Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-05-2013) 06-06-2013, n. 24996

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 3 gennaio 2013, il Tribunale di Messina ha respinto la richiesta di riesame avanzata nell’interesse di L.C. S. avverso l’ordinanza emessa il 17 dicembre 2012 dal locale Giudice per le indagini preliminari con la quale era stata disposta nei confronti del predettola misura della custodia cautelare in carcere in ordine al delitto di tentata estorsione ai danni di N.V. aggravata a norma del D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Propone ricorso per cassazione il difensore il quale contesta la sussistenza del presupposto della gravità indiziari, in quanto dal compendio degli elementi acquisiti, non è dato ricavare con certezza la entità delle somme oggetto delle richieste e se sussistesse in origine una onerosità del prestito e d quale ne fosse il relativo tasso di interesse. Le dichiarazioni degli imputati convergerebbero sulla regolarità della operazione, evocandosi semmai una truffa che l’ I. avrebbe subito dal N.. L’imputato d’altra parte, non sarebbe intervenuto per chiedere il pagamento delle somme dovute, ma solo "per sapere chi tra il N. ed il cognato M. si fosse effettivamente appropriato delle somme". Non sussisterebbe dunque alcuna condotta intimidatoria, stante anche la condizione di "parità" che la vittima manifestava attraverso le sue conoscenze di malavitosi. Tenuto conto poi dell’epilogo della vicenda, sussisterebbero i presupposti per ravvisare comunque l’ipotesi della desistenza. La qualificazione dei fatti, doveva comunque condurre a ravvisare la ipotesi di cui agli artt. 56 e 393 c.p.. Non sussisterebbe, infine, l’aggravante d cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, mancando nella personalità dell’imputato e nella condotta posta in essere gli indici per avvisare la evocazione della forza intimidatrice di una consorteria mafiosa.

L’intera gamma delle doglianze attinenti al merito della vicenda, alla correttezza della qualificazione giuridica dei fatti ed alla sussistenza del presupposto della gravità indiziaria, ha già formato oggetto di puntuale ed esaustiva disamina da parte dei giudici del riesame, i quali, dopo aver scandagliato la vicenda del prestito usurario alla interno della quale si è inserito il contributo dell’imputato, ne hanno focalizzato il ruolo, alla luce delle inequivoche risultanze scaturite dalle intercettazioni. Le doglianze ora riproposte si rivelano, dunque, prive di fondamento ed ai limiti della inammissibilità, sia perchè fondate su una inammissibile rilettura delle valutazioni di merito condotte dai giudici del riesame, sia, soprattutto, perchè nella sostanza prive di specificità, avuto riguardo – come si è detto – alla puntuale risposta già data in sede di gravame.

Sono invece fondate le doglianze relative alla aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, al momento che l’ordinanza impugnata ha ritenuto sussistente tale aggravante facendo leva esclusivamente sulla "riconosciuta fama criminale" dell’indagato e di altri coinvolti nello stesso episodio. Il "metodo mafioso", infatti, riceve definizione normativa attraverso il riferimento all’impiego "delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p.", vale a dire dell’impiego della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva; il che, evidentemente, evoca, non il modo di atteggiarsi del fatto-reato in se e per sè considerato, e la cui realizzazione, in forme anche particolarmente eclatanti, risulta – sul piano della struttura della aggravante in questione – elemento del tutto neutro, quanto la particolare efficacia intimidatrice che deriva dalla esistenza – concreta e percepibile – di un sodalizio che si connota delle pecurialità descritte dall’art. 416 bis c.p., e la relativa condizione di assoggettamento ed omertà che la presenza territoriale di quella associazione è in grado di generare: elementi, questi, dei quali gli autori del fatto devono avvalersi per rendere il reato aggravato a norma del D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

La verifica, in concreto, circa la sussistenza di siffatti requisiti sarà compito del giudice del rinvio, il quale dovrà altresì tenere conto, in punto di adeguatezza della misura e di esigenze cautelari, del fatto che la Corte costituzionale con sentenza n. 57 del 2013 ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 275 c.p.p., comma 3, secondo periodo, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

L’ordinanza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al Tribunale di Messina per nuovo esame sui punti innanzi indicati.

P.Q.M.

Annulla l’impugnata ordinanza limitatamente alla aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ed alle esigenze cautelari con rinvio al Tribunale di Messina per nuovo giudizio sul punto. Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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