Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-08-2012, n. 14609

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Svolgimento del processo
1 – Con atto di citazione notificato in data 18 gennaio 1996 la signora T.M.R. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Treviso il Comune di xxx di xxx e, premesso che era stata disposta e realizzata l’occupazione di un bene di sua proprietà, costituito da un terreno con sovrastante fabbricato, successivamente sottoposto ad irreversibile trasformazione, mediante demolizione della costruzione per la realizzazione di una strada di accesso alla piazza (OMISSIS), destinata allo svolgimento del mercato settimanale; che il procedimento era illegittimo per assenza, nella relativa delibera, dei termini iniziali e finali dell’espropriazione e di inizio e fine dei lavori, chiedeva, in via principale, la rimessione in pristino dei luoghi di sua proprietà e, in via subordinata, il risarcimento dei danni.
Si costituiva l’amministrazione comunale, resistendo alla pretesa e chiedendo di chiamare in giudizio la Provincia di Treviso, per essere dalla stessa tenuta indenne dagli esborsi in misura superiore all’indennità di espropriazione.
Assunte le prove dedotte ed ammesse, disposta ed espletata consulenza tecnica d’ufficio, il tribunale adito, con sentenza depositata il 26 marzo 2003, dato atto dell’illegittimità dell’occupazione, posta in essere in carenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, nonchè dell’intervenuta manipolazione irreversibile del fondo dell’attrice, affermava che all’accoglimento della domanda di riduzione in pristino era ostativo il pregiudizio che dal suo accoglimento sarebbe derivato all’economia nazionale, con conseguente applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933 c.c., comma 2.
Veniva accolta, quindi, la domanda di risarcimento per equivalente, determinandosi in Euro 20.508,50 l’importo a tale titolo dovuto alla T., al cui pagamento, oltre alle spese di lite nella misura di due terzi veniva condannato, in favore della stessa, il Comune convenuto.
La Corte di appello di Venezia, pronunciando sugli appelli proposti in via principale dalla T., la quale si doleva principalmente del mancato accoglimento della domanda di riduzione in pristino dei luoghi, nonchè dal Comune, che contestava l’entità della somma attribuita a titolo di risarcimento del danno, ritenuta incongrua per eccesso, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale accoglimento del gravame incidentale, dichiarava non dovuti gli interessi anatocistici attribuiti con la sentenza di primo grado, rilevando la riferibilità dell’art. 1283 c.c. alle sole obbligazioni pecuniarie.
Quanto alla domanda principale riproposta dalla T., osservava la Corte che, pur essendo incontrovertibile la circostanza relativa alla natura usurpativa dell’occupazione, in relazione alla quale si era ormai formato il giudicato interno, doveva confermarsi il giudizio del Tribunale circa il pregiudizio derivante all’economia nazionale dalla rimessione in pristino del fondo, dovendosi altresì condividere i rilievi dell’amministrazione comunale circa l’eccessiva onerosità, ai sensi dell’art. 2058 c.c., del risarcimento del danno in forma specifica, considerati gli ingenti costi inerenti alla demolizione dell’opera pubblica già realizzata e alla sua diversa allocazione, a fronte dell’ardua ricostruibilita di un fabbricato vetusto, con destinazione portico-fienile cantina.
Veniva altresì confermata la liquidazione del danno operata dal Tribunale, mediante un apprezzamento delle risultanze della consulenza tecnica, opportunamente richiamate.
Per la cassazione di tale decisione la T. propone ricorso, affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso il Comune di xxx di xxx.
Dette parti hanno altresì prodotto memorie illustrative, mentre la Provincia di Treviso non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
2 – Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2058 e 2933 c.c., dell’art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sostenendosi che non si sarebbe tenuto conto della complessiva disciplina dell’occupazione usurpativa, in forza della quale, a fronte della natura permanente dell’illecita occupazione, non si verifica la perdita del bene da parte del proprietario, il quale è legittimato ad esperire la tutela reale, nel cui confronti non troverebbe applicazione il limite dell’eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 c.c. Non ricorrerebbe, inoltre, il presupposto richiesti dall’art. 2933 c.c., comma 2, riferibile al pregiudizio dell’economia nazionale, e non a una realtà locale.
2.1 – Con il secondo motivo viene prospettata, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale delle suindicate norme, con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost. e all’art. 1 del Primo Protocollo della Cedu.
2.2 – Con il terzo motivo si prospetta l’incompatibilità degli artt. 2058 e 2933 c.c., come sopra indicati con le norme Cedu alla luce dell’art. 6 del Trattato di Nizza, da disapplicarsi onde consentire la restituzione alla proprietaria del bene illegittimamente appreso.
3 – I diversi profili di censura del primo motivo, che, per la loro intima connessione, possono esaminarsi congiuntamente, sono fondati.
4 – Benvero, il tema della tutela reale del diritto del proprietario sottoposto ad occupazione di tipo usurpativo è stato affrontato e risolto dalla corte territoriale in termini che non consentono di superare il vaglio di legittimità, per le seguenti ragioni.
