Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 24-06-2013, n. 27697

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 04.12.2012 il Tribunale di Lecce, costituito ex art. 310 Cod. proc. pen., rigettava l’appello proposto da H. F. avverso il provvedimento 30.10.2012 del Gip della stessa sede con il quale gli era stata negata l’autorizzazione ad assentarsi dagli arresti domiciliari per prestare attività lavorativa.- Rilevava invero detto Tribunale come l’ H., che pure aveva documentato plausibile offerta di lavoro, non avesse dimostrato la condizione di indigenza che poteva giustificare la chiesta autorizzazione ai sensi dell’art. 284 c.p.p., comma 3.

2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto imputato che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, argomentando -in sintesi- nei seguenti termini: la situazione di indigenza era già documentata in atti, trattandosi di soggetto, di nazionalità afgana, privo di fonte di guadagno, in stato di restrizione dal Luglio 2011, già ammesso al gratuito patrocinio.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, infondato, non può essere accolto.

2. Ed invero deve rilevare questa Corte come, sul tema proposto dal ricorso, la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito che, se pure non si debba fare riferimento ad un’impostazione c.d.

"pauperistica", il concetto di "assoluta indigenza", quale richiesta dall’art. 284 c.p.p., comma 3, debba essere valutato con particolare rigore (così Cass. Pen. Sez. 3, n. 34235 in data 15.07.2010, Rv.

248228, Gatti). In tal senso si è correttamente informato il Tribunale di competenza nell’impugnata ordinanza che ha anche osservato come l’indagato, nel proporre la sua istanza di autorizzazione al lavoro, non avesse neppure allegato una propria situazione di assoluta indigenza. Si trattava, quindi, non già e non solo di una problema di documentazione (come sostiene l’atto di ricorso che assume la preesistenza, agli atti, di adeguata giustificazione), ma proprio di mancata assunzione, in capo all’istante, di versare nella particolare situazione richiesta dalla norma pur invocata. Del resto, vagliando gli argomenti proposti con il ricorso, deve ritenersi che – pur dandosi atto delle difficoltà esistenziali dell’ H. – di certo l’ammissione al gratuito patrocinio non prova in sè assoluta indigenza (stanti i limiti di reddito previsti per l’istituto), così come le vicende legate all’immigrazione, pur foriere di difficoltà di vario tipo, di per sè non consentono automatica equiparazione all’assoluta indigenza.

Deve dunque concludersi che le deduzioni del ricorrente non possono dirsi risolutive sul punto, in una situazione in cui neppure l’istante ebbe ad invocare situazione di assoluta indigenza. Il provvedimento impugnato, dunque, per quanto sintetico, risulta correttamente motivato, mentre non può questa Corte, per i suoi limiti istituzionali, procedere ad una sovrapposizione valutativa nel merito.

3. In definitiva il ricorso, infondato, deve essere respinto. Al completo rigetto dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *