Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23-05-2013) 24-02-2014, n. 8797

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Svolgimento del processo
1. Con decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del 26 ottobre 2012, il GIP presso il Tribunale di Roma sottoponeva al vincolo una serie di beni di proprietà di B. L., D.G.A., D.G.P. e D.G. M., per i reati di raccolta abusiva del risparmio, associazione a delinquere allo scopo di commettere una pluralità di fatti di bancarotta fraudolenta, di false comunicazioni sociali, di truffa, riciclaggio nonchè di delitti tributari, in relazione al fallimento della società "xxxxxx" s.p.a., con l’aggravante di aver posto in essere le attività criminali in più di uno Stato.
2. Propongono ricorso gli indagati B.L., D.G. A., D.G.P. e D.G.M.; la prima con atto autonomo dei propri difensori, avvocati xxx M. xxx e xxx P. xxx; gli altri tre con unico atto dei propri difensori, avvocati xxx M. xxx e xxx P. xxx.
Nell’interesse dell’indagata B.L. sono dedotti due motivi:
I) violazione all’art. 606 c.p.p., lett. B, in relazioni art. 1 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, artt. 13, 25, 27 e 111 Cost., con riferimento alla inconfigurabilità del reato di elusione fiscale.
All’indagata è contestato il reato di dichiarazione infedele, di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4; a seguito di una verifica fiscale a carico della società, l’Agenzia delle entrate ha segnalato un’operazione connaturata da un disegno elusivo, consistito nell’aver ceduto le partecipazioni nella xxxxxx s.p.a. alla xxxxxx s.p.a., mediante compravendita invece che mediante conferimento di beni in natura, al fine di consentire la detassazione dei dividendi distribuiti dalla xxxxxx, imputati al prezzo della compravendita. A giudizio della ricorrente deve escludersi la rilevanza penale della cosiddetta elusione fiscale, poichè la prova della responsabilità in campo penale si forma in maniera del tutto diversa rispetto alla formazione della prova dell’evasione tributaria, poichè l’amministrazione finanziaria può ricorrere a presunzioni, mentre il giudice penale deve motivare in ordine alle ragioni per le quali i dati della verifica effettuata in sede fiscale sono stati ritenuti attendibili.
Va poi considerato il dolo specifico, richiesto ai fini della punibilità dei debiti tributari, incompatibile con la strutturazione psicologica del fenomeno elusivo.
II) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. C, in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 321 e 324 c.p.p.; il Tribunale del riesame non ha preso in esame la nota tecnica redatta dal Dott. N. P., mediante la quale si intendeva escludere nell’operazione di cessione delle partecipazioni una operazione elusiva.
Gli altri indagati affidano il ricorso a due motivi:
I) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. C, relazioni art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 321 e 324 c.p.p., in relazione alla insistenza del cosiddetto giudicato cautelare. I ricorrenti rappresentano di aver depositato una memoria difensiva, con la quale si evidenziava l’inconfigurabilità del delitto di truffa loro ascritto, ma che il Tribunale si è sottratto all’obbligo motivazionale ritenendo la questione preclusa dal cosiddetto giudicato cautelare. Il ricorrente segnala il più recente orientamento della Suprema Corte, secondo il quale giudicato cautelare copre soltanto il dedotto e non anche il deducibile, per cui opera esclusivamente rebus sic stantibus; ciò sta a significare che non poteva ignorare la consulenza tecnica a firma del dottor N..
In ogni caso i fratelli D.G. non sono mai venuti in possesso, nemmeno per il tramite dei trust dei quali sono disponenti, dei dividendi distribuiti dalla xxxxxx s.p.a..
II) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B, in relazione agli artt. 1 e 640 c.p., artt. 13, 25, 27 e 111 Cost..
Come recentemente stabilito dalle Sezioni Unite con sentenza 28 ottobre 2010 n. 1235, ricorrente xxx, "E’ configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 ed 8) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640 c.p., comma 2, n. 1), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni.
(La Corte, richiamando il cosiddetto principio di assimilazione sancito dall’art. 325 del T.F.U.E., ha precisato che le predette fattispecie penali tributarie, repressive anche delle condotte di frode fiscale in materia di I.V.A., esauriscono la pretesa punitiva dello Stato e dell’Unione Europea perchè idonee a tutelare anche la componente comunitaria, atteso che la lesione degli interessi finanziari dell’U.E. si manifesta come lesiva, in via diretta ed indiretta, dei medesimi interessi)".
