaio 1984, n. 624).
A tale ultimo riguardo, deve essere precisato che i libri contabili che il datore di lavoro privato è obbligato a tenere (cioè il libro paga e il libro matricola previsti dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, dagli artt. 20 e 21 sostituiti, con decorrenza 10 febbraio 2012, dal libro unico del lavoro, di cui al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 29 convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133) sono formati dallo stesso datore di lavoro.
Ciò implica che i dati in essi contenuti hanno una diversa efficacia probatoria a seconda del contesto in cui si utilizzano, cioè in particolare se a favore o contro il datore di lavoro (Cass. 26 aprile 2012, n. 6501).
Se la loro utilizzazione avviene in favore del datore di lavoro, non solo la tenuta dei libri deve risultare regolare e completa, ma le registrazioni in essi contenute (di cui, ad esempio, si voglia giovare il datore di lavoro per dimostrare il numero complessivo e la qualifica dei dipendenti occupati) possono essere validamente contestate dalla controparte, con eventuali contrari mezzi di difesa o semplicemente con specifiche deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, che ne dimostrino l’inesattezza e la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (arg. ex Cass. 18 luglio 1985, n. 4243; Cass. 29 maggio 1998, n. 5361; Cass. 1 ottobre 2003, n. 14658).
Nel libro matricola, in particolare, devono essere iscritti, nell’ordine cronologico della loro assunzione in servizio e prima dell’ammissione al lavoro, tutti i prestatori d’opera (vedi D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 20 cit.).
Nella specie, la società ricorrente non riferisce che le registrazioni contenute nel libro matricola esibito siano risultate regolari e complete nè che non siano state oggetto di contestazione da parte della lavoratrice, ma si limita a sostenere apoditticamente che la relativa valutazione, da parte della Corte d’appello, è stata erronea e che le nuove assunzioni non sarebbero avvenute con contratti a tempo indeterminato, ma solo con contratti di lavoro parasubordinato o a tempo determinato e per posizioni lavorative di livello inferiore rispetto a quella della D.F..
In tal modo però la ricorrente non contrasta in modo efficace l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata – ed effettuata nell’ambito di una valutazione demandata al giudice del merito – secondo cui le numerose nuove assunzioni verificatesi in prossimità del licenziamento contraddicono nettamente la consequenzialità tra la scelta operata al riguardo e le dedotte ragioni del deciso atto risolutivo nonchè la effettiva "convenienza" delle scelte organizzative poste in essere rispetto agli obiettivi dichiaratamente perseguiti.
Allo stesso modo non risultano efficacemente contestate – nei limiti esaminabili in questa sede – le statuizioni della Corte catanese sulla mancanza di una prove adeguate sia in merito alla impossibilità di ricorrere ad una dequalificazione concordata della lavoratrice (al fine di consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro) sia in merito all’effettiva offerta prospettatale di trasferimento a (OMISSIS).
5.5.- Nel quarto motivo a tale ultimo riguardo, anzi, si fa un improprio richiamo alla violazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. senza considerare che in base a costanti e condivisi orientamenti di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. 27 dicembre 2011, n. 28966):
1) la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3642;
Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2935);
2) d’altra parte, la valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, , e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112);
3) qualora venga allegata (come prospettato nella specie dal ricorrente principale) l’erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze della causa di merito, tale deduzione è da ritenersi esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge (Cass. 5 giugno 2007, n. 13066 Cass. 29 marzo 2001, n. 4667; Cass. 25 ottobre 2003, n. 16087).
Dai suddetti principi si desume che:
a) la censura di violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. è da ritenere inammissibile in quanto, nella specie, non viene neppure prospettata l’avvenuta attribuzione, da parte della Corte d’appello, dell’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma;
b) altrettanto inammissibile è da considerare il profilo di censura riferito agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., perchè, pur riguardando una asseritamente incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, è stato impropriamente prospettato come violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, anzichè come vizio di motivazione.
In ogni caso, in base al principio di autosufficienza e specificità dei motivi del ricorso per cassazione (di cui all’art. 366 cod. proc. civ.), la parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorie sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che la Corte di cassazione deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (vedi, per tutte: Cass. 30 luglio 2010, n. 17915).
Nella specie il ricorso non è conforme al suddetto principio in quanto non contiene la trascrizione delle deposizioni testimoniali la cui valutazione asseritamente erronea – sotto il profilo dell’attendibilità – avrebbe dato luogo, per il secondo motivo, alla denunciata contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata.
Lo stesso vale per il quarto motivo, che peraltro risulta anche mal formulato – come violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. – in quanto, per un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, qualora si assume che le risultanze processuali (e in particolare testimoniali) contrastino con la ricostruzione della fattispecie effettuata dal Giudice del merito, la denuncia di tale inconveniente deve essere effettuata come vizio di motivazione della sentenza, in quanto si traduce in un errore di logica giuridica che rende la motivazione stessa incongrua o incoerente (vedi, per tutte Cass. 22 gennaio 2009, n. 1635).
A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dalla ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative della medesima ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
Tanto più che la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice dei merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (vedi, per tutte: Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412;
Cass. 24 luglio 2007, n. 16346).
3 – Conclusioni.
6.- Per le suesposte considerazioni, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente, al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali, da distrarre in favore dell’avvocato Giovanni Mangano, antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 8 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *