Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-08-2012, n. 14529

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Svolgimento del processo
1. La sentenza attualmente impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Roma n. 9860 del 17 maggio 2004 (che per il resto conferma), condanna la xxx s.p.a. al pagamento in favore di S.G.: 1) del trattamento economico di malattia per il periodo compreso tra la data di intimazione del relativo licenziamento e l’ultimo giorno di malattia, oltre agli accessori di legge; 2) delle conseguenti differenze sul TFR, derivanti dall’inclusione nella relativa base di calcolo anche del suddetto trattamento retributivo, riconosciuto nel periodo di malattia, con accessori di legge; 3) compensa nella misura di un terzo le spese processuali del doppio grado, ponendo la parte residua a carico della suindicata società.
La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a) conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, poichè nel caso di specie la tutela reale non è stata chiesta invocando una previsione del contratto collettivo, ma richiamando l’art. 18 St. lav., tale tutela non può essere riconosciuta, anche se, in ipotesi, si volesse accogliere l’assunto secondo cui lo S. era uno psuedo-dirigente (Cass. 21 novembre 2007, n. 24246);
b) va, invece, ribadita la necessità della preventiva contestazione degli addebiti di cui all’art. 7 St. lav., nella specie pacificamente non effettuata;
c) non è condivisibile la statuizione del Tribunale relativa all’effetto immediatamente risolutivo del recesso, visto che la relativa intimazione si è verificata in un momento nel quale il dirigente era in malattia;
d) ne consegue che il recesso si deve considerare efficace soltanto a partire dal giorno successivo alla fine dello stato di malattia, sicchè per il periodo compreso tra il giorno dell’intimazione e quello suddetto di efficacia del licenziamento resta impregiudicato il diritto dello S. al trattamento economico di malattia, come quantificato nel ricorso, non contestato sul punto;
e) non sono fondate le censure, formulate in senso diverso da entrambe le parti, in ordine al numero di mensilità attribuite dal Tribunale a titolo di indennità supplementare, sulla base di una valutazione che appare congrua;
f) non sono da accogliere le altre doglianze dello S. sull’incremento della indennità supplementare derivante dal proprio compimento del cinquantunesimo anno di età durante il periodo del preavviso;
g) infatti, una volta intervenuto il licenziamento con esonero del preavviso, essendosi il rapporto estinto il giorno successivo alla cessazione dello stato di malattia, gli eventi verificatisi successivamente (compreso il compimento del cinquantunesimo anno di età di cui si è detto) sono irrilevanti, non potendosi attribuire al preavviso efficacia reale;
h) deve essere respinta anche la domanda dello S. relativa al riconoscimento della indennità supplementare e dell’indennità di preavviso sulla base della retribuzione convenzionale, anzichè sulla base della retribuzione globale di fatto cui il ricorrente ha fatto esclusivo riferimento nel ricorso introduttivo procedendo anche alla relativa quantificazione senza mai contrapporre ad essa nel giudizio di primo grado una retribuzione convenzionale e senza indicare norme collettive riferentesi a tale retribuzione;
i) di qui l’ininfluenza della mancata contestazione sul punto da parte della società convenuta nonchè l’inammissibilità del relativo richiamo, effettuato per la prima volta in appello, senza che abbia alcun rilievo in contrario l’assunto che i conteggi allegati al ricorso di primo grado sarebbero stati elaborati sulla base della retribuzione convenzionale, visto che ciò non risulta con chiara evidenza e che, come si è detto, non vi è alcun riferimento a norme legali o pattizie pertinenti;
j) la censura concernente la parziale compensazione delle spese del giudizio di primo grado è assorbita dalla pronuncia sulla revisione del complessivo regolamento delle spese, derivante dalla parziale riforma della decisione;
k) tale revisione, considerato che lo S. è rimasto soccombente in relazione ad alcuni capi di domanda e che ha dedotto in appello elementi di fatto nuovi, porta a confermare la valutazione del Tribunale e a compensare le spese del doppio grado nella misura di un terzo ponendo il residuo a carico della società datrice di lavoro.
2.- Il ricorso di S.G. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, la xxx s.p.a..
Le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1 – Sintesi dei motivi di ricorso.
