Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-08-2012, n. 14691

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Svolgimento del processo
M.G., dipendente di xxx spa, ha chiesto che venga accertata la nullità della clausola del contratto collettivo del 1994, che prevede la risoluzione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con conseguente accertamento della continuità del rapporto medesimo e condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, detratto quanto percepito a titolo di pensione.
Il Tribunale di Livorno ha accolto la domanda dichiarando la nullità della clausola e la continuità del rapporto di lavoro, ma rigettando la domanda risarcitoria in difetto di un valido atto di messa in mora.
Avverso tale sentenza hanno proposto appello principale il lavoratore e incidentale la società xxx. La Corte d’appello di Firenze ha rigettato l’appello incidentale e, accogliendo parzialmente l’appello principale, ha condannato la società a corrispondere al lavoratore a titolo risarcitorio le differenze tra la retribuzione dovuta e la pensione percepita con decorrenza dalla data della notifica del ricorso introduttivo.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società xxx spa affidandosi a tre motivi di ricorso.
L’intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 71 del 1994, artt. 6 e 8, nonchè vizio di motivazione, in relazione alla statuizione con cui è stata affermata la nullità della clausola di risoluzione automatica del rapporto di lavoro, chiedendo a questa Corte di stabilire "se, in rispetto della L. n. 71 del 1994 (artt. 6 e 8), si è attuata una delegificazione, con la quale, implicitamente, ma univocamente e chiaramente, viene conferito al c.c.n.l. forza di legge, devolvendo direttamente funzioni normative alla contrattazione collettiva e attribuendo in maniera siffatta ai contratti collettivi delegati una efficacia vincolante per le parti (datore di lavoro e tutti i dipendenti di xxx)".
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 108 del 1980, art. 4, L. n. 54 del 1982, art. 6, L. n. 407 del 1990, art. 6 e art. 2118 c.c., anche con riferimento ai criteri ermeneutici di cui all’art. 12 disp. prel. c.c., nonchè vizio di motivazione, sul rilievo che la normativa collettiva non sarebbe in contrasto con norme inderogabili di legge per l’insussistenza di una norma inderogabile di prosecuzione del rapporto di lavoro sino al 65^ anno di età e stante l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 2118 c.c., chiedendo a questa Corte di stabilire "se, in rispetto del comma 2 della L. n. 108 del 1980 e della L. n. 54 del 1982, art. 6, bisogna escludere dal regime di stabilità sia reale che obbligatoria la posizione dei lavoratori ultrasessantenni, che abbiano raggiunto la massima anzianità contributiva, e bisogna escludere l’applicabilità degli istituti di cui all’art. 2118 c.c., in tema di recesso".
3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1217, 1218, 1223, 1227, 1175, 1375 e 2094 c.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente alla statuizione di condanna al risarcimento del danno in misura pari alle differenze tra la retribuzione dovuta e la pensione percepita con decorrenza dalla data di notifica del ricorso introduttivo, chiedendo a questa Corte di stabilire "se il diritto alla retribuzione sussiste soltanto in caso di effettivo svolgimento dell’attività lavorativa e il "termine iniziale", ai fini della quantificazione del risarcimento del danno spettante, va identificato in quello della costituzione in mora, ovvero dalla offerta formale delle energie lavorative (non possono considerarsi tali il tentativo di conciliazione o il ricorso), non potendo prescindere la liquidazione dall’accertamento del danno effettivamente subito dal lavoratore, anche secondo il principio della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c.".
