Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-08-2012, n. 14694

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Svolgimento del processo

S.A., premesso di essere stata titolare di assegno di invalidità trasformato in assegno sociale al compimento del suo sessantacinquesimo anno d’età, beneficio, questo, successivamente revocatole per superamento dei limiti di reddito a decorrere dal 1 agosto 1999, chiese al giudice del lavoro del Tribunale di Catania che venisse accertato, in difformità di quanto appurato in sede di revisione, il suo stato di invalidità civile totale fin dal giorno del compimento dei sessantacinque anni d’età ((OMISSIS)) ed il suo diritto al mantenimento dell’assegno sociale a prescindere dall’entità del reddito familiare previsto per tale prestazione.

A seguito di rigetto della domanda la S. impugnò la relativa decisione e la Corte d’appello di Catania adita, con sentenza del 15/3 – 10/4/07, respinse l’appello.

Nel respingere il gravame la Corte catanese precisò che, pur dopo la trasformazione del beneficio dell’assegno di invalidità civile in assegno sociale al compimento del sessantacinquesimo anno d’età dell’assistita, permaneva il potere del Ministero di verificare la sussistenza delle condizioni sanitarie preesistenti che avevano precedentemente consentito l’accesso all’originaria provvidenza di invalidità civile, con la conseguenza che l’accertata mancanza dei requisiti sanitari richiesti per l’assegno di invalidità rendeva indebite le prestazioni erogate successivamente alla visita di revisione, per cui legittimamente l’Inps aveva chiesto la restituzione dei relativi importi già corrisposti.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso S. A., la quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso l’Inps.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo la ricorrente denunzia la falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, del D.L. n. 323 del 1996, della L. n. 488 del 1998, nonchè la violazione della L. n. 118 del 1971, art. 19, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Ritiene la ricorrente che la potestà conferita al Ministero del Tesoro per la verifica dello stato di invalidità e per l’eventuale revoca del relativo trattamento pensionistico non possa più essere esercitata dopo che la persona assistita abbia compiuto il sessantacinquesimo anno d’età, in quanto in tale momento, per effetto dell’automatica trasformazione per legge della prestazione di invalidità civile in pensione sociale a carico dell’apposito fondo gestito dall’Inps, la medesima ha acquisito il diritto al mantenimento di quest’ultima provvidenza, senza che possa subire gli effetti retroattivi degli accertamenti medici ai quali venga sottoposta una volta superati i sessantacinque anni d’età.

Quindi, la S. evidenzia che nella fattispecie l’Inps non avrebbe potuto revocarle la pensione sociale, in quanto la Commissione medica l’aveva sottoposta a visita di controllo in un momento successivo al compimento del suo sessantacinquesimo anno d’età; la medesima deduce, altresì, che tale revoca era stata disposta dall’Inps sulla base dell’erroneo presupposto del superamento dei limiti di reddito previsti dalla legge con riferimento al reddito familiare, per cui l’ente previdenziale non avrebbe potuto pretendere la restituzione delle somme già erogatele.

L’erroneità della decisione dell’Inps di revocarle la prestazione discende, per la ricorrente, dalla considerazione che per la verifica della sussistenza del diritto al conseguimento della pensione sociale dopo il raggiungimento del sessantacinquesimo anno d’età si deve tener conto solo del reddito personale e non di quello familiare accumulato, per cui insiste per l’annullamento del provvedimento di revoca della prestazione e per il ripristino della stessa.

2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 26, come modificato per effetto della sentenza n. 88 del 9/3/1992 della Corte costituzionale, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

In tal caso la S. contesta la decisione della Corte d’appello laddove è affermato che a seguito della visita di revisione del luglio del 1999 le era stato riscontrato un miglioramento delle condizioni generali di salute, presente già prima del compimento del sessantacinquesimo anno d’età, tale da comportare una riduzione del suo grado di invalidità civile dal 76% al 55%, assumendo che il suo quadro patologico, come documentato in atti, era ben più grave di quello ipotizzato dai periti d’ufficio di entrambi i gradi del giudizio, sia prima che dopo la visita di revisione. Inoltre, secondo la ricorrente, la Corte d’appello aveva ignorato la circostanza, emersa dalla consulenza d’ufficio di secondo grado, per la quale a decorrere dal gennaio del 2005 essa assistita era da considerare totalmente invalida. In definitiva, la ricorrente denunzia la illegittimità della revoca della prestazione, in quanto attuata, a suo dire, in contrasto con la norma di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 26; nel contempo, la medesima evidenzia che se i giudici d’appello avessero tenuto conto dell’entità e della gravità del suo complesso invalidante non avrebbero potuto avallare la legittimità del provvedimento di revoca della pensione sociale e, in ogni caso, avrebbero dovuto riconoscerle il diritto al ripristino della prestazione dal mese di gennaio del 2005, epoca di accertamento della sua invalidità totale.