1.- Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonchè degli artt. 3 e 35 Cost. e della L. n. 604 del 1966; b) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (per non aver applicato la tutela reale e comunque per erronea pretermissione, sul piano ermeneutico, della possibilità che il provvedimento espulsivo venga revocato all’esito dell’audizione della L. n. 300 del 1970, ex art. 7 e delle conseguenze derivanti da questa possibilità in punto di interpretazione costituzionalmente adeguata).
Si sostiene che il principio di diritto affermato da Cass. SU 30 marzo 2007, n. 7880, cui si è uniformata la Corte territoriale, sia stato formulato sul presupposto che il lavoratore possa trovare adeguato ristoro rispetto alla mancata applicazione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 St. lav. nella comminazione al datore di lavoro delle medesime sanzioni che assistono il licenziamento non giustificato.
Invece, la sola applicazione di una sanzione pecuniaria anche se, in ipotesi, dello stesso importo di quella prevista per il licenziamento non giustificato non potrebbe mai essere adeguata a ristorare la lesione del diritto di difesa subita dal lavoratore per la sua mancata audizione, che avrebbe potuto anche portare alla revoca del provvedimento espulsivo.
Solo una simile lettura dell’art. 7 St. lav. sarebbe conforme alle richiamate norme della Costituzione e da essa dovrebbe derivare il riconoscimento al ricorrente della tutela reale, sulla base di Cass. 14 dicembre 2009, n. 26151.
2- Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1365, 1366, 1375 e 2119 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, conseguente insufficiente e illogica motivazione su punti decisivi della controversia.
Si sostiene che, essendo il licenziamento in oggetto disciplinare ma non assistito da giusta causa, esso non può rientrare tra i licenziamenti che hanno un effetto solutorio immediato. Pertanto il momento di risoluzione del rapporto non dovrebbe essere individuato nel giorno successivo alla fine dello stato di malattia (come affermato dalla Corte territoriale), ma allo sapirare del termine di preavviso, decorrente dalla fine del periodo di malattia.
Ne consegue che l’indennità supplementare dovrebbe essere parametrata alla maggiore età anagrafica raggiunta nel suddetto periodo dallo S..
3.- Con il terzo motivo di ricorso si denunciano: a) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, errata percezione delle risultanze processuali con violazione e falsa applicazione dell’art. 2120 cod. civ. e delle norme di ermeneutica del c.c.n.l. depositato in atti; b) in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, conseguente motivazione insufficiente e illogica su punti decisivi della controversia.
Si contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui il richiamo alla retribuzione convenzionale sarebbe da considerare un novum inammissibile in appello.
Si sottolinea che, essendo stati allegati fin dal primo grado del giudizio sia conteggi analitici (non contestati) sia il contratto collettivo di categoria, completo delle tabelle retributive, la Corte romana non poteva ritenere che le relative rivendicazioni economiche fossero da considerare una domanda nuova.
Si pone l’accento sulla contraddittorietà della suddetta statuizione resa palese dal fatto che la Corte d’appello (seguendo il Tribunale) ha liquidato il riconosciuto supplemento di TFR maturato durante il periodo di malattia facendo applicazione proprio dei conteggi sindacali depositati in atti, effettuati prendendo come base di calcolo proprio la retribuzione convenzionale, che lo S. ha chiesto di prendere come base di calcolo per tutti gli altri emolumenti riconosciutigli.
Si censura anche l’implicito rigetto della tempestiva richiesta di una c.t.u. contabile su le suddette questioni.
4.- Con il quarto motivo si denunciano, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e n. 5, violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ovvero omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul capo relativo alle spese giudiziali del giudizio di appello, nonchè omessa motivazione sull’assorbimento della compensazione delle spese del giudizio di primo grado.
Si rileva che, in primo luogo, la Corte romana non indica le ragioni – anche di equità – che determinano l’assorbimento della censura sulla compensazione delle spese del giudizio di primo grado, visto che i due gradi del giudizio sono diversi.
In secondo luogo, si sottolinea che non è stato preso in considerazione l’atteggiamento processuale della società che si è sempre opposta a tutte le domande del dirigente.
