Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 09-08-2013, n. 34649

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 31.8.2012 il Tribunale di Milano, costituito ex art. 310 c.p.p., respingeva l’appello avverso il provvedimento del 21.7.2012 con il quale il Gip dello stesso Tribunale rigettava l’istanza di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere applicata a D.G..

Premetteva che al predetto era stata applicata la misura cautelare della custodia in carcere, in data 5.7.2010, in relazione al reato di cui all’art. 416 bis c.p. ed a violazioni in materia di stupefacenti, aggravate ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7; che il predetto, all’esito del giudizio abbreviato, è stato condannato con sentenza del 19.11.2011 alla pena di anni dieci di reclusione, oltre la multa, in ordine ai predetti reati, esclusa l’aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ed, in specie, per la partecipazione all’associazione di stampo mafioso, denominata ‘ndrangheta, ed in particolare, ad una articolazione operante nel territorio di Milano, denominata locale di (OMISSIS).

Il tribunale riteneva infondate le doglianze dell’appellante, stante la permanenza delle esigenze cautelari, già valutate in sede di applicazione della misura, in relazione alla gravità dei fatti e alla qualificazione giuridica delle imputazioni per le quali sussiste la presunzione di pericolosità e di adeguatezza della misura più grave, ai sensi dell’art. 275 c.p.p., comma 3, che opera anche nelle fasi successive all’applicazione della misura cautelare.

In particolare, la circostanza che il D. abbia sofferto un periodo di carcerazione di oltre due anni, corrispondente alla pena inflitta per il reato associativo, e la condizione di incensuratezza, ad avviso del giudice dell’appello, non sono significative ai fini della dedotta cessazione delle esigenze cautelari, tenuto conto che la durata della custodia cautelare deve essere commisurata alla pena complessivamente inflitta e non a quella determinata per i singoli reati. Riteneva irrilevanti, altresì, le vicende processuali degli altri coindagati considerato, peraltro, il ruolo svolto dall’appellante all’interno del gruppo criminale ed i legami stretti, anche di parentela, con altri sodali ed, in specie, con S. A., vertice della ‘ndrina.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il D., a mezzo del difensore di fiducia, lamentando la violazione di legge ed il vizio di motivazione del provvedimento impugnato.

Contesta, in primo luogo, che la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3 opera anche nelle fasi successive all’applicazione della misura cautelare.

Lamenta, quindi, il vizio della motivazione, a fronte degli elementi di fatto introdotti dall’appellante, in ordine al mutamento del quadro cautelare rispetto al momento dell’applicazione della misura cautelare, tenuto conto che proprio la carcerazione preventiva ha interrotto il contatto con l’associazione che non deve avvenire necessariamente per comportamento concludente o volontà espressa.

Lamenta, altresì, la omessa valutazione della intervenuta esclusione dell’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 che era stata ritenuta in sede di applicazione della misura cautelare e della circostanza che la compagna del ricorrente ha dichiarato la propria disponibilità ad accoglierlo e ad assumerlo alle proprie dipendenze.

Infine, richiama la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 275 c.p.p., comma 3 in relazione alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

Motivi della decisione

Il ricorso, ad avviso del Collegio, deve essere dichiarato inammissibile.

Invero, le doglianze poste a fondamento del ricorso si palesano aspecifiche, per evidente mancanza di correlazione con le argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata ed infondate.

Il ricorrente, in sostanza, si è limitato a riproporre genericamente le censure oggetto dell’atto di appello che sono state compiutamente ed adeguatamente esaminate dal tribunale della libertà con motivazione immune da vizi di logica e di interna coerenza.

La motivazione della ordinanza impugnata – come sintetizzata in premessa – si sottrae, invero, alle censure che le sono state mosse su tutti i punti contestati dal ricorrente. Il tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati da questa Corte, sia con riferimento alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a seguito dell’intervenuta condanna del D. all’esito del giudizio abbreviato, sia avuto riguardo al permanere delle esigenze cautelari ed alla adeguatezza della misura carceraria.

Il "fatto nuovo" rilevante ai fini della revoca, ovvero della sostituzione della misura coercitiva con altra meno grave, deve essere costituito da elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento delle esigenze cautelari apprezzate all’inizio del trattamento cautelare con riferimento al singolo indagato (od imputato), risultando all’uopo inconferenti sia il mero decorso del tempo dall’inizio dell’applicazione della misura che il bilanciamento con la valutazione (in melius) delle esigenze cautelari operata in relazione a coindagati (Sez. 2, n. 39785, 26/09/2007, Poropat, rv.

238763).

E’ opportuno, altresì, ribadire, quanto alla presunzione isciplinata dall’art. 275 c.p.p., comma 3 che, come recentemente chiarito dalle Sezioni unite di questa Corte, la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva, ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (sez. U, n. 34473 del 19.07.2012, rv. 253186).

Il Tribunale a detto principio ha fatto riferimento avuto riguardo al reato associativo per il quale è intervenuta condanna, restando, pertanto, irrilevante l’esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, originariamente contestata in relazione alla violazione in materia di stupefacenti.

Privo di qualsivoglia correlazione è, all’evidenza, il richiamo del ricorrente alla decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 275 c.p.p., comma 3, in relazione alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 che non risulta neppure contestata dal D..

Si impone, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dello stesso ai sensi dell’art. 591 c.p.p. e art. 606 c.p.p., comma 3.

Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma ritenuta congrua di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

La Cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi a cura della Cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’Istituto Penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2013

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