Ciò impedisce di ascrivere anche il titolo di truffa ai danni dello Stato per quelle condotte che sono previste e sanzionate dal D.Lgs. n. 74 del 2000.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
1.1 Il primo motivo proposto nell’interesse di B.L., con il quale si contesta la rilevanza penale dell’elusione fiscale, è infondato.
Il tema è stato ed è tuttora oggetto di attenta riflessione di questa Corte, anche se si è osservato che "sulla questione della rilevanza penale dell’elusione in materia fiscale non può dirsi che la giurisprudenza penale della Corte di Cassazione si sia espressa compiutamente" (Sez. 2, n. 7739 del 22/11/2011 – dep. 28/02/2012, xxx, in motivazione).
1.2 In senso contrario alla rilevanza penale dei comportamenti elusivi si sono espresse alcune decisioni, sia pure senza approfondirne le motivazioni; ad es. Sez. 5, n. 23730 del 18/05/2006, xxx (non massimata sul punto) afferma che, in linea di principio, la violazione delle norme antielusive non comporta conseguenze di ordine penale; una decisione della Terza Sezione (Sez. 3, Sentenza n. 14486 del 26/11/2008 – 02/04/200 9, xxx, Rv.
244071), richiamando la giurisprudenza della Corte di giustizia Europea (sentenza 9.3.1999, C-212/97, Centros), secondo la quale "la scelta della sede di una società di uno Stato membro – soltanto per usufruire di una normativa più favorevole – non costituisce esercizio abusivo del diritto di stabilimento di cui agli art. 43 e ss. del Trattato CE", nega valore probatorio alle presunzioni tributarie, incompatibili con l’accertamento penale, anche se utilizzabili in campo tributario come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale.
1.3 Più convincenti risultano però le decisioni favorevoli alla rilevanza penale della condotta elusiva.
Vengono in rilievo innanzi tutto due decisioni della Terza Sezione.
La prima ha affermato la sussistenza del delitto di dichiarazione infedele, punito dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4, anche in presenza di una condotta elusiva rientrante tra quelle previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, quando tale condotta, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti una dichiarazione infedele per la mancata esposizione degli elementi attivi nel loro effettivo ammontare (Sez. 3, n. 2 6723 del 18/03/2011, xxx, Rv. 250958); la seconda ha ammesso la configurabilità dell’omessa dichiarazione (art. 5 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) con riferimento ad una società avente residenza fiscale all’estero, ma che non possedeva un legame con il territorio di quello Stato, essendo priva di un’organizzazione di uomini e mezzi idonea ad operare in loco in piena autonomia gestionale ed aveva affidato la cura dei propri affari in territorio italiano ad altra struttura (Sez. 3, n. 29724 del 26/05/2010, xxx, Rv. 248109).
1.4 Con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, contestato all’indagata, particolarmente convincente è il ragionamento seguito dalla Seconda Sezione (Sez. 2, n. 7739 del 22/11/2011 – dep. 28/02/2012, xxx, Rv. 252019) nel ribadire che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge, ovverossia quelle di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e art. 37 bis.
A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva si osserva, in primo luogo, che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), fornisce una definizione molto ampia dell’imposta evasa e che il sistema tributario prevede istanze di interpello preventivo:
l’interpello ordinario previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 11, che si riferisce a "obiettive condizioni di incertezza sulla corretta applicazione di una norma", peraltro con riferimento a "casi concreti e personali"; l’interpello antielusivo di cui alla L. 30 dicembre 1991, n. 413; art. 21, l’interpello disapplicativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8; quello relativo alle società controllate estere di cui all’art. 167 del T.U.I.R.; quello di ruling internazionale (D.L. n. 269 del 2003, art. 8).
In tale contesto assume particolare rilevanza il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 16, (Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive), il quale dispone che "Non da luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 21, commi 9 e 10, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio – assenso". Nonostante la relazione al decreto legislativo precisi che tale disposizione non può essere letta come "diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo", sembra evidente che detta disposizione induca proprio a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento di interpello, possa avere rilevanza penale e ciò è confermato dal contesto in cui è inserito il citato art. 16 che è quello del Titolo III "Disposizioni comuni" concernenti proprio la materia penale (pene accessorie, circostanze attenuanti, prescrizione) e, in particolare, subito dopo l’art. 15 che concerne le "violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie".