Si soggiunge che, per quanto detto nel precedente motivo, lo S. non ha introdotto in appello alcuna domanda nuova e, quindi, non merita alcuna sanzione sulle spese che devono essere poste tutte a carico della società, per tutti i gradi del giudizio.
2 – Esame delle censure.
5.- Il primo motivo del ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
5.1.- Deve essere, in primo luogo, precisato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione del motivo, tutte le censure si risolvono, in realtà, nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.
Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486;
Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
5.2.- Si deve inoltre osservare che, in base all’indirizzo interpretativo espresso da questa Corte a partire dalla sentenza delle Sezioni unite 30 marzo 2007, n. 7880 e ormai consolidatosi, con riguardo all’obbligo del rispetto delle garanzie procedimentali dettate dalla L. 20 marzo 1970, n. 300, art. 7, commi 2, 3, le quali devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento, la categoria dei dirigenti non deve essere frammentata tra "top manager" ed altri dirigenti (c.d. medi o minori). Ciò però esclude che la disciplina delle conseguenze del mancato rispetto delle garanzie procedimentali stesse possa essere differenziata tra le diverse categorie di dirigenti, modulando le tutele contro le violazioni delle garanzie procedurali in relazione al diverso livello dei poteri a ciascun dirigente demandati. Al fine di determinare le diverse posizioni rivestite in concreto dai dirigenti va attribuito un ruolo centrale all’autonomia collettiva, perchè le associazioni sindacali sono in grado di cogliere meglio le peculiarità dei diversi settori produttivi e delle diverse organizzazioni aziendali, spesso articolate in reti con più centri decisionali, come riconosce anche il legislatore con l’art. 2095 cod. civ. e art. 2071 art. 7, commi 2, 3, comma 2, nei quali viene attribuito alla contrattazione collettiva un ruolo primario nella disciplina delle mansioni e delle qualifiche dei lavoratori. Conseguentemente, gli effetti del mancato rispetto delle garanzie procedurali possono essere diverse per i dirigenti in senso proprio, cioè per i vertici aziendali (dirigenti apicali) e per quelli di livello minore (non apicali), spesso qualificabili come dirigenti solo per scelte dell’autonomia collettiva (dirigenti convenzionali). Mentre restano peraltro esclusi dalla disciplina speciale, legale e contrattuale collettiva, stabilita per la categoria dei dirigenti i c.d. pseudo-dirigenti, "cioè quei lavoratori che, seppure hanno di fatto il nome ed il trattamento dei dirigenti, per non rivestire nell’organizzazione aziendale un ruolo di incisività e rilevanza analogo a quelli dei c.d. dirigenti convenzionali (dirigenti apicali, medi o minori), non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva e tanto meno dal contratto individuale – non essendo praticabile uno scambio tra pattuizione dei benefici economici (e di più favorevole trattamento) e la tutela garantistica ad essi assicurata al momento del recesso datoriale, dalla L. n. 604 del 1966 e dalla L. n. 300 del 1970" (così ancora le Sezioni unite nella sentenza sopra citata e, nello stesso senso, tra le altre: Cass. 5 luglio 2011, n. 14713; Cass. 17 gennaio 2011, n. 897; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25145; Cass. 24 giugno 2009, n. 14835; Cass. 16 maggio 2008, n. 12403).
Ne consegue che, sulla base del suddetto orientamento, per valutare posizioni come quella in esame, è necessario verificare se si è in presenza di un dirigente o di un pseudo-dirigente. Infatti, nel secondo caso si applicheranno le garanzie procedurali previste dai primi tre commi dell’art. 7 St. lav e le conseguenze previste per qualsiasi lavoratore subordinato. Nel primo caso, si applicheranno sempre le garanzie procedurali previste dai primi tre commi dell’art. 7 cit., quale che sia il livello del dirigente (apicale, medio, minore), ma le conseguenze saranno differenziate in base al trattamento previsto dalla contrattazione collettiva. Qualora la contrattazione collettiva di settore non contenga una specifica disciplina, la fattispecie dovrà essere valutata con i criteri di cui all’art. 2099 cod. civ., comma 2 (così: Cass., 16 maggio 2008, n. 12403 e Cass. 17 gennaio 2011, n. 897).
