Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 23-05-2013) 27-05-2013, n. 22921

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Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di L’Aquila riformava la pronuncia di primo grado del 29/11/2005 del Tribunale di Sulmona, assolvendo l’imputato L.L. per non aver commesso il fatto, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale quel Tribunale aveva condannato alla pena di giustizia (oltre che al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile) R.A. in relazione al reato di cui all’art. 368 c.p., per avere, con querela presentata il 02/11/1999 alla procura della Repubblica di Sulmona, accusato falsamente P. A., all’epoca direttore dell’agenzia di (OMISSIS) della Banca di Credito cooperativo del xxx, di truffa ai propri danni per avere autorizzato il di lei coniuge, il L., ad effettuare prelievi non consentiti sul conto corrente bancario a lei intestato.
Rilevava, in particolare, la Corte di appello come la colpevolezza della imputata fosse stata dimostrata dai risultati dell’istruttoria dibattimentale, in specie, oltre che dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa P., dalla deposizione testimoniale di Pa.
S., all’epoca dipendente di quell’istituto di credito, la quale si era impegnata a sostenere che, in sua presenza, all’interno della banca la R. aveva autorizzato il marito L. ad operare sul conto corrente a lei esclusivamente intestato.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l’imputata, con atto sottoscritto dal suo difensore avv. xxx, la quale ha dedotto i seguenti cinque motivi.
2.1. Vizio di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva, per avere il Tribunale, in primo grado, disposto la testimonianza a discarico del Dott. Ro., autore di una consulenza tecnica di ufficio disposta dal giudice civile, esclusivamente sul punto riguardante l’esistenza della legittimazione del L. ad operare sul conto della moglie e non anche sul fatto che la R. avesse mai eseguito personalmente operazioni di prelievo e di versamento su quel conto.
2.2. Violazione di legge, in relazione all’art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale risposto alle doglianze mosse con l’atto di appello con una motivazione apparente.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello omesso di spiegare se il L. fosse stato o meno legittimato ad operare sul conto corrente della moglie, dato che era risultata assente l’autorizzazione della R. alla delega al merito, e, dunque, quale fosse stato il ruolo del direttore dell’istituto di credito.
2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione, per non avere la Corte distrettuale chiarito in base a quali dati informativi sussisterebbero gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivo, del delitto contestato, tanto più che il c.t.u. della causa civile aveva precisato che agli atti non vi sia alcuna firma di delega apposta dalla imputata.
2.5. Prescrizione del reato, dovendo trovare applicazione retroattiva la disciplina di calcolo più favorevole introdotta dalla L. n. 251 del 2005.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.
2. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale è prova decisiva, la cui mancata assunzione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione, solo quella prova che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante, nel senso che, se assunta o valutata, avrebbe determinato un esito diverso del processo (così, tra le tante, Sez. 3, n. 27581 del 15/06/2010, M., Rv. 248105; Sez. 6, n. 14916 del 25/03/2010, xxx, Rv. 246667; Sez. 2, n. 16354 del 28/04/2006, xxx, Rv. 234752).
Alla luce di tale regula iuhs deve ritenersi corretta la impostazione privilegiata dalla Corte di appello di L’Aquila la quale, implicitamente disattendendo le sollecitazioni istruttorie provenienti dalla difesa, ha respinto ogni richiesta di verifica circa l’esistenza di operazioni materialmente eseguite sul suo conto dalla intestataria R., considerando tale circostanza secondaria e, comunque, evidenziando come fosse stato lo stesso coimputato L. – che pure non aveva cercato di accreditare la versione della moglie R. – ad ammettere che la coniuge avesse avuto la materiale disponibilità di una tessera bancomat con la quale risultavano effettuati alcuni prelievi su quel conto corrente (v. pagg. 3, 4-5 sent. impugn.).
3. Del pari manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso con il quale la ricorrente, richiamando uno specifico passaggio di pag. 5 della motivazione della sentenza impugnata, si è doluta della apparenza di argomentazioni in quanto carenti della indicazione degli elementi da cui la Corte territoriale aveva tratto il proprio convincimento, in realtà trascurando del tutto gli articolati passaggi argomentativi sviluppati dai Giudici di secondo grado nelle pagine precedenti, con i quali la vicenda, oggetto del processo, era stata ricostruita in maniera sufficientemente dettagliata ed erano stati illustrati gli elementi di fatto e di diritto che permettevano di reputare fondata l’ipotesi accusatoria.
3. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso, strettamente connessi e, dunque esaminabili congiuntamente, sono inammissibili perchè proposti per ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Indipendentemente dal dato enunciativo e dal riferimento, nell’atto di impugnazione, ad presunte violazioni di legge, va detto che la ricorrente non ha prospettato alcuna contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni.
