Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 24-06-2013, n. 27692

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con decreto in data 10.05.2011 la Corte d’appello di Napoli rigettava il ricorso proposto da V.A. avverso il provvedimento di primo grado che aveva applicato nei suoi confronti, ai sensi della L. n. 1423 del 1956 e L. n. 575 del 1965, la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza per anni tre con obbligo di soggiorno di pari durata.

In particolare la Corte territoriale confermava il giudizio di pericolosità dato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere fondato sugli esiti del processo penale a carico del V. dai quali risultava che lo stesso, già assistente della Polizia Penitenziaria, si era reso contiguo al clan camorristico Belforte esplicando condotte di favore nei confronti di appartenenti a detto clan in stato di detenzione. Tale giudizio refluiva dalle affidabili dichiarazioni del collaboratore F.M., riscontrate, valutate con l’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale, non sminuite da quelle di altro collaboratore, indotto dalla difesa, G.A., che pure aveva riferito di avere in seguito saputo della disponibilità del V., ancorchè non ne aveva avuto precedente scienza diretta.

2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il predetto proposto che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge, in particolare argomentando – in sintesi – nei seguenti termini: la ritenuta contiguità a clan camorristico non era emersa da fatti obbiettivi e riscontrabili, come doveva ritenersi necessario, ma da riferimenti soggettivi incerti, risultando poco comprensibile il giudizio della Corte territoriale di scarsa rilevanza delle dichiarazioni del G..

Motivi della decisione

1. Il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve essere dichiarato inammissibile con tutte le dovute conseguenze di legge.

2. Deve anzitutto essere ricordato come in subiecta materia il ricorso per cassazione sia consentito solo per violazione di legge, come statuiscono la L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 11 e la L. n. 575 del 1965, art. 3 ter, comma 2. Da ciò consegue che il controllo in sede di legittimità non si estende al vaglio, nel merito, dell’iter giustificativo del decreto impugnato (cfr., ex pluribus, Cass. Pen. Sez. 6, n. 35044 in data 08.03.2007, Rv. 237277, Bruno;

Cass. Pen. Sez. 6, n. 15107 in data 17.12.2003, Rv. 229355, Criaco;

ecc.). Sono quindi inammissibili tutti quei profili del ricorso che, seppure proposti sub specie vizi di legittimità, in realtà attengono ad asseriti vizi della motivazione, dovendosi nel concreto escludere che il provvedimento impugnato sia affetto da motivazione inesistente o meramente apparente, tale essendo quella che non rende comprensibile il percorso argomentativo del giudice, ovvero "sia del tutto avulsa alle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa" (in tal senso cfr., tra le tanti conformi, Cass. Pen. Sez. 5, n. 24862 in data 19.05.2010, Rv. 247682, Mastrogiovanni; ecc.). Infine i limiti istituzionali del controllo di legittimità devono fare escludere, ex art. 606 cod. proc. pen., il vaglio dei proposti profili fattuali, non essendo ammissibile una sovrapposizione valutativa di merito da parte di questa Corte.

3. Tanto doverosamente premesso, occorre comunque rilevare la manifesta infondatezza del ricorso in tutti i suoi motivi, posti i consolidati principi giurisprudenziali ai quali il decreto impugnato si è del tutto correttamente attenuto.

Va invero ricordato come l’autonomia del giudizio di prevenzione rispetto a quello penale imponga valutazione in fatto svincolata dagli esiti dell’eventuale processo per l’accertamento di reati;

elementi di prova o indiziari, infatti, ben possono essere tratti da processi penali ancorchè non ancora conclusi (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n. 4764 in data 06.11.2008, Rv. 242507, Mendicino; ecc.) e senza che, a questi fini, necessitino i requisiti previsti dall’art. 192 cod. proc. pen. (così Cass. Pen. Sez. 1, n. 20160 in data 27.04.2011, Rv. 250278, Bagalà). In tal senso risulta immune da vizi di legittimità la considerazione dei giudici del merito secondo cui dalle dichiarazioni dei collaboratori sopra citati, nonchè dagli elementi desunti dal processo penale a carico di componenti del clan camorristico Belforte, emergeva un quadro allarmante di concreta prossimità collaborativa del V., tale da assegnarlo ad un’area di appartenenza quanto meno in senso lato, ma rilevante ai fini della segnalata pericolosità. Va invero ricordato come, in relazione al giudizio da effettuare nel processo di prevenzione, non necessiti prova piena dell’affiliazione formale ad una consorteria mafiosa (il che si pone sul diverso livello della verifica penale del reato associativo), essendo più che sufficiente l’appartenenza all’ambiente, la condivisione delle logiche malavitose, la sottomissione ai soggetti intranei, l’esplicazione di condotte integranti facilitazioni o agevolazioni, la partecipazione agli interessi, e simili.

Ciò posto, è di tutta evidenza come l’ordinanza impugnata si sia attenuta del tutto correttamente a tali principi, elementi di rilevante pericolosità derivando dagli asservimenti posti in essere dal proposto in favore dei componenti del clan Belforte in stato di detenzione, a tal fine risultando più che adeguati, a questi fini, i chiari contributi collaborativi, non smentiti dal G. – di tal che il ricorso è asimmetrico sullo specifico punto – che ha pur sempre confermato le notizie, per quanto apprese successivamente, già propalate dal F.. Vi è dunque un sostanziale riscontro (ancorchè non strettamente necessario) per cui la narrazione si sottrae anche all’infondata censura di soggetti vita.

4. In definitiva il ricorso, manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile ex art. 591 c.p.p. e art. 606 c.p.p., comma 3. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186/2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2013
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