5.3.- Va, però, precisato che è altrettanto consolidato e condiviso l’orientamento secondo cui: "in materia di ripartizione dell’onere della prova, il principio secondo il quale spetta al datore di lavoro provare l’appartenenza del lavoratore alla categoria dei dirigenti non si applica ove l’accertamento della natura dirigenziale dell’attività lavorativa costituisca oggetto di specifico interesse del prestatore, dovendo trovare applicazione il principio generale che spetta a chi vuole far valere un diritto in giudizio l’onere di provare i fatti che ne costituiscono fondamento. Ne consegue che, in caso di licenziamento di dipendente formalmente inquadrato come dirigente, grava sul lavoratore, che intenda fruire del più favorevole regime limitativo dei licenziamenti previsto per i dipendenti non aventi tale qualifica, l’onere di provare la natura meramente convenzionale dell’inquadramento, e che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle previste o, comunque, difettavano, in concreto, delle connotazioni proprie della categoria dirigenziale" (vedi, per tutte: Cass. 2 settembre 2010, n. 18998; Cass. 15 febbraio 1992, n. 1836).
Ed è anche pacifico che l’accertamento, in concreto, della sussistenza delle condizioni necessarie per l’inquadramento del lavoratore nell’una o nell’altra categoria (di dirigente o di pseudo- dirigente) costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità soltanto per vizi di motivazione (fra le tante: Cass. 22 dicembre 2006, 27464).
5.4.- Nella specie, l’accertamento effettuato al riguardo dalla Corte romana e la motivazione che lo sorregge non appaiono sostanzialmente meritevoli di censure, visto che il ricorrente, nell’ampia esposizione dei fatti contenuta nel ricorso e nella estesa argomentazione del primo motivo (corredata di molteplici riferimenti giurisprudenziali), non fornisce elementi a favore della tesi – sostenuta nel ricorso stesso – secondo cui la Corte d’appello non avrebbe applicato allo S. la tutela reale, pur essendole stati ritualmente e tempestivamente forniti i relativi elementi di valutazione. E’, infatti, evidente che, a tal fine, è da considerare inadeguata l’eventuale possibilità di desumere dai documenti allegati agli atti che il ruolo del ricorrente non fosse un "ruolo giuridicamente apicale", visto che, da un lato, come risulta anche dalla stessa giurisprudenza citata nel ricorso, la categoria dei dirigenti in senso proprio può essere composta oltre che da dirigenti apicali anche da dirigenti non-apicali, del pari sottratti all’applicazione della tutela reale e, d’altra parte, la prova a carico del lavoratore dello svolgimento di mansioni non corrispondenti a quelle dirigenziali con la conseguente richiesta dell’applicazione della tutela reale devono essere esaurienti e chiare fin dal primo atto del giudizio, in base a quanto si è detto.
Ne consegue il rigetto del primo motivo, con la sola precisazione parzialmente correttiva della motivazione della sentenza sul punto, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 4 – nel senso della sussistenza della astratta possibilità di riconoscere la tutela reale a chi dimostri di avere esercitato mansioni di pseudo- dirigente, anche in assenza della invocazione di specifiche previsioni del contratto collettivo del settore, purchè, però, l’interessato provi adeguatamente e tempestivamente (nel ricorso introduttivo) che le mansioni effettivamente svolte non corrispondono a quelle previste o, comunque, difettano, in concreto, delle connotazioni proprie di quelle della categoria dirigenziale (elementi che, nella specie, non risultano essere sussistenti).
6.- Anche il secondo motivo non è da accogliere, per quanto di seguito esposto.
Tutte le censure si fondano sul presupposto del riconoscimento dell’efficacia reale del preavviso, da cui si vorrebbe far discendere l’attribuzione di rilevanza – ai fini dell’incremento dell’indennità supplementare – al compimento del cinquantunesimo anno di età da parte dello S., durante il periodo di preavviso.
