Corte di Cassazione – Sentenza n. 26153 del 2011 La condizione socio culturale in cui vive la famiglia non esclude anzi aggrava il reato di maltrattamenti in famiglia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza 17 ottobre 2005, il Tribunale di Foggia condannò N. C. alla pena di un anno e otto mesi di reclusione per i delitti di maltrattamenti in famiglia e di lesione personale aggravata in danno della moglie A.D.G. ritenuti unificati nel vincolo della continuazione.
2. Contro la sentenza della Corte d’appello di Bari, indicata in epigrafe, che ha confermato la decisione del primo giudice, ricorre per cassazione il difensore dell’imputato, che deduce, ex art. 606.1 lett. b), c) ed e) cod. proc. pen.:
a) violazione dell’art. 603 c. p.p., lamentando l’incomprensibilità della grafia del verbalizzante;
b) omissione di esame e di motivazione dei motivi d’appello relativi alla mancanza di riscontri alle dichiarazioni dei testi escussi;
c) inosservanza dell’art. 572 cod. pen., per mancanza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato oggettivo;
d) violazione dell’art. 192 c.p.p. per mancanza di riscontri alle dichiarazioni rese dalla parte offesa, costituitasi parte civile, e dai figli sentiti in qualità di testimoni.
e) violazione degli artt. 157 e 161 cod. pen., per essere già intervenuta la prescrizione dei reati.
Considerato in diritto
1. In adesione alla richiesta formulata dal Procuratore generale, il Collegio valuta come inammissibile il ricorso.
2. Il primo motivo, che reitera analoga eccezione formulata nella discussione in sede d’appello, è già stato correttamente rigettato dalla Corte territoriale, sia per ragioni giuridiche (per mancata deduzione del motivo con l’atto d’appello, trattandosi di pretesa nullità relativa ex art. 142 c.p.p.), sia per motivi di fatto: la Corte d’appello non solo ha attestato la leggibilità del verbale, ma ha evidenziato che l’atto d’appello si fondava sulle testimonianze dei figli dell’imputato, raccolte proprio nell’udienza il cui verbale veniva qualificato come illeggibile; in tal modo lo stesso contenuto dell’atto d’impugnazione smentiva l’assunto della difesa.
2. Manifestamente infondati sono i motivi di cui alle lettere b) e d) avendo la Corte d’appello dato conto della attendibilità della parte offesa
parte offesa e degli altri testi escussi, sia parenti sia estranei al nucleo famigliare, senza necessità di ulteriori riscontri oggettivi.
3. Per quanto concerne i motivi sub c) il ricorrente per un verso, assume l’episodicità degli atti maltrattanti realizzati dall’imputato e, per altro verso, attribuisce i suoi comportamenti a espressione della condizione socio-culturale del C., invocando, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato la condizione della moglie da parte dell’imputato, “come di un oggetto di sua esclusiva proprietà, frutto di una condizione di subcultura, tanto che “allorquando la figlia ha iniziato a tenere, secondo il padre, uno stile di vita libertino (rectius, più aderente all’epoca e alla cultura che stiamo vivendo) si è avuta la reazione del padre che temeva di perdere, come in effetti ha poi perduto, il controllo della situazione”. Si assume in ricorso che “le emergenze processuali depongono per l’essere stati commessi gli episodi di cui trattasi in condizioni psicologiche particolari, quali sono le situazioni suscitate da quella subcultura dell’imputato, che lo portava a ritenere che le liti familiari o le decisioni in famiglia potessero e dovessero essere assunte in quella maniera”.
3.1. Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, i giudici di merito hanno accertato che l’imputato, aveva cominciato a vessare la povera moglie già due giorni dopo il matrimonio, proseguendo per tutti i trent’anni della convivenza in una sistematica e abituale condotta offensiva, aggressiva e violenta, tanto da procurarle ripetutamente sofferenze psichiche e lesioni fisiche.
3.2. Quanto all’aspetto soggettivo, osserva il Collegio che atteggiamenti derivanti da subculture in cui sopravvivono autorappresentazioni di superiorità di genere e pretese da padre/marito-padrone non possono rilevare né ai fini dell’indagine sull’elemento soggettivo del reato (nella fattispecie dolo generico, pacificamente sussistente secondo la ricostruzione dei giudici di merito) né a quella concernente l’imputabilità dell’imputato, peraltro mai messa in dubbio dalla stessa difesa.
Il fatto che tali atteggiamenti siano proseguiti per ben trent’anni costituendo perciò il costume abituale di un anacronistico pater familias maschilista e intollerante, refrattario alla modificazione del costume e alla vigenza delle leggi della Repubblica che hanno progressivamente dato attuazione al principio costituzionale di uguaglianza tra i coniugi lungi dal potersi considerare una scriminante o un’attenuante, è stata correttamente valutata dai giudici di merito ai fini dell’intensità del dolo e dell’entità della sofferenza e del danno patiti dai famigliari.
4. L’inammissibilità del ricorso, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi (v. Cass. sez. U. n. 32/2000 De Luca) non consente il formarsi di un valido rapporto d’impugnazione e preclude pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare cause di estinzione dei reati per intervenuta (peraltro non ancora compiuta).
5. Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di 1.000 euro, in relazione alla natura delle questioni dedotte.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di 1.000 (mille) euro in favore della cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria il 05.07.2011

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