Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 27-09-2013, n. 40304

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Il 23.10.2012 il Tribunale di Taranto, costituito ex art. 310 c.p.p., rigettava gli appelli avanzati da R.E., N. R. e C.L. avverso le ordinanze con le quali il Gip della stessa sede, in data 26.9.2012 e 3.10.2010, aveva respinto le istanze di revoca della misura cautelare applicata ai predetti.
Premetteva che agli appellanti era stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione ai reati di cui all’art. 434 c.p., commi 1 e 2, art. 437 c.p., commi 1 e 2 e art. 439 c.p., fatti commessi dal (OMISSIS) con permanenza, e che il provvedimento cautelare era stato confermato dal tribunale del riesame in data 7.8.2012.
Affermava che le circostanze dedotte dagli indagati non sono idonee a ritenere cessate le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c).
Quanto alla posizione del C., ex direttore dello stabilimento (OMISSIS), rilevava che la cessazione del rapporto di lavoro con la società se da un lato comporta la perdita della qualifica nella quale l’indagato ha posto in essere le condotte di cui alle contestazioni, attraverso le quali ha anche manifestato il concreto pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova, tuttavia non esclude la reiterazione di condotte antigiuridiche dello stesso rilievo e della stessa natura. Evidenziava, quindi, la rilevanza della collaborazione prestata dal direttore dello stabilimento alla dirigenza, nonchè, la pervicace spregiudicatezza da parte dell’indagato nella commissione degli illeciti di cui è chiamato a rispondere, nonostante fosse già gravato da sette condanne irrevocabili per reati legati alla sua posizione di dirigente aziendale.
Con riferimento alla posizione di R.N. e R.E., premesso che la gran parte delle circostanze rappresentate dai difensori non possono considerarsi nuove rispetto al quadro cautelare già in precedenza esaminato, il tribunale affermava che le vicende attinenti alla concreta gestione degli impianti in sequestro non escludono la posizione di forza degli indagati rispetto ai soggetti che a vario titolo hanno preso e potrebbero prendere parte alle indagini, tenuto conto del loro interesse ad eliminare o ridimensionare le proprie responsabilità, come già manifestato con le vicende indicate dettagliatamente dei precedenti provvedimenti cautelari. Richiamava sul punto la valutazione operata dal tribunale in sede di riesame della misura cautelare evidenziando, altresì, come, in ogni caso, la valutazione del rischio di recidiva imponga di prescinde dalle vicende che stanno interessando lo stabilimento Uva di Taranto, dovendo considerarsi, innanzitutto, la pervicacia dimostrata nella commissione dei gravi illeciti contestati in uno alle pendenze giudiziarie che risultano a carico di R.E. ed i precedenti penali dello stesso e del figlio N..
2. Hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti indagati con separati atti, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.
2.1. C.L. deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dei presupposti di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. a) e c), rilevando che, dopo avere rassegnato le dimissioni, il (OMISSIS), dalla carica di direttore dello stabilimento (OMISSIS) – che, a far data dal 27.8.2012, è ricoperta dall’ing. B. – in data 28.9.2012 ha interrotto il rapporto di lavoro con la società xxx s.p.a..
Lamenta, quindi, che immotivatamente – così come il Gip – il tribunale dell’appello ha ritenuto irrilevante ai fini cautelari detta circostanza; invero, il tribunale non ha indicato con motivazione adeguata e logica le ragioni della persistenza delle esigenze cautelari, pur nella diversa posizione soggettiva che rappresenta un elemento di assoluta discontinuità che esclude la possibilità per il ricorrente sia di intervenire nella gestione dello stabilimento di Taranto, sia di interferire nella stessa.
