Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-05-2013) 27-05-2013, n. 22925

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Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado del 13/04/2011 con la quale il Tribunale della stessa città aveva condannato alla pena di giustizia A.L. in relazione al reato di cui all’art. 368 c.p., per avere, con comunicazione di notizia di reato del (OMISSIS) da lui redatta come agente della polizia municipale, incolpato xxx dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e di rifiuto di indicazione della propria identità personale, sebbene sapesse della sua innocenza.
Rilevava, in particolare, la Corte di appello come corretta fosse stata la contestazione del reato operata dal P.M., nel corso del giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 518 c.p.p.; e come la colpevolezza dell’ A. in ordine a tale delitto fosse stata dimostrata dai risultati dell’istruttoria dibattimentale, in specie dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa G., nonchè dalla testimonianza della P. e dalla parziali ammissioni dello stesso imputato.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore avv. xxx, il quale ha dedotto i seguenti quattro motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 178 c.p.p., lett. b) e c), artt. 516 c.p.p. e segg., per avere la Corte territoriale erroneamente disatteso l’eccezione di nullità formulata con l’atto di appello, tenuto conto che il consenso, reso dall’imputato nel corso del giudizio di primo grado, era stato dato in relazione all’originaria contestazione di un fatto diverso, operata dal P.M. ai sensi del citato art. 516, e che la successiva "riqualificazione" della contestazione a norma dell’art. 518 era stata effettuata di sua iniziativa dal Tribunale, così determinando una irrituale forma di esercizio dell’azione penale.
2.2. Violazione di legge, in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) e vizio di motivazione, per avere la Corte distrettuale omesso di esaminare il motivo di appello con il quale la difesa si era doluta della mancanza di motivazione ovvero della motivazione apparente della ordinanza con la quale il Tribunale aveva, in primo grado, ritenuto che la contestazione del P.M. avesse riguardato un fatto diverso ai sensi dell’art. 518 c.p.p..
2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 191 e 526 c.p.p., per avere la Corte di appello confermato la sentenza di condanna di primo grado sulla base di prove inutilizzabili in quanto acquisite prima della nuova contestazione dibattimentale.
2.4. Violazione di legge, in relazione all’art. 368 c.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte milanese travisato le prove dichiarative, sostenendo che la G. non avesse tenuto alcun comportamento di resistenza sebbene, nel corso dell’istruttoria di primo grado, avesse riconosciuto di aver colpito con i polsi, due o tre volte, il vigile urbano; e sostenendo che il G., sempre durante il primo grado, avesse finito per modificare la sua prima versione, ammettendo che la donna non avesse opposto resistenza, laddove l’imputato si era limitato ad asserire che, in ragione della esile corporatura della G., la stessa lo aveva attinto al petto con "piccoli colpetti": dunque, per avere la Corte lombarda ingiustificatamente affermato che l’imputato avesse consapevolmente riferito fatti mai accaduti, e non anche enfatizzato accadimenti reali, frutto di una personale e distorta percezione.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.
2. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato, e ciò per due ordini di ragioni.
In primo luogo perchè dalle carte a disposizione si evince che la modificazione della imputazione, con la contestazione del reato di calunnia, venne effettuata dal P.M. nel corso dell’udienza del 10/11/2010 del giudizio di primo grado, sicchè nessuna violazione del dettato dell’art. 178 c.p.p., lett. b) è configurabile nel caso di specie; e che l’attribuzione della veste giuridica da dare a quella contestazione spettava sicuramente al giudice del dibattimento il quale, nella successiva udienza del 17/01/2011 fece corretto esercizio di quel potere riconoscendo, in occasione della decisione su una specifica ulteriore questione sollevata dalla difesa dell’imputato, che il fatto contestato dal P.M. dovesse essere qualificato come fatto nuovo ai sensi dell’art. 518 c.p.p. e non anche come fatto diverso ai sensi del precedente art. 516.
In secondo luogo perchè la scelta operata dal Tribunale, evidentemente più favorevole all’imputato, venne adottata nel pieno rispetto della disciplina codicistica prevista dal citato art. 518, posto che, nella udienza del 17/01/2011, l’imputato ebbe a prestare nuovamente il consenso alla contestazione del fatto nuovo e, dunque, alla possibilità che per tale diverso reato si continuasse a procedere nei suoi riguardi in quello stesso processo.
3. Del pari manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso, avendo la Corte di appello, nel risolvere la questione concernente l’asserita violazione della normativa processuale in materia di contestazioni dibattimentali, implicitamente riconosciuto come fosse priva di pregio la doglianza difensiva relativa all’omessa motivazione dell’ordinanza adottata dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 518 c.p.p..