Tale essendo il tema della questione prospettata attraverso i suddetti motivi, non ignora questa Corte che in precedenza si è avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 13570 del 2/11/2001) che "in materia di pensione sociale cosiddetta sostitutiva, la L. n. 118 del 1971, art. 19, deve essere interpretato nel senso che la trasformazione in pensione sociale della pensione o dell’assegno mensile di invalidità al compimento del sessantacinquesimo anno di età avviene automaticamente alle stesse condizioni reddituali stabilite per il trattamento in corso di erogazione, senza che sia possibile alcuna autonoma valutazione da parte dell’INPS dei requisiti di ammissione e, in particolare, delle condizioni economiche dell’invalido".

Tuttavia, nella fattispecie il ricorso presenta evidenti profili di inammissibilità, oltre che di infondatezza.

Anzitutto, è fondata l’eccezione sollevata dalla difesa dell’ente previdenziale con riferimento alla dedotta mancata formulazione, da parte della ricorrente, dei quesiti di diritto a suggello dei motivi di censura posti a base delle denunziate ipotesi di violazione di legge, quesiti la cui proposizione si imponeva alla stregua di quanto prescritto dalla norma di cui all’art. 366-bis c.p.c., nella versione "ratione temporis" vigente.

Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. 3 n. 24339 del 30/9/2008) che "il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., deve comprendere l’indicazione sia della "regula iuris" adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile".

Si è, altresì, precisato (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4044 del 19/02/2009) che "il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a corredo del ricorso per cassazione non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la "ratio decidendi" della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto".

Nella fattispecie la ricorrente non ha articolato i prescritti quesiti di diritto a conclusione di entrambi i motivi per le parti riguardanti la denunzia di violazione e falsa applicazione di legge, per cui non è dato in concreto sapere quali sono le affermazioni di diritto contenute nella sentenza impugnata che sarebbero in contrasto con la L. n. 118 del 1971, comma 1, D.L. n. 323 del 1996, con la L. n. 488 del 1998, con la L. n. 118 del 1971, art. 19 e con la L. n. 153 del 1969, art. 26 e quale avrebbe dovuto essere il diverso principio che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione di quello adottato dalla Corte di merito, a nulla valendo la generica richiesta rivolta a questa Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma.

Sotto tale aspetto entrambi i motivi si rivelano, pertanto, inammissibili. E’, altresì, inammissibile il primo motivo nella parte in cui è genericamente annunziato, in rubrica, il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, senza che ad una tale proclamata violazione segua una spiegazione concreta del tipo di vizio motivazionale ravvisato e delle ragioni per le quali lo stesso, del quale non è dato sapere se attenga ad una insufficiente o contraddittoria od omessa motivazione, abbia reso l’iter argomentativo adottato in sentenza inidoneo ai fini della decisione in relazione al fatto controverso, per cui manca anche un momento di sintesi conclusiva omologa ad un quesito di diritto. In realtà, dalla lettura delle censure contenute nell’illustrazione del primo motivo emerge che le stesse attengono esclusivamente a presunte violazioni e ad una falsa applicazione di norme di legge in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale in ordine alla verifica della legittimità della revoca della prestazione adottata dopo che la ricorrente aveva compiuto il sessantacinquesimo anno d’età, ma non ad un vizio della motivazione.

Orbene, è utile ricordare che l’art. 366-bis cod. proc. civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod, proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a "dicta" giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo "iter" argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione" (Cass. Sez. Lav. n. 4556 del 25/2/09).