4.- Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per riguardare problematiche strettamente connesse, devono ritenersi infondati alla luce dei principi ripetutamele affermati da questa Corte in fattispecie aventi ad oggetto questioni del tutto analoghe a quella in esame (cfr. ex plurimis Cass. n. 25864/2020, Cass. n. 10527/2010, Cass. n. 13292/2007, Cass. n. 2557/2006, Cass. n. 13715/2004, Cass. n. 4552/2004, Cass. n. 3237/2003, Cass. n. 1786/2003), secondo cui con riferimento al rapporto di lavoro privatizzato dei dipendenti dell’Ente xxx, in caso di comunicazione datoriale della cessazione del rapporto di lavoro fondata sulla clausola contenuta nell’accordo integrativo del contratto collettivo che prevede che il rapporto di lavoro si risolve automaticamente al raggiungimento della massima anzianità contributiva, attesa la nullità di detta clausola, il rapporto prosegue e permangono gli obblighi reciproci delle parti di prestazione lavorativa e di corresponsione della retribuzione;
essendo peraltro quest’ultima dovuta soltanto dal momento della costituzione in "mora crederteli" del datore di lavoro mediante l’offerta delle prestazioni da parte del dipendente.
5.- Nelle citate sentenze questa Corte ha già esaminato tutte le argomentazioni svolte al riguardo dalla società ricorrente ed ha ritenuto che "nella nuova regolamentazione legislativa (D.L. n. 487 del 1993, conv. in L. n. 71 del 1994) del rapporto di lavoro di diritto privato dei dipendenti dell’ente xxx, il contratto collettivo per tale categoria di personale – che non è autorizzato a derogare alla legge non essendo identificabile alcuna cosiddetta delegificazione della materia, ma solo privatizzazione del rapporto – non può innovare o derogare rispetto alle norma di legge imperative e quindi è nulla (ex art. 1418 c.c.) la previsione contrattuale, secondo cui (a partire dal 31 gennaio 1995) il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con effetto dal giorno successivo al compimento di quaranta anni utili ai fini pensionistici, perchè in violazione del principio (di natura inderogabile) secondo cui il rapporto di lavoro si può risolvere solo per licenziamento, per dimissioni, per mutuo consenso o per lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dalla L. 2 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 5.
6.- Le censure svolte con il secondo motivo non possono trovare accoglimento in quanto non sono pertinenti alla decisione adottata dalla Corte d’appello, la quale, ritenuta la nullità della clausola che prevedeva la risoluzione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento della massima anzianità contributiva, ed esclusa – come già ritenuto dal primo giudice – l’applicabilità alla fattispecie della L. n. 300 del 1970, art. 18, non ha affatto affermato il diritto del lavoratore a proseguire nel rapporto di lavoro subordinato fino al raggiungimento del 65^ anno di età, ma si è limitata ad affermare la prosecuzione del rapporto di lavoro, oltre la comunicazione datoriale, e la sua persistenza in difetto di un valido atto di estinzione del medesimo.
7.- Le censure in tema di mora accipiendi, in assenza di iniziative stragiudiziali del lavoratore volte ad esprimere la volontà di ricostituzione del rapporto, sono infondate. Questa Corte ha già precisato che in tema di risarcimento del danno subito dal dipendente postale, collocato in quiescenza per raggiungimento della massima anzianità contributiva, in conseguenza della declaratoria di nullità della previsione contrattuale secondo cui il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della detta anzianità, il prestatore non ha automaticamente diritto alle retribuzioni per il periodo successivo alla cessazione del servizio, neppure a titolo di risarcimento del danno, atteso che, in ragione della natura sinallagmatica del rapporto, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente (cfr. ex multis Cass. n. 25864/2010 cit, Cass. n. 10527/2010 cit., Cass. n. 13292/2007 cit.).
8,- Nella specie, la Corte d’appello, uniformandosi a tali principi, ha individuato l’atto di costituzione in mora nella notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, ritenendo, con un accertamento di fatto che non è stato sottoposto a specifiche censure sotto il profilo dell’interpretazione del contenuto dell’atto o del vizio di motivazione, che con lo stesso atto il lavoratore avesse manifestato in modo in equivoco la volontà di mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative.
9.- Anche sotto questo profilo, quindi, la decisione della Corte territoriale non merita le censure che le sono state mosse con i motivi di ricorso.
10.- Il ricorso va, dunque, rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.
Considerato che l’intimato non ha svolto alcuna attività difensiva, non deve provvedersi in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2012

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