Contesta, quindi, specificamente l’asserita persistenza di pericolo di inquinamento probatorio argomentato dal tribunale con il mero riferimento ad una presunta fattiva collaborazione prestata alla dirigenza della società tesa ad incidere sui procedimenti amministrativi e giudiziari in corso che, quindi, pretermette ogni valutazione della intervenuta cessazione del rapporto tra il ricorrente e la società. Del resto, il richiamo operato sul punto al contenuto del provvedimento reso dal tribunale in sede di riesame espone l’ordinanza impugnata alle medesime censure dedotte con il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del ricorso in ordine al ritenuto pericolo di inquinamento probatorio che vengono ripercorse.
Ribadisce, infine, l’omessa valutazione, ai fini del ritenuto pericolo di reiterazione dei fatti della stessa natura, della interruzione di ogni collegamento tra l’indagato è l’attività svolta presso gli impianti oggetto di indagine. Pertanto, ad avviso del ricorrente, risulta arduo comprendere attraverso quale percorso concretamente possono essere reiterate analoghe fattispecie delittuose, dovendosi ritenere che la possibilità di realizzarle in altri contesti costituisce pura astrazione in totale dispregio dei necessari requisiti della concretezza ed attualità. Alcun rilievo possono assumere i richiamati precedenti penali che sono oggettivamente incontrovertibili e, comunque, attengono ad una fase della gestione della società particolarmente risalente nel tempo.
2.2. E. e R.N. deducono – con distinti ricorsi – la violazione di legge ed il vizio della motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla valutazione delle ragioni, tutte riconducibili a fatti sopravvenuti, poste a fondamento dalla istanza di revoca della misura per carenza delle esigenze cautelari.
Con riferimento al ritenuto pericolo di inquinamento probatorio rilevano, in specie, che non si è tenuto conto: dell’operato dei custodi nominati e dei numerosi accessi dagli stessi effettuati;
degli avvenuti interventi dell’ARPA Puglia; dell’esistenza di un procedimento amministrativo per la revisione dell’xxx; delle numerose riunioni del consiglio di amministrazione della società successive all’applicazione della misura cautelare.
Quindi, al di là della rilevanza fattuale e giuridica della cessazione dalla carica (in particolare per R.N.), si lamenta la carenza di motivazione rispetto ai fatti sopravvenuti avendo l’ordinanza fatto riferimento ad un quadro cautelare superato.
Anche con riferimento alla valutata permanenza del pericolo di reiterazione dei reati E. e R.N. denunciano la violazione di legge ed il vizio di motivazione.
Ribadita la necessità dell’attualità del pericolo di recidiva tale da generare le occasioni criminose, i ricorrenti lamentano la insufficiente valutazione dei fatti sopravvenuti dedotti con l’istanza di revoca della misura cautelare che, certamente non si compendiano nel provvedimento di sequestro dell’impianto, bensì, nella sua attuazione verificatasi successivamente alla conferma della misura cautelari e nella revisione dell’xxx.
Lamentano, altresì, che il tribunale non ha tenuto conto nella valutazione operata degli eventi successivi che stanno interessando lo stabilimento xxx di Taranto.
Infine, R.N. denuncia la errata indicazione della sussistenza di precedenti penali a suo carico, essendo, invece, incensurato, posto che l’unico precedente è relativo ad un decreto penale di condanna revocato nel 1998 in relazione al quale, comunque, si sarebbe estinto ogni effetto penale per il tempo trascorso.
Motivi della decisione
Le istanze di revoca oggetto dell’appello deciso con l’ordinanza impugnata hanno riguardo alla misura cautelare degli arresti domiciliari che è stata applicata ai ricorrenti dal Gip del Tribunale di Taranto in data 25.7.2012 – in relazione ai reati di cui all’art. 434 c.p., commi 1 e 2, art. 437 c.p., comma 1 e 2 e art. 439 c.p., fatti commessi dal (OMISSIS) con permanenza – e che è già stata confermata all’esito del giudizio di riesame dal Tribunale di Taranto, in data 7.8.2012; i relativi ricorsi per cassazione sono stati rigettati da questa Corte in data 16.1.2013.