Il secondo motivo è, invece, infondato nella parte in cui fa riferimento a vizi della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

In tal caso l’illogicità e l’insufficienza della motivazione sono denunziate con riguardo al punto decisivo della controversia costituito dalla prospettazione di un quadro patologico, relativo sia al periodo precedente il mese di luglio del 1999 che a quello immediatamente successivo, rappresentato dalla difesa della ricorrente in termini di maggiore gravità rispetto a quella risultante dalle relazioni delle consulenze tecniche d’ufficio di entrambi i gradi del giudizio, per cui nel trascurare la segnalata entità del complesso invalidante la Corte di merito avrebbe finito per recepire acriticamente le conclusioni dei periti d’ufficio, avallando erroneamente la legittimità del provvedimento di revoca della prestazione.

L’infondatezza del motivo in esame discende dal fatto che, in base a quanto già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 2272 del 2/2/2007), "il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse".

Nella fattispecie in esame la Corte di merito, con argomentazione adeguata ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, ha rilevato che l’abbassamento del grado di invalidità civile dal 76% al 55%, così come appurato all’esito della visita di revisione risalente al mese di luglio del 1999, ed il miglioramento delle condizioni generali di salute da ritenere presente già prima del compimento del sessantacinquesimo anno d’età avvenuto solo poco più di un mese prima della stessa visita, trovava sostanzialmente riscontro nella consulenza tecnica d’ufficio collegiale disposta in sede d’appello che accertava un grado di invalidità del 56%. In realtà, dalla lettura delle ragioni di censura si evince che si è in presenza di un mero dissenso diagnostico rispetto alle valutazioni emerse dalla relazione della consulenza collegiale d’ufficio, fatte proprie dalla Corte d’appello, dissenso che, in quanto tale, non attiene ai vizi del processo logico, ma ad una richiesta di revisione del merito del convincimento dello stesso giudice non consentita nel giudizio di legittimità.

Invero, va ricordato che la valutazione espressa dal giudice di merito in ordine alla obbiettiva esistenza delle infermità, alla loro natura ed entità, nonchè alla loro dipendenza dall’attività lavorativa svolta costituisce tipico accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità quando è sorretto, come nella fattispecie, da motivazione immune da vizi logici e giuridici che consenta di identificare l’iter argomentativo posto a fondamento della decisione.

In effetti, allorquando il giudice di merito fondi, come nel caso in esame, la sua decisione sulle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, facendole proprie, perchè i lamentati errori e lacune della consulenza determinino un vizio di motivazione della sentenza di merito, censurabile in sede di legittimità, è necessario che essi siano la conseguenza di errori dovuti alla documentata devianza dai canoni della scienza medica o di omissione degli accertamenti strumentali e diagnostici dai quali non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi.

Orbene, sotto questo specifico aspetto, non è sufficiente, per la sussistenza del vizio di motivazione, la mera prospettazione di una semplice difformità tra le valutazioni del CTU e quella della parte circa l’entità e l’incidenza del dato patologico, poichè in mancanza degli errori e delle omissioni sopra specificate le censure di difetto di motivazione costituiscono un mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico e si traducono in una inammissibile richiesta di revisione del merito del convincimento del giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 7341/2004).

Egualmente infondata la parte della censura, di cui al secondo motivo del ricorso, che fa leva sul riconosciuto raggiungimento della totale invalidità all’epoca del mese di gennaio del 2005 al fine di giustificare, in via subordinata, la richiesta di ripristino della pensione sociale a decorrere, quantomeno, da quest’ultima data.

La ragione dell’infondatezza risiede nel fatto che il requisito sanitario sul quale poggia la suddetta richiesta è stato accertato con riferimento ad un’epoca successiva di circa sei anni rispetto a quella del compimento del sessantacinquesimo anno d’età in coincidenza del quale maturava il diritto alla trasformazione dell’assegno di invalidità in assegno sociale. Oltretutto, la doglianza in esame si rivela inconferente rispetto all’autonoma "ratio decidendi" della ritenuta legittimità del provvedimento di revoca che aveva tenuto conto del superamento del limite di reddito per la fruizione dell’assegno sociale.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Nulla va disposto in ordine alle spese di questo giudizio a norma dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 326 del 2003, atteso che il ricorso introduttivo risale al 21 marzo del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2012
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