5 – Con la prima decisione che ha definito in maniera chiara i contorni della figura dell’occupazione usurpativa (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1814), questa Corte, ripercorrendo le tappe del percorso giurisprudenziale inerente alla c.d. occupazione espropriativa, ha posto in evidenza l’esigenza di approfondire i meccanismi di tutela del proprietario nell’ipotesi in cui non sussista, come avviene nella fattispecie testè richiamata, una valida dichiarazione di pubblica utilità. Movendo da precedenti arresti (fra i quali Cass. Sez. Un., 4 marzo 1997, n. 1907), nei quali si era affermata la possibilità per il proprietario di optare, anzichè per la tutela restitutoria, per quella risarcitoria, si è pervenuti alla conclusione, per quanto qui maggiormente interessa, che "nell’occupazione che, per convenzione, potremmo definire usurpativa, il giudice si occupa della domanda risarcitoria del proprietario sotto l’aspetto delle non consentite trasformazioni che l’occupante abusivo abbia apportato al fondo. Ma l’acquisizione del bene alla mano pubblica resta estranea alla fattispecie, e dipendendo da una scelta del proprietario usurpato, è inquadrabile in una vicenda logicamente e temporalmente successiva alla definitiva trasformazione del fondo, e se può ipotizzarsi un modo di acquisto della proprietà a titolo originario, esso non ha carattere accessivo (artt. 934 c.c), ma semmai occupatorio in relazione ad un bene che è un novum nella realtà giuridica (in analogià all’art. 942c.c.), ove non rileva la destinazione a soddisfare una pubblica utilità, giacchè qui neppure può porsi questione di bilanciamento di interessi".
L’occupazione "sine titulo" del fondo, in altri termini, non può comportare, soprattutto in assenza di una scelta abdicativa del proprietario (sulla cui conformità ai principi della CEDU cfr. la recente Cass., 19 ottobre 2011, n. 21639), la perdita della proprietà del fondo da parte del soggetto che subisce l’occupazione, con la conseguenza che "l’assenza dell’indefettibile presupposto del riconoscimento, da parte degli organi competenti, della pubblica utilità dell’opera comporta che il privato, durante l’illegittima occupazione, possa fruire dei rimedi reipersecutori a tutela della non perduta proprietà" (Cass. n. 1814/2000 citata).
6 – Deve pertanto affermarsi, anche sulla base dei criteri testè richiamati (per altro costantemente ribaditi ed applicati con sempre maggiore rigore, anche nell’occupazione c.d. espropriativi: cfr.
Cass., Sez. un., 31 maggio 2011, n. 11963, in merito alla possibilità di chiedere la restituzione della porzione del bene originariamente occupata e non oggetto di irreversibile trasformazione), che il principio di effettività della tutela del diritto del proprietario, essendo insussistente la dichiarazione di pubblica utilità, non possa soffrire di alcuna limitazione. In particolare, non può escludersi la tutela reale, soprattutto quando manchi, da parte del titolare del diritto, qualsiasi atto abdicativo, ancorchè implicito, mentre al contrario, come nella fattispecie in esame, venga espressamente esercitata l’azione restitutoria. Tale conclusione, del resto, è conforme ai principi affermati, in più occasioni, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (a partire dalla nota decisione xxx c/Stato It. del 30 maggio 2000, proprio in tema di occupazione usurpativa) ha escluso che l’autorità pubblica possa acquisire la proprietà di beni privati nel disprezzo delle regole formali previste per l’espropriazione, e senza che assuma immediata rilevanza il fine di pubblica utilità (cfr. anche Cass., 11 giugno 2006, n. 11096, nella cui motivazione si esamina la compatibilità dell’occupazione espropriativa e, per quanto qui interessa, di quella usurpativa, con i principi affermati dalla Cedu con le note decisioni xxx e xxx e xxx).
7 – Del resto, l’orientamento di questa Corte, con riferimento all’occupazione usurpativa, è assolutamente consolidato nel senso della natura permanente dell’illecita occupazione, con piena esperibilità delle azioni reipersecutorie e restitutorie a tutela della non perduta proprietà del bene, a meno che non sia lo stesso proprietario a rinunciarvi, anche implicitamente, ovvero sia intervenuto un atto di cessione, (Cass., 25 gennaio 2012, n. 1080;
Cass., 15 settembre 2005, n. 18239; Cass., 16 maggio 2003, n. 7643;
Cass., Cass., Sez. un. 6 maggio 2003, n. 6853; Cass., Cass., 12 dicembre 2001, n. 15710; Cass., 21 marzo 2000, n. 3298), essendosi d’altra parte escluso (a partire da Cass., Sez. un., 18 dicembre 1975; cfr. anche Cass. 25 gennaio 2000, n. 823; Cass., 2 marzo 2007, n. 4975), in assenza dell’imprescindibile dichiarazione di pubblica utilità, il passaggio del bene nel demanio stradale dell’amministrazione comunale, richiedendosi al riguardo non soltanto la sua costruzione e destinazione a strada destinata al pubblico transito, bensì che la stessa appartenga ad un ente pubblico territoriale.
