Cass. civ. Sez. II, Sent., 27-08-2012, n. 14657

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Svolgimento del processo

Con citazione del 17.6.93 M.R.O., proprietaria di un appartamento sito al secondo piano di uno stabile in (OMISSIS), per acquisto fattone il 22.12.92 da La.Mi., convenne al giudizio del Tribunale di Trani L.M., sorella del predetto dante causa e proprietaria dell’altro appartamento componente la palazzinaro al primo piano,lamentando che la medesima le impediva l’accesso al sottostante vano interrato, nel quale erano collocati i servizi comuni dell’impianto idrico, conseguentemente chiedendo, in via principale, dichiararsi la proprietà comune del locale in questione e condannarsi la convenuta al ripristino dello stesso, in subordine dichiarasi il proprio diritto di accesso a detti servizi,con condanna in ogni caso della L. al risarcimento dei danni.

Costituitasi la convenuta, resistette alle domande, segnatamente opponendo la sua esclusiva proprietà del vano interrato ed, in via riconvenzionale, chiese la condanna dell’attrice a spostare altrove il proprio serbatoio.

Venne disposta ed espletata consulenza tecnica ed, a seguito della precisazione delle conclusioni, nelle quali la parte attrice aveva confermato la sola domanda subordinata, con sentenza del 21.9.00 il G.O.A della sezione stralcio dell’adito tribunale dichiarò la proprietà comune dell’impianto idrico,l’esistenza di una servitù di passaggio a favore dell’immobile dell’attrice per accedere allo stesso e condannò la convenuta alla consegna delle chiavi di accesso del locale alla predetta, oltre al rimborso della metà delle spese processuali, per il resto compensandole.

All’esito dell’appello proposto dalla soccombente, resistito dall’appellata, e dell’appello incidentale di quest’ultima, con sentenza del 4/28.2.05 la Corte di Bari, respinto il primo gravame ed accolto il secondo, confermava le statuizioni di accoglimento della domanda principale ed il rigetto della domanda riconvenzionale, condannando altresì la L. al risarcimento dei danni in via generica, compensando interamente le spese del giudizio di primo grado e condannando la predetta appellata a quelle del secondo. Tali, per quel che ancora rileva in relazione ai motivi di ricorso, le essenziali ragioni della suddetta decisione:

a) nel dichiarare la O. comproprietaria dell’impianto idrico il primo giudice non era incorso in extrapetizione, poichè la rinunzia alla domanda principale non atteneva a tale specifico oggetto, mentre la richiesta di accertamento della servitù di accesso presupponeva tale proprietà comune;

b) nell’atto di divisione dell’immobile materno, intervenuto il 30.12.76 tra la convenuta ed il fratello, dante causa dell’attrice, l’impianto di autoclave era stato espressamente compreso tra la parti comuni dello stabile;

c) conseguentemente,anche in considerazione dell’assetto dei luoghi risalente all’epoca in cui il fabbricato apparteneva ad unica proprietaria, si configurava la sussistenza di una servitù di accesso al vano interrato, poi attribuito alla convenuta,e non anche di una mera facoltà saltuaria ex art. 843 c.c., costituita per destinazione del padre di famiglia ex art. 1062 c.c.;

d) irrilevanti erano le doglianze espresse dall’appellante in riferimento alle considerazioni svolte dal primo giudice, circa la possibilità di compiere opere per la separazione dell’impianto comune dal resto dello scantinato, trattandosi di meri obiter dicta, inessenziali alla decisione.

Avverso tale sentenza la L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi. Ha resistito la O. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., nonchè omessa ed insufficiente motivazione nel capo della sentenza relativo alla declaratoria di proprietà dell’impianto di rifornimento e di pressurizzazione dell’acqua, lamentando che tale pronunzia sarebbe stata eccedente rispetto alla sola domanda confermata dall’attrice in sede di precisazione delle conclusioni, ponendosi in contrasto con il giudicato formatosi in ordine all’appartenenza dell’impianto alla sola attrice e confutando l’argomentazione della corte di merito, secondo cui la rivendicazione della proprietà comune dell’impianto avrebbe costituito una premessa necessaria della domanda subordinata, relativa al diritto di accesso allo stesso.

