Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 24-06-2013, n. 27689

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Con ordinanza in data 26.09.2011 la Sezione di Taranto della Corte d’appello di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, pronunciando sull’istanza di G.A., riconosceva vincolo di continuazione in executivis, ex art. 671 cod. proc. pen., tra tutti i reati di cui alle sentenze 19.04.2005 (indicata sub 1) e 29.10.2004 (sub 2), per fatti associativi ed in materia di droga commessi tra il 1995 ed il 1996, così determinando la pena unica complessiva in anni venti di reclusione, in luogo di quelle di 13 e 10 separatamente inflitte. Con la stessa ordinanza era invece rigettata la richiesta con riferimento ai reati, pure in materia di droga, di cui alla sentenza 11.04.2008 (sub 3), sul rilievo che vi ostava la distanza temporale (trattandosi di fatti risalenti agli anni (OMISSIS)) commessi in un diverso contesto criminale.- 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto condannato che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, in particolare argomentando – in sintesi – nei seguenti termini: a) nullità del provvedimento per violazione dei diritti difensivi, attesa la mancata traduzione di esso ricorrente che, detenuto, aveva fatto richiesta di partecipare all’udienza camerale; b) erronea applicazione della pena complessiva, atteso che era stata presa a base l’intera pena della sentenza recante pena più pesante – quella sub 1 – che però a sua volta recava più reati unificati, mentre il cumulo andava scisso; c) errato rigetto in relazione ai reati di cui alla sentenza sub 3, trattandosi di fatti omogenei commessi negli stessi luoghi.
Motivi della decisione
1. Il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere respinto.
2. E’ infondato il primo motivo di gravame v. sopra, sub ritenuto, al par. 2.a, posto che, per chiara disposizione normativa (v. art. 127 cod. proc. pen., comma 3), l’interessato, se detenuto fuori della circoscrizione del giudice che procede, è sentito, se ne fa richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo. L’esame degli atti – reso necessario dalla natura della questione proposta – rende evidente che il G., detenuto fuori distretto, pur avvertito di tale sua facoltà, non ebbe a chiedere di essere sentito dal magistrato di sorveglianza. Di tanto da atto l’ordinanza 14.09.2011 del Presidente della Corte territoriale – che, dunque, risulta conforme alla normativa – con la quale era respinta la richiesta 13.08.2011 del G. di essere tradotto all’udienza. Tale ordinanza è, del resto, conforme alla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. Pen. Sez. 4, n. 39834 in data 12.07.2007, Rv. 237886, xxx: "Nel procedimento camerale "de libertate" l’indagato detenuto in luogo esterno alla circoscrizione del giudice non ha il diritto di essere sentito all’udienza fissata per il riesame della misura cui è stato sottoposto, ma solo il diritto ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza"). Dunque assolutamente non sussiste la denunciata nullità.
3. E’ del pari infondato il secondo motivo di ricorso v. sopra, sub ritenuto, al par. 2.b, posto che risulta corretto il procedimento di determinazione della pena, per riconoscimento della continuazione in executivis, come attuato dalla Corte territoriale.
Ed invero la continuazione, all’interno della sentenza indicata sub 1 nel provvedimento impugnato (emessa il 19.04.2005), era stata già riconosciuta dal giudice della cognizione tra i reati (ex art. 416 bis cod. pen., D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74) in tale sede giudicati. Tale giudizio del giudice della cognizione, comprensivo dell’entità della pena ascritta a titolo di continuazione, doveva essere rispettato dal giudice dell’esecuzione. La Corte di Taranto ha innovato sul giudicato ritenendo vincolo di continuazione tra i reati di tale prima sentenza e quelli di cui alla sentenza indicata con il n. 2 (emessa il 29.10.2004), quest’ultima per due diversi capi inerenti entrambi al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (con l’aggravante ex art. 80). E’ del tutto evidente che il giudice della esecuzione doveva soltanto determinare l’aumento di pena, a titolo di continuazione, per tali ultimi reati (invece della pena originariamente inflitta), lasciando immutata la pena per la sentenza (quella sub 1) presa a base per la maggiore entità della sanzione ivi inflitta. E’ ciò che la Corte territoriale ha fatto, con procedimento del tutto corretto. Peraltro, non è chi non veda che, anche a voler scindere i singoli reati, il giudice dell’esecuzione, con valutazione di congruità che discende dal complesso dell’ordinanza, ha comunque ritenuto implicitamente, ma senza possibilità di equivoci, di confermare l’entità degli aumenti ex art. 81 cod. pen., quali già effettuati, valutazione in tal senso consentita, in materia sussistendo solo il divieto di superare il tetto di legge.
4. Anche il terzo motivo di ricorso v. sopra, sub ritenuto, al par.
2.c non è fondato. La deduzione trattarsi di reati omogenei, commessi nella stessa zona (che è criterio corretto, ma non esaustivo), deve cedere a fronte della valida motivazione della Corte territoriale che ha valorizzato, in senso negativo, la notevole distanza temporale ed il diverso contesto di commissione dei reati in questione. Ed invero i fatti di cui alla sentenza indicata al n. 3 (emessa in data 11.04.2008) si riferiscono a condotte poste in essere negli anni 1990-1992, e cioè tre e più anni prima dei successivi fatti (di cui alle sentenza nn. 1 e 2), commessi negli anni 1995- 1996. Determinante poi risulta il diverso contesto criminale in cui tali reati sono stati consumati – elemento in sè non contestato dal ricorrente – il che deve far escludere un disegno unitario preordinato. Non è invero concepibile, peraltro in mancanza di circostanze diverse, non fornite, che al momento di commettere i primi fatti, il G. già avesse in mente, con la necessaria specificità, la perpetrazione di fatti analoghi ben tre anni dopo ed in un quadro associativo di tipo diverso. Anche sul punto l’ordinanza non è dunque censurabile.
5. In definitiva il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere respinto.
Al completo rigetto dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 24 giugno 2013
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