Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-05-2013) 27-05-2013, n. 22923

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Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Venezia riformava la pronuncia di primo grado del 05/11/2009 xxx dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona, riqualificando il fatto, originariamente contestato al capo A) come circonvenzione di incapace, in termini di appropriazione indebita aggravata ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 11, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale quel Giudice, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato alla pena di giustizia (oltre che al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile) Z.N. in relazione al reato di simulazione di reato, di cui al capo B) dell’imputazione, riconosciuta la continuazione tra i due indicati illeciti.
Rilevava, in particolare, la Corte di appello come la colpevolezza della imputata fosse stata dimostrata dai risultati dell’istruttoria dibattimentale, in specie, oltre che dalle dichiarazioni rese dal teste L.M., da una serie di elementi di prova indiziaria da valutare congiuntamente.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputata, con atto sottoscritto personalmente, la quale ha dedotto i seguenti quattro motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 646 c.p., per avere la Corte di appello erroneamente riqualificato i fatti addebitati, in termini di appropriazione indebita della somma di denaro di Euro 115.600,00, benchè quell’importo fosse stato lasciato dalla proprietaria, Z.L., nel possesso dell’imputata e dalla prima mai richiesto in restituzione alla seconda.
2.2. Violazione di legge, per aver la Corte territoriale ritenuto che il predetto reato di appropriazione indebita fosse procedibile in quanto la relativa querela presentata tempestivamente dalla persona offesa, benchè, per la decorrenza del prescritto termine, i Giudici di merito avessero fatto riferimento ad una circostanza – l’acquisizione delle "rilevazioni" del teste L. – di cui non vi è traccia nell’atto di querela.
2.3. Violazione di legge, in relazione all’art. 61 c.p., n. 11, per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto il reato di appropriazione indebita procedibile d’ufficio ai sensi del menzionato articolo, laddove le carte del processo avevano escluso che tra l’imputata e la persona offesa vi fosse stata una coabitazione.
2.4. Vizio di motivazione, per manifesta illogicità, per avere la Corte veneziana ingiustificatamente valorizzato una serie di circostanze fattuali che ben potevano essere interpretate in senso differente, nonchè la deposizione del teste L. che era risultata inattendibile, perchè fortemente condizionata dai sentimenti negativi maturati dal dichiarante verso l’imputata, e contraddetta da altri elementi di prova.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.
2. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale integra il reato di appropriazione indebita la condotta consistente nella mera interversione del possesso, che sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare (così, ex multis, Sez. 2, n. 13347 del 07/01/2011, P.G. in proc. xxx, Rv.
250026; Sez. 2, n. 38604 del 20/09/2007, Perri, Rv. 238163):
interversione del possesso che è configurabile in tutti i casi in cui dal comportamento tenuto dal detentore si rilevi, per le modalità del rapporto con la cosa, il compimento di atti di disposizione "uti dominus" (in questo senso, tra le tante, Sez. 2, n. 17295 del 23/03/2011, Innocenti ed altri, Rv. 250100) e che, pertanto, non necessita affatto di una previa espressa richiesta di restituzione del bene da parte del proprietario.
A tale regala iuris la Corte di appello di Venezia si è conformata, sostenendo come avesse integrato gli estremi del delitto in argomento la condotta dell’odierna ricorrente che – incaricata dalla zia Z.L., proprietaria della rilevante somma in oggetto, di prelevare quel denaro per fare fronte ai bisogni della anziana titolare, denaro detenuto per adempiere a quello specifico mandato – aveva convertito il possesso in proprietà facendo "sparire" i soldi e simulandone un furto commesso all’interno della sua abitazione (v.
pagg. 3, 4-5 sent. impugn.).
3. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile per carenza di interesse. Questa Corte ha avuto modo reiteratamente di affermare che nel sistema processuale penale la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul mero concetto di soccombenza – a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti – ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (così, di recente, Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, xxx, Rv. 251693). Dunque, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primati e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione immediata più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Rv. 203093; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Rv. 202269; Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rv.
197535).
Alla luce di tale criterio è palese come l’odierna ricorrente non abbia un concreto ed attuale interesse a mettere in discussione l’osservanza della disciplina sulle modalità di computo dei novanta giorni entro i quali va presentata una querela, considerato che la Corte di appello di Venezia, pur esaminando incidentalmente tale aspetto, ha concluso nel senso di ritenere il reato riconosciuto a carico dell’imputata come procedibile d’ufficio e non a querela di parte (v. pag. 9 sent. impugn.).