Le censure non meritano accoglimento.

L’interpretazione della domanda fornita dalla corte di merito, alla stregua delle vicende processuali che l’hanno caratterizzata, risulta corretta e va confermata. E’ agevole, anzitutto, osservare come, non essendo concepibile un diritto di accesso nell’altrui proprietà fine a sè stesso, una volta intervenuta la rinuncia alla rivendicazione di comproprietà del locale interratola confermata quella relativa all’accesso allo stesso, quest’ultima non avrebbe potuto intendersi se non in funzione dell’uso dell’impianto ivi collocatela cui natura condominiale era stata ab initio anche rivendicata.

In secondo luogo, va considerato che, non presupponendo tale comunione anche quella del locale, essendo i due diritti scindibili e non potendosi configurare al riguardo, come ha correttamente osservato la corte, un diritto personale o l’esercizio di una facoltà legale correlata a fatti episodici o transitori,come nell’ipotesi prevista dall’art. 843 c.c., per l’attinenza alle esigenze quotidiane di vita dell’impianto in questione, la superstite domanda non avrebbe potuto che intendersi comprensiva sia del diritto di comproprietà del bene suddetto,sia di quello di servitù, per l’accesso dalla proprietà attrice a quella di parte convenuta, ospitante l’anzidetto bene comune.

Incomprensibile risulta, poi, il profilo di censura deducente un giudicato interno, correlato alla non impugnata affermazione del primo giudice, secondo cui la convenuta si sarebbe distaccata dall’impianto in questione, restandone così unica proprietaria l’attrice, al cui appartamento lo stesso era asservito, non spiegandosi quale rilevanza preclusiva avrebbe potuto la relativa circostanza comportare rispettoalla domanda di accesso dell’attrice al bene, comunque proprio, rimasto nel vano interrato della convenuta.

Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1116, 922 e 934 c.c., nonchè omessa ed insufficiente motivazione sulla proprietà dell’impianto di raccolta e pressurizzazione dell’acqua, censurandosi la conferma da parte del giudice di appello della natura comune dell’impianto sulla base di un atto meramente dichiarativo, quale quello di divisione del 1976, nonchè del diritto di servitù, senza tener conto delle vicende successive alla suddetta divisione, in particolare della sostituzione, avvenuta l’anno successivo, a cura e spese esclusive della L., del vecchio impianto con uno nuovo e del successivo abbandono, da parte della medesima, dello stesso, da cui avrebbe dovuto desumersi la cessazione della precedente "comunione di godimento" e la conseguenza che la O. non avrebbe avuto più titolo per mantenerlo nello scantinato appartenente solo alla prima.

Anche tale motivo va disatteso.

La corte territoriale non ha affermato che l’atto di divisione del 1976 costituisse il titolo per l’acquisto della comproprietà dell’impianto in questione, ma semplicemente,sulla base di adeguato ed incensurabile accertamento documentale, che tale componente dell’immobile, comune ed indiviso fino alla stipula di quell’atto, fosse rimasto tale, al pari di altre parti dello stabile destinate all’uso e godimento di entrambi i condividenti, in virtù di una espressa clausola contenuta nel negozio.

Palesemente inconferenti e, comunque, non meglio chiariti risultano, pertanto, i richiami alle norme civilistiche citate, in tema di divisione e modi acquisto della proprietà, in particolare, di accessione, mentre irrilevanti risultano le dedotte successive vicende, atteso che l’avvenuta sostituzione ad iniziativa e spese di uno dei condomini delle parti, sia pure essenziali, di tale impianto non avrebbe potuto comportare l’estinzione del diritto di comproprietà spettante all’altro o farlo degradare a mero diritto di godimento, potendo al più dar luogo, nel concorso delle condizioni di cui all’art. 1110 c.c., al diritto al rimborso.