Viceversa, come correttamente affermato dalla Corte romana, questa Corte, ormai da tempo, con orientamenti consolidati e condivisi, ha stabilito che:
a) sulla base di una interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 2118 cod. civ., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale – che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine ma ha efficacia obbligatoria, sicchè, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso (vedi, per tutte: Cass. 4 novembre 2010, n. 22443; Cass. 5 ottobre 2009, n. 21216; Cass. 11 giugno 2008, n. 15495; Cass. 21 maggio 2007, n. 11740);
b) la suddetta interpretazione dell’art. 2118 cod. civ., corrisponde non solo all’assetto ordinamentale dell’epoca in cui è entrata in vigore la normativa codicistica, nella quale mancava un articolato sistema di tutela della stabilità del posto di lavoro, ma anche a quello attuale, caratterizzato, ogni qualvolta il legislatore ha avuto di mira l’assimilazione di un rapporto di lavoro ad un rapporto stabile ed efficace, dalla previsione di un apparato di misure idonee allo scopo (vedi, per tutte: Cass. 21 maggio 2007, n. 11740).
Ne consegue che è da escludere la violazione delle norme richiamate nella rubrica e nella argomentazione del motivo e, d’altra parte, la motivazione della sentenza impugnata su punto appare del tutto logica e conforme ai su riportati principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di efficacia del preavviso.
7.- Il terzo motivo non risulta ammissibile, in quanto con esso si lamenta che la Corte territoriale ha respinto la domanda dello S. diretta ad ottenere il riconoscimento degli emolumenti di cui si discute sulla base della retribuzione convenzionale anzichè sulla base della retribuzione globale di fatto, ma non si offrono elementi idonei perchè, in questa sede, si possa esaminare adeguatamente la censura.
7.1. Va, infatti, ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:
a) l’interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo pertanto riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 27 luglio 2010, n. 17547);
b) comunque, in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui venga lamentato l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia in base ad una considerazione non condivisa dalla parte:
mentre nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e la Corte di cassazione ha il potere- dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale, nell’altro caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, alla Corte è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 26 aprile 2001, n. 6066; Cass. 9 giugno 2003, n. 9202; Cass. 20 agosto 2003, n. 12255; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1079; Cass. 14 marzo 2006, n. 5491; Cass. 26 giugno 2007, n. 14751; Cass. 30 giugno 1986, n. 6367).
Nella specie, in assenza di una violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., come sopra individuata, si contesta la suddetta statuizione di rigetto della Corte d’appello, sostenendosi che essa deriverebbe da una erronea interpretazione del ricorso introduttivo che avrebbe portato la Corte stessa ad affermare che in esso si sia fatto esclusivo riferimento alla retribuzione globale di fatto, mentre in realtà sarebbe stata richiamata la retribuzione convenzionale.
Quindi, la invocazione in appello dell’adozione di tale ultima retribuzione come base di calcolo non sarebbe da considerare un novum inammissibile in sede di gravame, come ritenuto nella sentenza attualmente impugnata.
7.2.- Va, però, osservato che, in applicazione dei suddetti principi, il motivo in oggetto non risulta formulato nel rispetto del consolidato e condiviso principio secondo cui:
a) l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 4, qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in indicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sè, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (Cass. 31 maggio 2011, n. 11984) e ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 cod. proc. civ., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726);
b) l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè, laddove sia stata denunciata la falsa applicazione del principio tantum devolutum quantum appellatum, ai sensi dell’art. 437 cod. proc. civ., è necessario, in ottemperanza dei principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli dal corretto svolgersi dell’iter processuale, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro esatti termini, e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio e quelli del ricorso d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per la loro novità sono state formulate (Cass. 10 novembre 2011, n. 23420).
Nell’ ambito del presente ricorso, sono soltanto riprodotti in parte i conteggi in contestazione (che attesterebbero l’avvenuto richiamo della retribuzione convenzionale), ma non viene indicata la sede della avvenuta deduzione dei conteggi stessi, nè vengono offerti elementi dai quali si possa valutare l’esattezza o meno dell’affermazione della Corte romana secondo cui il preteso riferimento alla retribuzione convenzionale per i conteggi allegati al ricorso di primo grado "non ha alcuna autonoma e chiara evidenza, in quanto il ricorrente fa esclusivo riferimento alla retribuzione reale".
Ne deriva l’inammissibilità del terzo motivo.
8.- Il quarto motivo è, invece, da accogliere.