Tanto in conformità con la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il provvedimento impugnato non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (così Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, xxx, Rv. 250900; Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000, xxx, Rv. 218590).
4. Il terzo motivo del ricorso dell’ A. è inammissibile perchè non dedotto con l’atto di appello, ma, per la prima volta, solo con il ricorso per cassazione.
Non è di ostacolo alla declaratoria di inammissibilità il fatto che il motivo abbia ad oggetto una sanzione, quella della inutilizzabilità, astrattamente rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che una siffatta questione non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede accertamenti o valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 21877 del 24/05/2011, C. e altro, Rv. 250263; Sez. 4, n. 2586/11 del 17/12/2010, xxx, Rv.
249490; Sez. 6, n. 37767 del 21/09/2010, Rallo, Rv. 248589; Sez. U, n. 39061 del 16/07/2009, xxx, Rv. 244328; Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, xxx, Rv. 231484).
3. Il quarto ed ultimo motivo del ricorso è inammissibile in parte perchè proposto per ragioni diverse da quelle consentite dalla legge, in parte perchè manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente, infatti, solo formalmente ha indicato, come motivo della sua impugnazione, un vizio di motivazione, ma non ha prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni. Nè è stata lamentata una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.
Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, in specie, delle dichiarazioni rese dalla personale offesa G. e di quelle dell’imputato. E tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un "travisamento delle prove", vale a dire una incompatibilità tra l’apparato del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di "travisamento dei fatti" oggetto di valutazione, sollecitando una inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine rispetto al quale è stata proposta una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di una motivazione logicamente completa ed esauriente. Motivazione nella quale è stato congruamente osservato, per un verso, come la G., anzichè ammettere – così come sostenuto dalla difesa del ricorrente – di aver opposto resistenza al pubblico ufficiale, si fosse limitata, in dibattimento, a riconoscere di avere agitato i polsi due o tre volte, avendo le mani occupate, per respingere l’agente di polizia municipale che, stringendola, le aveva impedito di prendere l’ascensore e di rientrare nella sua abitazione; e come, per altro verso, il G., che nella sua informativa aveva sostenuto di essere colpito dalla donna "più volte al petto con pugni e schiaffi" e "di essere stato strattonato", esaminato nel giudizio di primo grado avesse significativamente sminuito la portata di quella condotta, parlando di una "forza irrisoria", di "piccoli colpetti, lievissimi", praticamente escludendo di aver ricevuto "un pugno", dunque di aver patito "un contatto fisico… in qualche modo traumatico o caratterizzato da sia pur minima violenza" (v. pagg. 8-10 sent. impugn.).
3.2. Quanto alla configurabilità degli elementi costitutivi del delitto contestato, va ricordato che costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale la prova dell’elemento soggettivo può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un’accusa mendace nell’ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito all’incolpato. Ne consegue che l’accertamento del dolo nel delitto di calunnia consiste nella considerazione e nella valutazione delle circostanze e delle modalità della condotta che evidenziano la cosciente volontà dell’agente e sono indicative dell’esistenza di una rappresentazione del fatto (così, tra le tante, Sez. 6, n. 32801 del 02/02/2012, xxx e altro, Rv. 253270; Sez. 6, n. 31446 del 24/05/2004, xxx, Rv. 229271; Sez. 6, n. 448/03 del 05/12/2002, xxx, Rv.
223321).
Di tale criteri ermeneutici la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione evidenziando, con una motivazione completa ed esente da vizi di manifesta illogicità, come fosse risultata determinante tanto la circostanza che, a fronte di una condotta priva di violenza ovvero di idoneità a porre in pericolo la incolumità fisica del pubblico ufficiale, l’ A. avesse volutamente enfatizzato, nella sua informativa di reato, gli accadimenti, "inventando una condotta diversa da quella effettivamente tenuta dalla signora G. per giustificare l’accusa di resistenza"; quanto il fatto che l’odierno ricorrente avesse stilato la sua informativa di reato in più fasi, pure riportando fatti accaduti successivamente alla data di redazione dell’atto, così eloquentemente dimostrando di avere voluto "reagire" all’iniziativa che, nel frattempo, la G. aveva assunto nei suoi riguardi, avendo appreso della presentazione, da parte della donna, di una querela nei suoi confronti (v. pagg. 10-11 sent. impugn.).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo indicato nel dispositivo che segue.
Alla inammissibilità del ricorso consegue, altresì, la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalla parte civile: la liquidazione va operata nella misura di seguito indicata, tenuto conto delle tariffe forensi e dell’attività effettivamente svolta.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile che liquida in Euro 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2013

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