Nè tali effetti avrebbero potuto ascriversi all’assunto successivo distacco, da parte della L., da tale impianto, sia ostandovi il principio di irrinunziabilità alle cose comuni dettato dall’art. 1118 c.c., sia perchè la dedotta dismissione dell’uso di una di tali cose, da parte della condomina, non avrebbe potuto obbligare l’altro partecipante a fare altrettanto.

Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, 1102 e 1062 c.c. nonchè omessa ed insufficiente motivazione sulle servitù condominiali, per contrasto con il principio secondo cui siffatti diritti reali in ambito condominiale sarebbero configurabili soltanto nel caso, nella specie insussistente, in cui un condomino riceva dal bene comune o impianto condominiale una utilità ulteriore e diversa rispetto a quella che, secondo la naturale destinazione della cosa, ne ricevono le altre unità immobiliari.

Il motivo è manifestamente infondato, invocando un principio che, come si desume dalla giurisprudenza di legittimità richiamata (Cass. n. 1207/93), non è conferente alla fattispecie, in quanto attinente ai casi di servitù gravanti a carico di parti comuni, dell’edificio a favore di unità in proprietà esclusiva, mentre nel caso in esame il rapporto di asservimento è stato accertato a carico di un immobile in proprietà esclusiva, al fine di consentire l’accesso all’impianto comune.

In altri termini, essendo sia il fondo dominante, sia quello servente, costituiti da unità immobiliari in proprietà esclusiva, non era necessaria la sussistenza di un uso più intenso del bene comune, ai fini della configurabilità del diritto reale in questione, essendo l’utilitas, costituita dall’uso proprio del bene comune secondo la sua naturale destinazione, riconducibile all’immobile dell’attrice, al cui servizio, sia pure pro quota, detto impianto era posto.

Con il quarto motivo vengono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1022 e 1030 c.c. ed omessa ed insufficiente motivazione sulla pretesa esistenza di un diritto di servitù di transito per l’accesso all’impianto di raccolta, pressurizzazione e sollevamento dell’acqua, in presenza di esigenze che, a tutto concedere, anche in considerazione della intervenuta rinuncia alla originaria domanda principale,avrebbero potuto essere riconosciute soltanto in termini di facoltà accessorie e funzionali al soddisfacimento di utilità occasionali e transeunti.

Anche tale motivo deve essere respinto.

Palesemente inconferente è il richiamo all’art. 1022 c.c. non venendo in discussione il particolare diritto reale di abitazione previsto da tale articolo, bensì una servitù prediale atipica, costituita per destinazione del padre di famiglia, in virtù della quale al proprietario del fondo dominante è consentito l’accesso a quello servente, non in via indiscriminata ed a proprio libito, bensì soltanto nei casi di specifiche esigenze correlate all’uso del bene comune collocato nel secondo.

Comportando l’esercizio di tali facoltà semplicemente un pati a carico del proprietario del fondo servente, altrettanto inconferente si palesa il richiamo al principio servitus in faciadendo consistere nequit dettato dall’art. 1030 c.c..

Per il resto il mezzo d’impugnazione riproduce mutatis verbis censure contenute in quelli precedenti, alle cui ragioni reiettive è sufficiente pertanto rinviare.

Con il quinto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè omessa ed insufficiente motivazione sul punto della sentenza relativo al mancato rimborso delle spese affrontate dalla convenuta per separare l’impianto in questione dal resto dello scantinato, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte barese, sarebbero derivate da una vera e propria statuizione, erroneamente adottata al giudice di primo grado in violazione del principio di cui all’art. 1069 c.c..

Anche tale censura deve essere disattesa, apparendo corretta la qualificazione di meri obiter dicta, fornita dalla corte barese, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza di primo grado circa la separazione della parte di locale ospitante l’impianto comune dal resto dello scantinato, non solo per l’assenza nella parte dispositiva di alcuna statuizione in tal senso, ma anche per la forma ("sarà cura di…") in cui la stessa risulta formulata, nella quale non è dato individuare in termini inequivoci e perentori l’imposizione di un obbligo in tal senso.