4. Il terzo motivo del ricorso è infondato.
Rappresenta espressione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio per il quale che la "ratio" dell’aggravante prevista dall’art. 61 c.p., n. 11 è da ravvisarsi nella violazione del sentimento di fiducia che intercorre tra le parti tra le quali si crea un rapporto domestico, con la conseguenza che tale circostanza deve ritenersi sussistente anche nel caso di presenza non momentanea dell’agente nel medesimo luogo idoneo allo svolgimento della vita privata, dovendosi così intendere il concetto di "coabitazione", che non si esaurisce in quello di "convivenza" (in questo senso, da ultimo, Sez. 3, n. 6433/08 del 14/12/2007, xxx e altro, Rv.
239062), e, comunque, laddove le relazioni domestiche siano state determinate da un rapporto di ospitalità, indipendentemente dal fatto che l’autore del reato sia l’ospite o l’ospitante, ben potendo l’aggravante essere configurabile – come nel caso di specie è accaduto – laddove l’autore del reato sia stata la persona ospitante (così Sez. 3, n. 1850/11 del 02/12/2010, R., Rv. 249405).
D’altro canto, la ricorrente ha sollecitato una verifica in fatto della esistenza delle condizioni per l’instaurazione di una effettiva relazione domestica con la persona offesa, controllo che è precluso in sede di legittimità in presenza di una motivazione logicamente completa e non censurabile.
5. Il quarto ed ultimo motivo del ricorso è inammissibile perchè proposto per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge, dato che l’imputata ha formulato una serie di doglianze che, al di là del dato enunciativo, si risolvono in non consentite censure in fatto all’apparato argomentativo su cui fonda la sentenza gravata, prospettando una diversa e alternativa lettura delle emergenze processuali acquisite, cosa che non è consentita in questa sede.
Ed infatti, formalmente il ricorrente ha indicato, come motivo della sua impugnazione, un vizio della motivazione, ma lungi dal proporre un "travisamento delle prove", vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di "travisamento dei fatti" oggetto di valutazione, sollecitando una inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine rispetto al quale è stata proposta una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di una motivazione logicamente completa ed esauriente. Motivazione nella quale è stato evidenziato come la colpevolezza della Z. fosse stata provata, oltre che dalle particolarissime modalità con le quali la prevenuta avesse insistito per ottenere le dimissioni, dall’ospedale dove si trovava, della zia anziana e gravemente malata, dimissioni ottenute con inusitata insistenza allo scopo di ottenere la disponibilità della parente per pochi giorni, durante i quali aveva ottenuto il rilascio della procura con la quale l’imputata aveva prelevato tutte le somme di proprietà della zia, depositate alle poste; dalle dichiarazioni del teste L., già fidanzato della Z., il quale, certamente animato da risentimento verso la ragazza che aveva interrotto la loro relazione sentimentale, aveva però riferito che l’imputata gli aveva confidato di aver messo quel denaro in una cassaforte e che avrebbe inscenato un furto per appropriarsene in via definitiva, circostanze che evidentemente l’uomo non avrebbe potuto creare dal nulla; ciò senza neppure trascurare che la credibilità del L. era stata riscontrata sia dall’accettata effettuazione da parte della Z., proprio nei giorni seguenti all’acquisizione della disponibilità di quel denaro, dell’acquisto di una vettura di del costo di Euro 35.000 (senza che la valenza di tale emergenza fosse stata contraddetta da alcun diverso dato obiettivo, che l’imputata non era stata in grado di fornire); che dalla conforme deposizione resa dal fratello dell’odierna ricorrente, testimonianza della quale la prevenuta ha criticato l’attendibilità con un generico riferimento a contrasti di natura familiare. Nè è stata trascurata dalla Corte territoriale l’anomalia di un furto commesso, a dire della denunciante, con una maldestra rottura di un infisso e con l’apertura di una cassaforte che non aveva presentato alcun segno di effrazione, quasi che fosse stata violata da un "professionista" che poi tale non era, se aveva lasciato una impronta che l’imputata aveva cercato di far credere potesse appartenere ad uno "zingaro"; e che la versione della Z., di essersi allontanata da casa lasciandola in ordine e di aver patito la sottrazione durante la sua assenza, non aveva trovato alcun riscontro in altri elementi di prova (v. pagg. 5- 9 sent. impugn.).
6. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalla parte civile: la liquidazione va operata nella misura di seguito indicata, tenuto conto delle tariffe forensi e dell’attività effettivamente svolta.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile che liquida in Euro 3.500,00, oltre I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2013

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