La ricorrente, invero, si è limitata a criticare il significato che la Corte di appello aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado. E tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un ‘travisamento delle provè, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di "travisamento dei fatti" oggetto di valutazione, sollecitando una inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine rispetto al quale è stata proposta una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di una motivazione logicamente completa ed esauriente: motivazione nella quale è stato evidenziato come le dichiarazioni della persona offesa P. avevano trovato inequivoco riscontro nella credibile dichiarazione della teste Pa. – di cui significativamente è stata omessa qualsivoglia cenno nel ricorso – la quale, all’epoca dipendente della filiale della banca dove era stato aperto il conto corrente bancario, aveva ricordato con precisione che la R. si era presentata in banca con il marito L. e le aveva espressamente riferito della sua volontà di autorizzare il coniuge ad operare sul conto corrente, e che, solo per una sua svista (errore che la Pa. non ha avuto remore di riconoscere di aver commesso, anche a rischio delle conseguenze in termini di responsabilità civile derivante da una siffatta ammissione), non venne apposta dalla R. una firma in calce alla delega al L., delega che pure era stata materialmente stilata, con la raccolta della firma del delegato: con la conseguenza che l’imputata, ricevuto il decreto ingiuntivo con cui l’istituto di credito le aveva chiesto la restituzione di quanto il marito aveva prelevato, profittando dell’apertura di credito concesso e creando una "scopertura" nel conto, anzichè limitarsi – come pure astrattamente avrebbe potuto fare – a contestare la mancanza della sua sottoscrizione in calce a quella delega, si era spinta ad accusare falsamente il P., direttore della filiale, di avere arbitrariamente consentito al L. di eseguire quelle operazioni, e, dunque, di avere falsificato il contratto di conto corrente, oramai completo, aggiungendo una delega asseritamente inesistente al momento della originaria sottoscrizione del contratto (v. pagg. 2-4 sent. impugn.).
4. Il quinto ed ultimo motivo è manifestamente infondato.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno oramai chiarito che, ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, di cui alla L. n. 251 del 2005, la pronuncia della sentenza di primo grado determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (Sez. U, n. 47008 del 29/10/2009, D’Amato, Rv. 244810), persino laddove quella sentenza sia stata di assoluzione (Sez. U, n. 15933 del 24/11/2011, xxx, Rv.
252012).
Ora, nel caso di specie la sentenza di condanna di primo grado era stata adottata nei riguardi della R. il 29/11/2005, dunque in epoca precedente alla data del 08/12/2005 di entrata in vigore della citata L. n. 251 del 2005, con la conseguenza che, a mente della citata Legge, art. 10, il procedimento penale a carico della prevenuta doveva considerarsi a quella data già pendente in grado di appello e ad esso non era applicabile la disciplina dei termini di prescrizione più favorevoli, ma quelli della normativa previgente:
il reato contestato alla R., commesso il (OMISSIS), si prescriverà, perciò, solo il 02/11/2014.
Quanto alla compatibilita di siffatta soluzione con l’assetto dei principi a tutela dei diritti fondamentali vigenti in materia, va rammentato come la Corte costituzionale ha già dichiarato la infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata per violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. n. 848 del 1955, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, della L. n. 251 del 2005, art. 10, (contenente "Modifiche al codice penale e alla L. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, ai "processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione. In particolare la Consulta ha chiarito che la sentenza della Corte EDU del 17 settembre 2009 nel caso xxx non ha escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni, sottolineando come "il riconoscimento da parte della Corte europea del principio di retroattività in mitius – che già operava nel nostro ordinamento in forza dell’art. 2 c.p., commi 2, 3 e 4 e aveva trovato un fondamento costituzionale attraverso la giurisprudenza costituzionale – non abbia escluso la possibilità di introdurre deroghe o limitazioni alla sua operatività, quando siano sorrette da una valida giustificazione"; ed infatti, si è detto che il principio di retroattività della lex mitior "riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità", giungendo alla conclusione che esso "non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perchè si produca l’effetto estintivo del reato" (così C. cost., n. 236 del 2011; conf., in seguito, anche C. cost, n. 43 del 2012).
5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo indicato nel dispositivo che segue.
Alla inammissibilità del ricorso consegue, altresì, la condanna dell’imputata alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalla parte civile: la liquidazione va operata nella misura di seguito indicata, tenuto conto delle tariffe forensi e dell’attività effettivamente svolta.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonchè a rifondere le spese sostenute dalla parte civile che liquida in Euro 1.800,00, oltre I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2013

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