La ravvisata inessenzialità di tale affermazione, del resto, risulta anche coerente alla considerazione dell’avvenuto abbandono della domanda principale, di rivendicazione di comproprietà del vano scantinato, nell’ambito ed in funzione della quale l’attrice aveva formulato una richiesta in tal senso. Al riguardo, pertanto, non coglie nel segno l’assunto della ricorrente, secondo cui, con la proposizione in questione, sarebbe stato sancito, in violazione della citata norma civilistica, un indebito obbligo del proprietario del fondo servente di eseguire opere necessarie all’esercizio della servitù.

Aggiungasi infine,che nè nella narrativa della sentenza impugnata, che solo in parte motiva accenna (a pag. 10) a tali "inutili..

.doglianze", nè in quella del ricorso (v. pag. 7), vi è menzione alcuna della proposizione di un motivo di gravame specificamente diretto a confutare tale parte della sentenza del G.O.A. e, soprattutto, a recuperare le spese, che si assumono affrontate in ottemperanza a tale ritenuta statuizione, nè, ancora,il ricorrente precisa, nella presente sede, come e quando abbia provato o richiesto di provare l’esecuzione di tali opere ed i relativi esborsi; sicchè il motivo deve ritenersi, sotto tal profilo, nuovo o, comunque, difettante di autosufficienza.

Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 949 c.c., in ordine alla conferma del rigetto della domanda riconvenzionale negatoria servitutis, ribadendosi le, già in precedenza esposte, ragioni secondo cui la servitù sarebbe stata inconfigurabile, nonchè omessa ed insufficiente motivazione circa il diritto della deducente, quale proprietaria della maggiore quota di partecipazione al condominio, di ottenere lo spostamento dell’impianto in questione in luogo diverso dal proprio scantinato, in assenza di una servitù prediale esistente.

Il primo profilo del mezzo d’impugnazione resta reiettivamente assorbito dalle considerazioni in precedenza svolte, sulla base delle quali si è ritenuto che correttamente la corte abbia ravvisato la sussistenza di un diritto reale di servitù, costituito per destinazione del padre di famiglia, sulla base degli elementi desunti dall’oggettivo assetto dei luoghi preesistente alla divisione, non modificato con la stessa, e della natura permanente delle esigenze correlate all’utilitas del fondo dominante, e non semplicemente un diritto personale o un’obligatio propter rem, come sostenuto dalla convenuta.

Privo di fondamento è il secondo profilo, poichè la possibilità da parte del proprietario gravato di ottenere lo spostamento dell’esercizio della servitù prevista dall’art. 1068 c.c. può avvenire o nell’ambito dello stesso fondo servente, oppure, in altro appartenente al medesimo proprietario o ad un terzo, che vi acconsenta, condizioni nella specie non verificatesi, non avendo la convenuta formulato offerte in tal senso.

Quanto ad alternative ubicazioni in ambito condominiale, la corte di merito ha dato atto, sulla base di incensurabile accertamento di fatto basato sulle risultanze della consulenza tecnica, dell’insussistenza nell’edificio di spazi comuni adeguati, sicchè poco o punto rileva la dedotta titolarità da parte della convenuta ricorrente di una quota maggioritaria, che avrebbe giustificato una richiesta in tal senso.

Con il settimo motivo si lamenta, infine, insufficiente ed erronea motivazione, per la mancata ammissione della richiesta prova testimoniale, diretta a provare l’installazione del nuovo impianto nel 1977 a cura e spese della odierna ricorrente.

Il motivo non merita miglior sorte dei precedenti, tenuto conto della già evidenziata irrilevanza delle dedotte circostanze,successive alla divisione del fabbricatoci fini della sussistenza della servitù per destinazione del padre di famiglia,costituitasi all’atto del frazionamento dell’immobile,quando le parti lasciarono immutato il preesistente assetto dei luoghi ed il vecchio impianto, espressamente compreso dai condividenti tra le parti comuni, oltre che della inidoneità, anche in precedenza ravvisata di tale unilaterale iniziativa della condomina ad estinguere i diritti di comproprietà e di servitù spettanti all’altro.

Il ricorso va conclusivamente respinto.

Le spese, infine, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso,in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, ivi compresi 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori nelle misure di legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 agosto 2012

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