Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-08-2012, n. 14686

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Palermo, confermando la decisione del Tribunale di Agrigento, ha rigettato la domanda proposta da B.P. ai fini del riconoscimento del diritto all’assegno mensile di invalidità civile, ritenendo che la ricorrente non avesse adeguatamente dimostrato la sua incollocabilità al lavoro, non avendo dato prova della iscrizione nelle liste di collocamento o, quantomeno, della presentazione della relativa domanda all’ufficio competente.

B.P. chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su due motivi. L’INPS resiste con controricorso. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, anch’esso intimato, non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Nel primo motivo, deducendo violazione degli artt. 112, 116 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e della L. n. 118 del 1971, art. 13, oltre a vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione di giudicato interno e per decisione ultra petita. Assume che, avendo essa devoluto in appello la sola questione della sussistenza del requisito sanitario, illegittimamente il giudice del gravame si sarebbe pronunciato sulla sussistenza dei requisiti socio- economici.

Il motivo è privo di fondamento.

La giurisprudenza di questa Corte (vedi, tra le più recenti, Cass. nn. 3881/2001, 4067/2002, 22899/2011, 2117/2012) ha avuto più volte modo di rilevare che, in materia di benefici economici previsti a favore degli invalidi civili (totali o parziali) dalla L. 30 marzo 1971, n. 118, artt. 12 e 13, il requisito reddituale e (per l’assegno mensile) il requisito dell’incollocazione al lavoro integrano elementi costitutivi della pretesa, la mancanza dei quali è deducibile o rilevabile d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio, con il solo limite del giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione di una statuizione esplicita ad essi relativa ovvero della statuizione che, senza pronunciarsi esplicitamente al riguardo, abbia accolto la domanda per la ritenuta sussistenza del requisito sanitario (la relativa, positiva verifica implicando quella della esistenza dei c.d. requisiti socio economici, in quanto indispensabile presupposto logico giuridico della pronuncia di accoglimento).

Nel caso in esame, la sentenza di primo grado è una sentenza di rigetto della domanda che non risulta essersi pronunciata, oltre che sul difetto del requisito medico legale, sulla presenza o meno delle altre condizioni di legge. Nessun giuridico impedimento, pertanto, alla stregua degli indicati principi, si frapponeva alla possibilità, per l’ente previdenziale, di eccepirne la carenza nel giudizio di secondo grado e, per il giudice d’appello, di procedere di ufficio al relativo accertamento.

Nel secondo motivo, con deduzione di violazione degli artt. 116, 416 c.p.c. e art. 437 c.p.c., comma 2; della L. n. 118 del 1971, artt. 12 e 13, della L. n. 482 del 1968, della L. n. 68 del 1999, art. 1, si censura la sentenza impugnata per aver applicato i principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità per gli invalidi civili di età inferiore ai 55 anni, senza considerare che la B. aveva superato l’età in questione, per cui "aveva provato (anche tramite presunzioni) lo stato di incollocazione mediante allegazione del proprio stato di casalinga e la produzione del proprio stato di disoccupazione…". Aggiunge la ricorrente che la sua posizione sarebbe sottratta (anche) alla nuova disciplina introdotta dalla L. n. 68 del 1999, imponendo il suo art. 1 l’iscrizione negli elenchi di cui al successivo art. 8 soltanto per gli invalidi in "età lavorativa" e, dunque se donne – solo per quelle con meno di sessant’anni, età che essa aveva già compiuto al tempo di entrata in vigore della legge in parola.

Anche questo motivo non è fondato.

Decisiva è la considerazione che, pur a voler seguire la tesi difensiva secondo cui la B. non era obbligata (secondo la disciplina vigente fino all’entrata in vigore della L. n. 68 del 1999) a fornire la prova della propria iscrizione nelle liste speciali degli aventi diritto al collocamento obbligatorio o, quantomeno, dell’avvenuta presentazione della relativa domanda all’ufficio competente, non per questo, tuttavia, la ricorrente era esonerata dall’obbligo di fornire la prova del proprio stato di disoccupazione o di non occupazione, seppure attraverso l’allegazione e la dimostrazione di fatti idonei a fondare a suo favore una presunzione al riguardo. Orbene, l’odierna ricorrente si limita a sostenere di aver assolto al proprio onere probatorio allegando e provando di aver superato i 55 anni di età e di essere una casalinga disoccupata senza tuttavia riferire – in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – quando e in che modo i fatti in questione, asseritamente trascurati dal giudice di merito, sarebbero stati allegati e dimostrati; trattasi oltretutto, di elementi privi di significato ai fini probatori, come già rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte a proposito dell’età dell’invalido (vedi Cass. n.l0205/2000, n. 7315/2002) e, va aggiunto, a proposito di condizioni – come, nel caso, quella di casalinga, che possono esser frutto di una libera scelta dell’interessato e dalle quali, pertanto, non è argomentabile la impossibilità, per quest’ultimo, di reperire un’occupazione compatibile con la dedotta riduzione della capacità lavorativa.

Non può, infine, non osservarsi che la L. n. 68 del 1999 è stata interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso, pienamente condivisibile, che uomini e donne devono considerarsi in età lavorativa fino al compimento dei 65 anni di età; per la qualcosa anche le donne invalide ultrasessantenni ma infrasessantacinquenni posso ritenersi incollocate al lavoro solo se essendo iscritte (o avendo presentato domanda di iscrizione) nell’elenco dei disabili di cui all’art. 8 della legge in parola non abbiano conseguito un’occupazione in mansioni compatibili (da ultimo, Cass. nn. 5085/2012 e 9155/2012).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

La ricorrente non è condannata al pagamento, in favore dell’INPS, delle spese del giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.L. n. 269 del 2003, art. 42, comma 11 (convertito nella L. n. 326 del 2003) nella specie inapplicabile ratione temporis; nulla deve disporsi anche nei confronti dell’intimato Ministero dell’Economia e delle Finanze, in difetto di una sua qualunque attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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