Va osservato, al riguardo, che, nella sentenza impugnata, a fronte della soccombenza assolutamente prevalente della società xxx in entrambi i gradi del giudizio di merito, la Corte romana: 1) da un lato non indica le ragioni – anche di equità – che determinano l’assorbimento della censura sulla parziale compensazione delle spese del giudizio di primo grado (da valutare separatamente rispetto a quelle del giudizio di appello); 2) in secondo luogo, per rideterminare il regime delle spese processuali dei due gradi del giudizio di merito prende in considerazione, senza alcuna giustificazione, soltanto il comportamento processuale dello S. senza fare alcun riferimento a quello della società, pur maggiormente soccombente.
In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ., comma 2 – pure nel testo antecedente la modifica introdotta dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), (applicabile nella specie ratione temporis visto che il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato depositato il 3 maggio 2002) – la scelta di compensare le spese processuali è riservata al prudente, ma comunque motivato, apprezzamento del giudice di merito, la cui statuizione può essere censurata in sede di legittimità quando siano illogiche o contraddittorie le ragioni poste alla base della motivazione, e tali da inficiare, per inconsistenza o erroneità, il processo decisionale (Cass. 17 maggio 2012, n. 7763);
b) in tema di regolamento delle spese processuali, nel regime anteriore alla novella dell’art. 92 cod. proc. civ., recata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito disporne la compensazione, in tutto o in parte, anche nel caso di soccombenza di una parte. Tale statuizione, ove il giudicante abbia fatto esplicito riferimento all’esistenza di "giusti motivi", non necessita di alcuna esplicita motivazione e non è censurabile in cassazione, salvo che lo stesso giudice abbia specificamente indicato le ragioni della sua pronuncia, dovendosi, in tal caso, il sindacato di legittimità estendere alla verifica dell’idoneità in astratto dei motivi posti a giustificazione della pronuncia e dell’adeguatezza della relativa motivazione. (Cass. 27 marzo 2009, n. 7523);
c) nel regime anteriore a quello introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a), il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese "per giusti motivi" deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purchè, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente e inequivocamente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito). Ne consegue che deve ritenersi assolto l’obbligo del giudice anche allorchè le argomentazioni svolte per la statuizione di merito (o di rito) contengano in sè considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata, come – a titolo meramente esemplificativo – nel caso in cui si da atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali (Cass. SU 30 luglio 2008, n. 20598).
Ne deriva che le contestate statuizioni della Corte romana sul punto – sopra sintetizzate – non appaiono conformi ai suindicati principi in quanto non rappresentano un adeguato supporto motivazionale al disposto assorbimento della censura concernente la parziale compensazione delle spese del giudizio di primo grado, nè alla effettuata revisione del complessivo regolamento delle spese di lite del doppio grado, principalmente perchè in esse illogicamente si omette qualunque riferimento alla posizione e al comportamento di una delle parti (la società xxx), la cui soccombenza nei gradi di merito è risultata del tutto prevalente, come si è detto.
Di qui l’accoglimento del quarto motivo.
3 – Conclusioni.
9.- In sintesi, deve essere accolto il quarto motivo del ricorso, mentre vanno rigettati i primi tre motivi.
La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione al motivo accolto, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito (vedi: Cass. 28 marzo 2006, n. 7073; Cass. 15 febbraio 2005, n. 2977), con la condanna la società xxx s.p.a. al rimborso, in favore di S.G., delle spese processuali dei due gradi di merito del giudizio per l’intero e nell’ammontare quale rispettivamente determinato dal Tribunale e dalla Corte d’appello, in considerazione dell’anzidetta assolutamente prevalente soccombenza della società nei due gradi di merito del giudizio.
Vanno, invece, compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione, in quanto l’esito di esso risulta prevalentemente sfavorevole per il ricorrente, nonostante la peculiarità fattuale della controversia all’esame.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso e rigetta gli altri.
Cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, condanna la società xxx s.p.a. al rimborso, in favore di S.G., delle spese processuali dei due gradi di merito del giudizio per l’intero e nell’ammontare quale rispettivamente determinato dal Tribunale e dalla Corte d’appello. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 8 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2012

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