8 – Nell’ambito di detta tutela di natura reale non possono trovare applicazione le disposizioni contenute nell’art. 2933 c.c., comma 2, e art. 2058 c.c., comma 2.
9 – La sentenza impugnata ha affermato l’applicabilità della disposizione contenuta nell’art. 2933 c.c., comma 2, già ritenuta operante in primo grado ai fini della verifica della fondatezza della domanda di riduzione in pristino, ritenendo, senza altro aggiungere, che il suo accoglimento "risulterebbe di pregiudizio all’economia nazionale"; a prescindere dalla riferibilità della norma in questione agli obblighi di non fare (e quindi, ai soli aspetti che riguardano la manipolazione del bene e non l’azione restitutoria), non è dato di comprendere quale legame possa sussistere fra la celebrazione del mercatino settimanale di xxx di xxx e le sorti dell’economia di un intero Paese: la giurisprudenza formatasi in relazione alla norma testè richiamata è costantemente orientata nel ritenere che la stessa debba essere interpretata in senso restrittivo, riferendosi alle cose insostituibili ovvero di eccezionale importanza per l’economia nazionale, con conseguente inapplicablità qualora il pregiudizio riguardi interessi individuali e locali (Cass., 17 febbraio 2004, n. 3004; Cass., 25 maggio 2012, n. 8358).
10 – Quanto al secondo profilo, questa Corte ha avuto modo di affermare che la tutela riservata ai diritti reali non consente l’applicabilità dell’art. 2058 c.c. nel caso di azioni volte, appunto, a far valere uno di tali diritti, atteso il carattere assoluto degli stessi (Cass., Sez. un. 10 maggio 1995, n. 5113;
Cass., 29 ottobre 1997, n. 10694; Cass., 1 agosto 2003, n. 11744;
Cass., 16 gennaio 2007, n. 866) salvo che sia la stessa parte danneggiata a chiedere la condanna per equivalente. Non potendosi omettere di rilevare che non possono ritenersi applicabili i limiti inerenti alla regolamentazione del risarcimento del danno alla tutela reale, che, oltre a trovare la propria disciplina specifica negli artt. 948 e 949 cod. civ., "esige la rimozione del fatto lesivo" (Cass., 4 novembre 1993, n. 10932), appare opportuno richiamare il vivace dibattito culturale che la dottrina negli ultimi tempi ha dedicato al tema della collocazione o meno della reintegrazione in forma specifica nell’area – come modalità – del risarcimento del danno, ovvero come tutela del tutto autonoma e da esso distinta. La prima soluzione, maggiormente condivisa, appare preferibile, anche sulla scorta degli argomenti fondati sulla collocazione della norma, sulla sua portata letterale e su una nozione di danno ampia, cioè non riferibile al solo nocumento di natura patrimoniale, ma anche all’alterazione, sul piano fenomenico, come conseguenza dell’atto illecito, dell’integrità e della consistenza del bene. Se dunque, la disciplina complessivamente dettata dall’art. 2058 c.c.. si appartiene alla materia del risarcimento del danno, erroneamente essa è applicata quando vanga esercitata, come nel caso, la tutela restitutoria (cfr., in tal senso, anche, in motivazione, Cons. St., Ad. pi., 29 aprile 2005, n. 2).
11 – Risultano assorbite le questioni di legittimità costituzionale delle norme in questione nonchè della difformità dell’interpretazione resane della Corte territoriale ai principi comunitari, sollevate con esclusivo riferimento all’ipotesi di una difforme interpretazione rispetto a quella accolta. Per completezza di esposizione deve evidenziarsi l’assoluta irrilevanza della norma contenuta nel D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 43 ormai abrogata, come pure dell’art. 42 bis successivamente introdotto (sempre che siano superabili i rilievi, di carattere generale, formulati dalla Corte cost. nella sentenza n. 293 del 2010), in quanto non risulta adottato alcun provvedimento di acquisizione del bene.
12 – In conclusione, il ricorso deve essere accolto. La decisione impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di appello di Venezia che, in diversa composizione, applicherà il seguente principio di diritto: "in tema di occupazione usurpativa, nell’ipotesi di ricorso, da parte del proprietario del bene illecitamente occupato, alla tutela reale, mediante azione di restituzione, ancorchè accompagnata dalla richiesta di riduzione in pristino, non sono predicabili i limiti intrinseci alla disciplina risarcitoria, come l’eccessiva onerosità prevista dall’art. 2058 c.c., comma 2; nè può farsi ricorso alla previsione dell’art. 2933 cod. civ., comma 2 ove non risulti che la distruzione della "res" indebitamente edificata sia di pregiudizio all’intera economia del Paese, ma abbia, al contrario, riflessi di natura individuale o locale".
Il giudice del rinvio provvederà, altresì, in merito al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, il 24 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2012

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