D’altro canto, non vi sarebbe necessità di una esimente speciale per la tutela dell’affidamento se l’elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale, mentre nessun elemento nè testuale nè sistematico consente di ritenere che tale norma si riferisca, come da alcuni ritenuto, a casi di evasione in senso stretto e non di elusione.
Piuttosto deve osservarsi che il suddetto parere è relativo alla "applicazione, ai casi concreti rappresentati dal contribuente, delle disposizioni contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, comma 3, e art. 37 bis", cioè alle specifiche fattispecie elusive dai suddetti articoli previste, per cui non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge in altri termini, nel campo penale non può affermarsi l’esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 30055 del 23/12/2008, Rv. 605850), mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva.
1.5 In conclusione deve ritenersi sussistere quel fumus del reato che giustifica la misura cautelare reale, anche perchè la fattispecie di reato ipotizzata dall’accusa non richiede – come avviene invece per le altre ipotesi di reato previste dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, precedenti artt. 2 e 3, – una dichiarazione fraudolenta (mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ovvero mediante altri artifici) bensì soltanto che la dichiarazione sia infedele, ossia che, anche senza l’uso di mezzi fraudolenti, siano indicati nella stessa "elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi", quando ricorrano le altre condizioni ivi previste in relazione all’ammontare dell’imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione. Nel caso di specie, appunto, il giudice del merito ha motivatamente ritenuto che sussiste il fumus di una dichiarazione infedele, perchè in essa sono stati esposti elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, attraverso il meccanismo di "retrocessione dei dividendi" descritto nell’ordinanza impugnata; tale statuizione, alla luce del tipo di esame sommario che può essere svolto in questa fase cautelare e fatto salvo ogni opportuno approfondimento che potrà essere eventualmente svolto nella fase di cognizione piena, merita di essere confermata.
2. Anche il secondo motivo proposto nell’interesse della B. è infondato.
Si contesta l’omessa considerazione della consulenza difensiva redatta dal Dott. N.P., con la quale si voleva dimostrare l’insussistenza di una operazione elusiva. Orbene, la censura non coglie nel segno, poichè a pagina 10 dell’ordinanza le deduzioni sono espressamente confutate, individuando i tre passaggi (iniziale cessione integrale della partecipazione in xxxxxx" s.p.a., da parte dei soci controllanti, nei confronti della xxxxxx s.p.a., riconducibile ai medesimi soggetti, realizzando una vendita a se stessi; retrocessione dei dividendi percepiti dalla xxxxxx" s.p.a. e dalla xxxxxx s.p.a. in favore dei soci controllanti, a seguito della loro imputazione al prezzo dovuto in relazione al contratto di compravendita di azioni; sottrazione dei dividendi all’imposizione diretta, attraverso l’omessa dichiarazione) dell’operazione elusiva.
3. Uguale sorte merita il primo motivo di ricorso proposto dagli altri indagati, nel quale si contesta il ricorso alla figura del giudicato cautelare da parte del Tribunale del riesame, poichè, come si è detto, la consulenza N. non è stata in concreto ignorata.
4. Quanto poi al secondo motivo, relativo alla inconfigurabilità del delitto di truffa in presenza dell’illecito tributario, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite xxx, va rilevato che agli indagati D.G.A., D.G.P. e D.G. M., diversamente che a B.L. (capo O della rubrica), non è contestato il delitto di infedele dichiarazione, poichè gli indagati non avevano un autonomo obbligo dichiarativo, sicchè la sottrazione degli utili all’imposizione tributaria, quale risultato dell’interposizione di una serie di schermi societari, quali fittizi titolari della partecipazione societaria, ha sostanziato una vera e propria truffa, non un illecito tributario.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato la specialità del delitto di frode fiscale (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 2 ed 8) rispetto a quello di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, c.p. comma 2, n. 1), sulla base di un confronto fra le fattispecie astratte e non partendo dalla condotta in concreto posta in essere, che nel caso di specie è invece inquadrabile ai sensi dell’art. 640 c.p., comma 2.
5. In conclusione il ricorso di ciascuno degli imputati va rigettato;
al rigetto consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2014

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