Il giudice dell’appello ha ritenuto che le circostanze dedotte dagli indagati con le istanze di revoca non sono idonee a dimostrare il venir meno delle già ritenute esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c).
Tale affermazione, contestata dagli indagati con gli argomenti posti a fondamento dei rispettivi ricorsi, non può che essere esaminata alla luce della anzidetta pronuncia di questa Corte che ha rigettato i ricorsi nel giudizio di riesame.
Invero, il giudice richiesto della revoca di una misura cautelare personale rispetto alla quale sia già stata proposta istanza di riesame a suo tempo disattesa, qualora escluda l’intervento di fatti nuovi atti a modificare l’originario quadro, non ha alcuno specifico onere di motivazione ne1 in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, nè in ordine alle esigenze cautelari come in precedenza ritenuti e fatti oggetto di valutazione (Sez. 6^, n. 35647 del 15/04/2003 – dep. 17/09/2003, xxx, rv. 226323).
Se è vero, infatti che il giudicato cautelare ha una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata, sia perchè esso è limitato allo stato degli atti, sia perchè non copre anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione, tuttavia, la richiesta di revoca della misura cautelare non può sollecitare la mera rivalutazione di quanto già posto a fondamento delle precedenti decisioni ovvero delle questioni che, benchè non enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di quelle espressamente dedotte; così come deve ritenersi preclusa la valutazione di nuove argomentazioni volte ad illustrare i profili di una nullità già dedotta (Sez. 4^, n. 26430 del 29/04/2003 – dep. 19/06/2003, xxx, rv. 226197).
Nella specie, la prospettazione della cessazione delle esigenze cautelari ed i rilievi mossi con i ricorsi al provvedimento di rigetto del giudice dell’appello sono stati fondati dagli indagati su circostanze di fatto ed argomenti logici del tutto sovrapponibili a quelli già valutati nel giudizio incidentale di riesame, concluso con la decisone di questa Corte in data 16.1.2013, della misura cautelare di cui è stata chiesta la revoca.
Per quel che riguarda il C. l’unico elemento diverso da quelli già valutati nel procedimento incidentale cautelare è costituito dalla interruzione formale del rapporto di lavoro del ricorrente con la società xxx. Tale circostanza, tuttavia, sul piano logico-valutativo della sussistenza delle esigenze cautelari solo apparentemente è nuova, atteso che già in sede di riesame era stato preso in esame ai medesimi fini il dato fattuale della intervenuta dismissione della carica e di qualsivoglia ruolo del C. nella società e nella gestione dello stabilimento.
E. e R.N. indicano come fatti sopravvenuti, sui quali l’ordinanza impugnata non avrebbe specificamente motivato, soltanto circostanze delle quali non viene individuata, nè resa individuabile, alcuna reale ricaduta innovativa rispetto alle ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, sia quanto al pericolo di inquinamento probatorio, sia al pericolo di reiterazione delle condotte illecite.
I ricorrenti, infatti, indicano genericamente che dopo la applicazione della misura cautelare è intervenuto l’operato dei custodi giudiziari che hanno effettuato numerosi accessi; che vi sono stati interventi dell’ARPA Puglia; che è in corso un procedimento amministrativo per la revisione dell’xxx; che vi sono state numerose riunioni del consiglio di amministrazione della società.
Allo stesso modo, i predetti ricorrenti non indicando in cosa si sostanzi il carattere di novità, sotto il profilo della valutazione del pericolo di reiterazione, di quella che viene indicata genericamente come attuazione del sequestro, ovvero della revisione dell’autorizzazione integrata (A.I.A).
Tutte le restanti circostanze di fatto richiamate – tra queste la questione della errata indicazione dei precedenti penali di N. R. – sono in già state valutate nel giudizio incidentale di riesame.
Per tutte le predette ragioni i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge, ai sensi dell’art. 61 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma ritenuta congrua di Euro 1.000,00 (mille) ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille (1.000,00) Euro ciascuno alla cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2013

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